Quello che ho visto nella Russia sovietica

Umberto Nobile - prima parte

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  1. JDietzgen
     
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    Pubblico qui un’interessante testimonianza di un cittadino italiano vissuto in URSS dal 1931 al 1936.Il cittadino di cui si parla è Umberto Nobile, ingegnere ed aviatore napoletano della Règia aeronautica italiana,grande nome legato all’epopea dei dirigibili; ed è proprio in veste di direttore tecnico di un’impresa sovietica di costruzioni aerostatiche, che venne invitato a trasferirsi in URSS a inizio anni ’30.Vi era già stato prima, nel 1926, in occasione della preparazione di una spedizione polare.
    Nel 1945 dopo la vittoria dell’URSS nella grande guerra patriottica, visto il grande interesse del pubblico italiano,colse l’occasione per pubblicare i suoi ricordi di vita vissuta nel paese dei soviet; a differenza di Anna Louise Strong, non lo visitò in lungo e in largo,la Strong era una giornalista,Nobile un tecnico di base a Mosca.Rimase perlopiù nella capitale,abitando un appartamento vicino alla Lubianca,sede della GPU,ma ebbe modo di sperimentare molti aspetti della vita dei sovietici di quegli anni,le loro aspettative,il loro entusiasmo,soprattutto dei giovani.Potè vivere e respirare il progresso culturale,il fermento sociale a dispetto del generale livello di povertà ,poiché erano quelli gli anni del primo piano quinquennale e dell’apice della collettivizzazione,precismaente gli anni della carestia,la quale durò fino ad inizio del 1934,e la cui fine coincise con un repentino miglioramento del tenore di vita dei cittadini.
    Nobile era un cattolico osservante,ma non era mai stato troppo amato dal regime fascista e aveva in Italo Balbo un fiero avversario - per questioni sia politiche che tecniche,Balbo era, in aviazione, del partito della sostentazione aerodinamica (aeroplani),Nobile invece di quella aerostatica (dirigibili) – e nel dopoguerra finì col candidarsi come indipendente nelle file del partito comunista venendo eletto al parlamento italiano.Sicuramente di mentalità aperta e non ostile ai bolscevichi,le sue simpatie comuniste maturarono vedendo con i propri occhi i successi del socialismo sovietico,in contrasto con le brutture del regime oppressivo mussoliniano che portò il nostro paese alla tragedia della seconda guerra mondiale,guerra che avrebbe potuto cancellare secoli di progresso umano,se non fosse stato proprio per l’eroica resistenza del popolo sovietico.

    P.S: Vi chiedo di portare pazienza se vedrete molti di questi caratteri "¬".Non sono errori dell'OCR,escono solo nel momento in cui copio sul forum il testo scannerizzato dal formato word,e non saprei come eliminarli.

    Quello che ho visto nella Russia sovietica

    Introduzione
    Questo libro è stato scritto per rispondere alle innumerevoli domande che da ogni parte mi sono state rivolte sulla Russia sovietica.
    La curiosità attorno a quel paese è stata acuita dalla guerra. Il successo dell'esercito rosso è giunto talmente imprevisto e la forza di resistenza di cui han dato prova i popoli sovietici è stata talmente sorprendente, che è sorto in tutti il desiderio di saper qualche cosa di certo attorno alla loro vita. L'ignoranza in proposito era così vasta e profonda che mi son sentito più volte ripetere le domande più strane, ad esempio se in Russia esistesse o pur no una moneta come mezzo di scambio.
    Il libro, che non ha nessuna tendenza politica, vuol esporre in maniera obiettiva e spassionata le varie osservazioni da me falle durante i cinque anni e mezzo di soggiorno nella Russia sovietica, tra il principio del 1926 e la fine. del 1936, nel decennio, cioè, che vide operare in quel paese le più grandi trasformazioni sociali ed economiche e che, senza dubbio, fu il più decisivo per lo sviluppo e il consolidamento del regime comunista.
    Lo scopo principale del libro è quello, dunque, di contribuire alla conoscenza dell'Unione Sovietica. Questo lavoro di informazione è quanto mai necessario dopo tutte le deformazioni e diffamazioni della stampa nazi-fascista. La gente vuole soprattutto che le sia spiegato il segreto del successo militare sovietico. Era stato con tanta sicumera assicurato che, al primo urto bellico, al primo rovescio militare, le masse sovietiche, intolleranti del giogo bolscevico, si sarebbero sbarazzate di esso, la leggenda del colosso dai piedi di argilla aveva fatto talmente presa negli animi, che si è rimasti stupefatti a vedere che il crollo non avveniva nemmeno quando le armate tedesche erano alle porte di Mosca o sulle pendici del Caucaso.
    Da' qui è sorta un'insaziabile curiosità sulla Russia comunista.

    * * *


    Nel libro ho raccontato le cose così come le osservai, senza darmi alcun pensiero del come potrebbero essere interpretate. Ma l'obiettività da sola non basterebbe a dar valore al libro, se non fosse accompagnata anche da un'altra qualità: l'esattezza delle informazioni.
    Migliaia di persone hanno visitato l'Unione Sovietica e vi hanno soggiornato, taluna anche a lungo. Ma sulle altre io ho avuto il vantaggio di essermi trovato in contatto quotidiano con i giovani bolscevichi, senza che vi fosse alcuna prevenzione da parte loro verso di me, e tanto meno mia verso di loro. Dopo anni di questa vita in comune posso ben arrogarmi la pretesa di aver compreso qualche cosa dello spirito che li animava.

    * * *


    Un avvertimento va dato. Non mi sono occupato di questioni politiche e sociali, se non come se ne può occupare un uomo medio del mio tempo, che vuoi comprendere il mondo in cui vive e che questo mondo desidera si muova verso un ordine che elimini le ingiustizie sociali presenti e, soprattutto, elimini la guerra fra i popoli.
    Sono convinto che per l'umanità l'avvento di un ordine mondiale sia- una necessità impellente. In questo seguo l'opinione degli uomini di pen¬siero anglosassoni che ritengono urgente un'opera di adattamento delle comunità umane alle nuove condizioni create dalle scoperte scientifiche e dalle invenzioni del secolo scorso e di quello attuale. Senza questo adattamento l'uomo è destinato a soccombere.
    La Russia più di qualunque altro paese al mondo sembra preparata per la concezione di un ordine mondiale, giacchè è l'unico grande paese dove convivono pacificamente fra loro un gran numero di popoli, di differenti nazionalità, lingue e costumi, in un sistema politico che fa appello alla unione dei lavoratori di tutto il mondo, che è, praticamente, quanto dire l'unione di tutti gli uomini.
    Ma vi è un'altra ragione di attrazione per la Russia sovietica, e consiste nel fatto che vi si trova in atto un grandioso esperimento di economia sociale, dove la spinta del profitto individuale è stata abolita e sostituita dal motivo del dovere da compiere verso la collettività e se stesso. Ad un si fratto sistema, che costituisce un ordine sociale superiore, non può non volgersi con la simpatia più profonda lo sguardo di tutti gli uomini di buona volontà, che riconoscono che l'ordine economico dell'intero mondo si va lentamente muovendo, attraverso terribili crisi, verso la meta che la Russia bolscevica persegue con tanta ostinazione e tanta risolutezza.

    * * *



    Per quanto possa sembrare paradossale, la obiettività raggiunta nelle mie osservazioni è dovuta anche alla profonda simpatia che ho per l'Unione Sovietica: Quel mondo è così profondamente diverso dal nostro, che chi si avvicini ad esso, fosse pure senza preconcetti politici, ma senza una fondamentale simpatia, nulla può intenderne.
    Abbarbicati come siamo alle nostre secolari tradizioni, ci sentiamo naturalmente ostili ad accettare abitudini di vita completamente nuove. Al conservatore istintivo, che è nel fondo dell'animo di ciascuno di noi, ripugna dover rinunziare di botto ad abitudini inveterate; e si è perciò, non solo diffidenti, ma avversi al nuovo ambiente.
    Con tale disposizione di spirito ogni obiettivi là di osservazione e di giudizio necessariamente vien meno.
    La simpatia che mi lega all'Unione Sovietica è di lunga data. Essa ebbe origine nel 1926, quando per la prima volta mi recai in Russia per la preparazione di una spedizione polare. Il mio destino ha voluto che all'Unione Sovietica fossero collegate due grandi vicende della mia vita: l'impresa del Norge, che non avrebbe potuto effettuarsi senza l'aiuto porto con tanta larghezza dal Governo sovietico, e quella dell'Italia, che vide accorrere i Russi al soccorso dei naufraghi con una prontezza, uno slancio, di cui non si riscontra altro esempio nella storia delle spedizioni artiche.
    Quando, sperduti alcuni miei compagni ed io nelle solitudini ghiacciate del deserto polare, la radio ci portò la notizia del generoso accorrere dei Russi al nostro salvataggio, con due rompighiacci, il Krassin ed il Malighin, la gratitudine traboccò dal nostro cuore. In quella circostanza memorabile, raccolte dal fondo di una bussola magnetica poche gocce di alcool, brindammo all'Unione Sovietica. La censura fascista soppresse nel mio libro l'accenno a quel brindisi augurale levatosi dai ghiacci polari, ma non poteva certo sopprimere nel mio cuore il sentimento di gratitudine che l'aveva ispirato; sentimento che si fece ancora più forte quando, due anni dopo, i Russi mi invitarono a recarmi da loro a lavorare, proprio nel periodo più triste della mia vita, allorché il vivere nel mio paese mi era divenuto estremamente penoso.
    Tutti questi motivi di gratitudine, aggiungendosi ai motivi di attrazione intellettuale già accennati avanti, servono a spiegare il sentimento che mi animava e mi anima verso l'Unione Sovietica.
    Questo sentimento mi ha reso più facile, come dicevo avanti, di comprendere la vita che mi si svolgeva attorno durante il soggiorno in Russia, ma non si creda con ciò che esso mi velasse gli occhi impedendomi di vedere i difetti del sistema. Li vedevo chiaramente, ma non ne esageravo l'importanza, e soprattutto non perdevo di vista, fermandomi a considerate questo o quel particolare, l'insieme del quadro grandioso che innanzi a me si svolgeva.
    Lo scoppio della guerra fra la Germania e l'Unione Sovietica mi trovò in America, a Chicago. Sapendosi del mio soggiorno in Russia, era naturale che giornalisti ed altri si rivolgessero a me per conoscere la mia opinione sulla sorte della guerra.
    Era quello il tempo in cui generalmente, in America ed altrove, si facevano le previsioni più pessimistiche. I giornalisti, i diplomatici, gli informatori militari dei vari paesi avevano data per certa la insufficienza della preparazione bellica sovietica. Lindbergh, di ritorno da un viaggio in Russia, aveva proclamato nei circoli londinesi che sull'aviazione sovietica non vi era da fare alcun assegnamento. Conseguenza di queste false informazioni fu l'opinione generalmente diffusa che la Russia sarebbe stata presto messa fuori combattimento, anche più presto di quanto era avvenuto per la Francia. Se la Francia, col suo poderoso esercito, il «primo del mondo », non aveva potuto reggere all'urto ('ella terribile macchina bellica tedesca, come avrebbe potuto farlo l'Unione Sovietica ? L'aspettativa del crollo militare sovietico era generale, anche da parte di chi avrebbe dovuto esser meglio informato degli altri sulle cose di Russia. Un giornalista americano, W. Stoneman, che aveva vissuto per alcuni anni a Mosca, nel luglio 1941 telegrafava da Londra al Chicago Daily News che «i circoli militari londinesi si aspettavano che l'esercito sovietico potesse reggere ai tedeschi un mese o poco più ! »

    * * *


    Io non fui di questo avviso. Certo non avevo la pretesa di esser informato sulla consistenza della preparazione militare sovietica meglio dei servizi di informazione dei paesi dell'Asse o dell'Intelligence service. Tutt'altro. Anzi, bisogna dire che durante il mio soggiorno nell’U.R.S.S ., di proposito, non mi ero mai impicciato di cose militari. Non avevo mai messo piede in una officina o in un ufficio militare, mai chiesto la minima informazione. Tutto ciò che sapevo di quella preparazione era quello che potevano dirmi le parate del 1 maggio e del 7 novembre, quando sulla Piazza Rossa sfilavano i carri armati e nel cielo volteggiavano centinaia di aeroplani. Ciò nonostante, la mia convinzione era assoluta. I sovietici avrebbero tenuto duro. Si sarebbero fatti uccidere a centinaia di migliaia, ma non avrebbero ceduto.
    Ad un giornalista, direttore di un giornale locale in lingua tedesca, che mi chiedeva la mia opinione, dichiarai che la guerra sarebbe stata lunga e sanguinosissima. Il giornalista tedesco rise di cuore. « In sette o, al massimo, otto settimane, la Russia sarà schiacciata », mi assicurò nel modo più categorico.
    Il medesimo giornalista, incontrandomi un anno dopo, ebbe a dire: « Lei è stata una delle quattro o cinque persone in tutto il mondo che han previsto la resistenza russa ».
    Poteva aver esagerato; ma certamente dovevano essere assai poche le persone che avevano avuto in quel tempo fiducia nella capacità dell'Unione Sovietica a resistere all'invasione germanica.

    * * *


    Su che cosa, dunque, era fondata la mia opinione ?
    Sulla conoscenza che avevo della gioventù sovietica, del suo spirito di abnegazione, dell'entusiasmo con il quale essa lavorava alla creazione di un nuovo ordine mondiale. Questo entusiasmo era illimitato, irrefrenabile, contagioso. Costituiva il fenomeno più saliente della vita sovietica.
    È vero che durante il mio lungo soggiorno in Russia alcune cose avevo osservato che mi avevano ripugnato; è vero anche che il sistema aveva taluni difetti, che non avevo mancato di rilevare,tanto più che essi incidevano gravemente sulla efficienza del lavoro a me affidato. Ma non avevo mai commesso l'errore di generalizzare, di credere che in qualunque altro ambiente quei difetti si facessero sentire nella stessa misura. Né avevo limitato le mie osservazioni alla vita tecnica del paese. Certamente questa era interessante. Interessante era lo sforzo che si faceva per industrializzare il paese e renderlo indipendente dai paesi capitalistici. Ma di fronte alla creazione di un nuovo ordine sociale quello sforzo, pur grandioso come era, passava per me in seconda linea. Mi inte-ressavano assai più le varie manifestazioni della vita culturale, le nuove abitudini, le nuove istituzioni. Le seguivo specialmente attraverso il teatro ed il cinema, di cui più che ogni altra mi attirava la produzione che prendeva a soggetto i problemi attuali della vita sovietica. In questa vita vi erano cose che mi esaltavano, tentativi di realizzazione che mi commovevano. Vi erano altresì cose che mi indignavano, che provocavano la mia critica. Ma di tutte queste varie impressioni quella che contava era la impressione risultante, l'impressione che portavo con me tutte le volte che lasciavo la Russia per un viaggio in Italia, impressione che si delineava ed accentuava non appena, valicato il confine, venivo a contatto col mondo che avevo lasciato da tempo. Nel contrasto le impressioni si facevano più chiare, meglio definite, più evidenti. La Russia da lontano mi appariva, quale effettivamente era, come un immenso cantiere, dove con lena, senza un attimo di riposo, senza alcuna indulgenza per il vizio, milioni di persone lavoravano, con fede ed entusiasmo senza pari, ad un grande compito. Al confronto della piccola vita quotidiana dei popoli dell'Europa occidentale, la vita del popolo russo mi appariva quasi eroica. I suoi giovani avevano il senso di partecipare ad un'opera grandiosa di creazione. Essi discutevano problemi di carattere universale. Respiravano un'atmosfera ardente di idee. La loro vita individuale si trovava enormemente arricchita da una intensa partecipazione alla vita collettiva. Per la gioventù sovietica, da anni abituata alla lotta, una lotta titanica nella quale era guidata da uomini devoti ad un'idea fino al fanatismo, cambiare armi ed obiettivi era cosa facile.Essa avrebbe difeso con accanimento il proprio paese; si sarebbe fatta uccidere, ma non avrebbe ceduto. Mosca, il cuore del mondo sovietico, non poteva cadere nelle mani dei nazisti; nè poteva cadere Stalingrado, che prendeva nome dal capo. Furono per me facili previsioni: Mosca non cadde, nè cadde Stalingrado.
    L'esser stato capace di sollevare questo entusiasmo è stato il successo più grande del partito comunista sovietico. Senza quell'entusiasmo, in un regime economico dove l'iniziativa individuale per nuove imprese non era eccitata dalla sete di guadagni, come nei paesi capitalistici, si sarebbe avuto un fallimento completo del gigantesco esperimento.

    * * *


    Da alcune osservazioni contenute in questo libro risulta che la libertà individuale, entro i limiti imposti dalla costituzione sovietica (che vieta lo sfruttamento del lavoro altrui a proprio beneficio), era garantita, anzi, in certi casi, era perfino eccessiva.
    Era anche garantita ai cittadini la libertà di parola, ed infatti la critica di carattere tecnico o amministrativo era ammessa senza alcuna restrizione, anzi costituiva, come si vedrà dal mio libro, un dovere dei cittadini. Vi era anche, nel seno del partito, la libertà di esprimere il proprio pensiero politico, per cui avevano libero gioco le varie tendenze di sinistra o di destra. Ma restava tuttavia una limitazione importante: non era lecito discutere le risoluzioni adottate dalla maggioranza del partito stesso, nè potevasi all'infuori di esso esercitare alcuna critica politica. Tanto meno, poi, potevano venir discussi i principi stessi della costituzione sovietica.
    Questa restrizione della libertà di parola, di cui del resto si hanno esempi anche nei paesi anglosassoni, è certamente cosa grave. Essa può ammettersi in casi di guerra, o in periodi eccezionali di crisi, ma non può essere la norma permanente di una società civile. A lungo andare una tale soppressione della discussione politica porta ad un isterilirsi delle forze di propulsione delle comunità umane. La libertà di esprimere il proprio pensiero deve essere assoluta: la sola limitazione ammissibile è per i casi in cui di tale libertà ci si voglia servire per tentare di sopprimere la libertà stessa, o quando si voglia farne uso per minare le basi costitutive della comunità.
    La limitazione della libertà di parola e di stampa in tempi normali di pace é una grave iattura. Ma non si deve, forse, tener conto che la gigantesca opera compiuta dai sovietici si iniziò nel caos creato nel 1917 dalla disfatta militare e dovette proseguire fra le invasioni straniere, la carestia e l'ostilità di tutto il mondo capitalistico ? I trenta anni di regime sovietico non possono, forse, essere riguardati come trent'anni di guerra ? Churchill stesso lo riconobbe, or non è molto, in un discorso ai Comuni.
    Ma alcuni segni di ripristino della libertà intellettuale erano già evidenti prima di questa guerra. Vi erano scrittori, come Zoscenko, che potevano metter impunemente in ridicolo le debolezze del regime sovietico; e vi erano filmi dove si faceva una gaia caricatura dei dirigenti comunisti.

    * * *



    Il mio libro si riferisce alla Russia sovietica quale la conobbi prima della guerra, di quella Russia di cui H. G. Wells, uno dei più autorevoli rappresentanti del pensiero moderno anglosassone, concludendo una sua aspra critica, diceva che, « nonostante tutto, essa tiene in alto la bandiera della collettività mondiale e rimane, nello spettacolo del genere umano, come qualche cosa di splendido e pieno di speranze ».
    Dalla guerra la Russia sovietica emerge più forte, più rispettata, più temuta che mai. Ma quali sono le trasformazioni che colà, come in tutte le altre parti del mondo, avverranno per effetto della guerra ?
    Nessuno può dirlo. La guerra ha precipitato l'umanità in un caos tremendo, non solo materiale, ma morale ed intellettuale. La guerra moderna è una terribile distruttrice. Tutto essa corrompe e guasta, e niente risolve. Non solo barriere di confini, ma odi profondi, implacabili separano i popoli della terra. Miserie, carestie, migrazioni forzate di milioni di persone, crudeltà di ogni sorta sono lo strascico della terribile calamità abbattutasi sul genere umano.
    I popoli, decimati, affamati, demoralizzati, disorientati, aspettano qualche cosa che dia loro una nuova speranza, attendono che da qualche angolo della terra si levi l'annunzio di nuove idee costruttrici.
    Di dove partirà il movimento che porterà alla liberazione finale dell'umanità dall'orrendo cataclisma che è la guerra moderna? di dove partiranno le voci che guideranno gli uomini a realizzare sulla terra l'ideale di fratellanza annunciato da Cristo or sono duemila anni?
    Roma, ottobre 1945
    UMBERTO NOBILE

    Samocritica

    NELL'AGOSTO 1931 presi parte alla spedizione del rompighiaccio Maliguin. Quando ne tornai, nel settembre, mi fermai alcune settimane a Mosca, ospite del Governo Sovietico, essendo stato richiesto, fra l'altro, di dare un parere su un progetto aeronautico che alcuni giovani ingegneri russi avevano studiato. Alloggiavo al Grand Hòtel, presso la piazza Rossa, che divenne presto una delle mie passeggiate preferite.
    Questa piazza, lunga più di un chilometro, è certamente una delle più affascinanti che abbia visto nelle mie peregrinazioni attraverso il mondo. La vista che se ne aveva entrandovi dal lato dell'albergo era imponente: nel fondo spiccava la mole portentosa della cattedrale di San Basilio; alla destra, lungo tutta la piazza, l'alta muraglia merlata del. Kremlino, dietro la quale si ergevano le numerose guglie e la cupo I risplendente d'oro; ai piedi della muraglia, severo, solenne nella sua geometrica semplicità, il mausoleo di Lenin. Nelle chiare e fredde giornate di quel settembre la piazza era particolarmente bella al tramonto quando il sole illuminava, indorandole, le cupole verdi della basilica. Una volta la mia immaginazione fu colpita dall'aspetto che aveva assunto il mausoleo. Il sole, basso sull'orizzonte, l'investiva di lato, riflettendosi sulle cupe lastre di marmo e suscitandovi come un incendio. Sembrava che il mausoleo fiammeggiasse come un rogo.
    La solennità di questo singolare monu¬mento era accresciuta dai due soldati che, rigidi sull'attenti, immobili come statue, vi montavano permanentemente la guardia. Spesso una lunga fila di persone si snodava serpeggiando per la piazza, aspettando in silenzio, per delle ore, che la porta si aprisse per entrarvi. Una volta vi entrai anch'io. L'interno era altrettanto semplice ed austero come l'esterno: lisce pareti di marmo rosso e nero, senza alcuna decorazione. Si discendeva giù nella cripta, ed in silenzio, lentamente, si girava attorno all'urna di cristallo che conteneva il corpo imbalsamato. Non era lecito fermarsi, ma i visitatori, pur procedendo, tenevano fisso lo sguardo sulla caratteristica testa, dal volto cereo, affinato, la barbetta a punta. Terminato il giro dell'urna, si usciva dal lato opposto a quello per cui si era entrati.
    Uno spettacolo impressionante nella sua semplicità. Erano persone che venivano da tutte le parti dell'Unione Sovietica a rendere omaggio al grande rivoluzionario. In seguito, durante il mio lungo soggiorno in Russia, dovevo apprendere che questa venerazione era di tutti. Anche persone delle vecchie generazioni, manifestamente ostili al regime sovietico, quando parlavano di Lenin, esprimevano il più profondo rispetto.
    Un giorno, dunque, attraversavo la piazza Rossa, accompagnato dalla guida che mi era stata data, una signora ebrea, nata in Siberia da ricca famiglia di mercanti: parlava in italiano, non bene, ma in modo da farsi capire. Giunti in prossimità del museo storico russo, la mia attenzione fu richiamata da una donna che parlava concitatamente con altre persone, quasi gridando. La sentii pronunziare il nome di Stalin. Incuriosito domandai che cosa dicesse : « Inveisce contro Stalin», rispose la mia interprete. «E può farlo impunemente?» osservai. «Ma non vedete che è una contadina ? », replicò ridendo la signora. « Chi volete che le dia fastidio per quello che dice ?».
    Restai sorpreso da queste parole. I giornalisti, in Italia ed altrove, ci avevano sempre dipinto la Russia come un paese, dove regnasse il più assoluto terrore, dove la gente non osasse dire la minima cosa contro il governo, non dico in pubblico, ma nemmeno nel segreto della propria casa. Ed ecco invece che nel centro di Mosca era possibile insolentire contro Stalin stesso. È vero che si trattava di una contadina: ma che sarebbe accaduto di una contadina italiana che, a piazza Venezia, si fosse messa a vituperare ad alta voce Mussolini ?
    Ma non fu l'unico episodio di tal genere. Alcuni giorni dopo mi trovavo nella sala di lettura dell'albergo ad aspettare qualcuno. Nella sala vi erano parecchie altre persone. In un angolo un ragazzo di quindici o sedici anni se ne stava seduto con un giornale fra le mani. Ad un tratto, rivolgendosi alla mia interprete, disse qualche cosa ad alta voce. Fra i due si intavolò una discussione. Il ragazzo parlava vivacemente, con decisione. « Di che parla ? », domandai. « Critica il piano quinquennale », rispose la signora. « Dice che è la causa per cui si soffrono ora tante privazioni ».
    Il ragazzo aveva ragione. L'esecuzione del piano quinquennale imponeva al popolo russo sacrifici molto duri. Tutte le risorse, tutte le energie del paese erano assorbite dal grandioso programma di industrializzazione cui Stalin aveva posto mano. In quel tempo, nelle strade di Mosca, la gente appariva assai mal vestita, e vi era certo anche scarsezza di alimenti, se nelle vetrine di taluni negozi si vedevano, in bella mostra,rotonde forme di formaggio colorate in rosso, del tipo che da noi chiamano olandese, che non era formaggio, ma legno. Questo curioso particolare allora mi colpì, ma non avrei mai pensato che precisamente la stessa cosa avrei rivisto undici anni dopo nelle vetrine degli eleganti negozi di salumeria berlinesi. Ma, se i sacrifici imposti al popolo russo dovessero dare i frutti che Stalin si aspettava, si è visto nella guerra attuale. Certo l'umanità deve anche alle dure privazioni sofferte allora dai russi se si è potuta salvare dalla barbarie nazista.
    I due episodi che ho riferito mi colpirono profondamente. Non bisogna dimenticare che venivo, non da un paese libero come l'Inghilterra o la Svizzera, ma dall'Italia dove, ormai, da otto anni imperversava il terrore fascista, e dove se, talvolta, due amici si arrischiavano a parlar male del regime fra di loro, tacevano di botto all'avvicinarsi di una terza persona, fosse pure amica.
    Tornai in Russia il primo maggio del 1932, e da allora vi rimasi fino al Natale del 1936. Quasi cinque anni di vita sovietica che costituiscono una delle esperienze più memorabili della mia vita agitata. Ebbi così la ventura di assistere da vicino, ed in qualche modo partecipare con lo spirito, a quel formidabile processo rivoluzionario che poneva le basi di una nuova società umana. Fui testimone della profonda trasformazione che la rivoluzione andava operando nella enorme massa della popolazione sovietica. Questa massa, che per secoli era stata inerte, passiva, subiva ora un tale rimescolamento da mettere in libertà tutte le immense energie latenti in essa. Il talento naturale, così grande nei russi, era stato risvegliato, lo spirito di iniziativa stimolato. L'intero paese era in un fermento enorme. I giovani russi mangiavano e vestivano male, è verissimo, ma in compenso la loro vita intellettuale aveva un ritmo ed una ampiezza sconosciuti alle altre gioventù europee. Essi discutevano di grandi problemi, interessanti l'intera umanità, ed agivano per la loro soluzione. Al sentir vantare le comodità materiali di cui si godeva in altre parti del mondo sorridevano con disprezzo: a suo tempo quelle comodità le avrebbero acquistate anch'essi, ma ora avevano altro a che pensare. Nell'atmosfera ardente in cui si muovevano, le necessità dello spirito avevano preso il sopravvento su quelle materiali. Strano paradosso di un regime le cui norme di vita si dicevano fondate su una filosofia materialistica.
    Questo fervore di attività, questa vita spirituale così intensa, era certamente una delle ragioni del fascino che la Russia esercitava sullo straniero che vi dimorasse a lungo, che avesse occasione di stare a contatto dei giovani e che fosse capace di intendere la vita che gli si svolgeva attorno.
    Qui, senza distinzione di razze, di colore, di nazionalità, tutti lavoravano alacremente a mettere le fondamenta di una nuova, rivoluzionaria forma di convivenza sociale. Ci si sentiva ringiovanire. Si tornava con la mente agli ideali di giustizia e fratellanza umana che ci avevano appassionato fin da i primissimi anni della giovinezza quando il nostro poeta cantava « ell'è un'idea ful¬gente di giustizia e di pietà ! ». Quegli ideali generosi erano, allora, stati tacciati e più tardi scherniti. Ma ecco che qui in Russia si lottava aspramente perchè divenissero una realtà vivente.
    Di estate, talvolta, mi recavo in vacanza in Italia. Appena oltrepassata la stazione di Niegoroloie e messo piede in Polonia, lo sguardo era rallegrato dalla vista delle persone ben vestite e dei buffet dei ristoranti rigurgitanti di ogni ben di Dio, ma non era più l'atmosfera pura ed ardente di Mosca. In Germania, poi, lo spettacolo delle strade di Berlino, con i tanti segni di corruzione, mi disgustava profondamente, contrapponendosi alla modestia, alla decenza della folla affaccendata che, a guisa di fiumana, si riversava lungo i marciapiedi delle strade di Mosca.
    Fuori di Russia, la gente si preoccupava solo di cose personali, ed io sentivo come restringersi l'orizzonte del mio spirito. Il mio cerchio intellettuale, man mano che mi avvicinavo all'Italia, si andava sempre più impiccolendo, dandomi come la sensazione di una crescente asfissia. Giunto a Roma, esso si trovava circoscritto dalle pareti domestiche: nulla più interessava, nulla poteva interessare, all'infuori della propria famiglia.

    * * *


    A promuovere quella profonda trasformazione delle popolazioni sovietiche da una massa amorfa, inerte, ad una massa attiva, in pieno fermento, carica di energie, penso che abbia avuto gran parte la politica della samocritica.
    Certo sarebbe stupido pretendere che in quel periodo di costruzione rivoluzionaria fosse lecito al privato cittadino discutere le idee fondamentali della politica sovietica o le direttive che venivano dagli organi centrali del partito. Quelle idee, o diciamo pure quei dogmi, erano il presupposto stesso della rivoluzione, rappresentavano quasi la carta costituzionale dello stato sovietico e si comprende perciò che non ne fosse consentita la discussione. Ma era pienamente consentito discutere il modo con cui quelle idee o direttive dovevano esser tradotte in pratica. Anzi la discussione era imposta come dovere di ogni cittadino. In questo, per l'appunto, consisteva la politica della samocritica: autocritica, diremmo noi. In tutti gli uffici, in tutte le aziende, in tutte le istituzioni sovietiche, qualunque fossero, da un laboratorio scientifico ad un'officina, da un ente pubblico ad una bottega, da un teatro ad un ristorante, da un ospedale ad una farmacia, avevan luogo periodiche riunioni, presiedute dai capi, dove si discutevano liberamente le varie questioni attinenti al servizio. Tutti gli interessati a quel dato servizio vi prendevano parte. In questo modo anche il più modesto dei collaboratori aveva la possibilità di rilevare errori, discutere programmi e suggerire idee o nuovi metodi di lavoro. Queste riunioni cui si dava il nome di soviescianie o sobranie si tenevano quasi giornalmente. Io stesso vi ho preso parte innumerevoli volte. Generalmente non veniva posto alcun limite di tempo e perciò, di solito, duravano a lungo, spesso troppo a lungo. Il più delle volte si tenevano di sera ed allora si protraevano fino alle più tarde ore della notte, senza che fossero interrotte nemmeno all'arrivo dell'immancabile tè, che veniva portato in giro insieme a fettine di pan di segala ricoperte di caviale.
    Non è a dire, però, che il sistema non presentasse inconvenienti. La critica era spesso eccessiva, talvolta anche fatta da persone che non avevano alcuna competenza a discutere degli argomenti da esaminare o che, se pure competenti, non li avevano studiati preventivamente. Spesso anche il timore delle critiche , paralizzava l'opera dei capi, o comunque ne diminuiva il senso di responsabilità, spesso le conclusioni erano affrettate, prese senza una ponderazione sufficiente, e perciò errate, specialmente nel caso abbastanza frequente che i capi non sapessero guidare proficuamente la discussione o valutarne i risultati. Conseguenza inevitabile era un cambiar frequente di programmi, di idee, di progetti. Si capisce, perciò, che nel mio proprio campo tecnico assai spesso fossi intollerante di un tal sistema di critica così contrario alle abitudini dei paesi aventi un'organizzazione tecnica già ben progredita, dove, scelta la persona capace di dirigere un'azienda o una qualsiasi istituzione, la si lascia libera, entro i limiti fissati alle sue attribuzioni, di svolgere sotto la sua responsabilità il compito che le è assegnato, e dove, anche quando sia prescritto di ascoltare il giudizio di particolari organi consultivi, questo avviene limitatamente a questioni di particolare importanza e seguendo norme ben definite. Un sistema di critica non disciplinato, quasi da dilettanti, esteso a tutta l'opera quotidiana sarebbe stato per noi un inutile, anzi dannoso impaccio. Ma questo non era il caso della Russia. In Russia era quasi tutto da fare di sana pianta.
    Non vi erano abbastanza operai qualificati, nè ingegneri, nè amministratori provetti,nè soprattutto capi sufficientemente preparati al loro compito. In quel tempo i quadri dell'industria erano ancora da formare e, a conti fatti, si doveva riconoscere che quel sistema di disordinate discussioni in cui spesso consisteva la samocritica era ancora, nelle condizioni della Russia, il miglior mezzo per permetterne la formazione. Quella critica, sia pure eccessiva, di tutto ciò che formava l'oggetto del lavoro quotidiano, permetteva alle persone più capaci di farsi avanti, e consentiva agli organi centrali del governo di controllare l'operato dei capi comunisti prescelti a dirigere le varie aziende, controllo indispensabile, data l'impossibilità di trovare in quel tempo un sufficiente numero di capi sperimentati in cui si potesse aver fiducia. Ma è probabile che, una volta formati i quadri, a quel sistema di critica convenisse sostituirne un altro più razionale ed efficace.
    Ma sarebbe, a mio avviso, sminuire l'importanza dell'istituto della samocritica, considerarlo solo dal punto di vista della sua immediata utilità pratica nello sviluppo delle varie attività della vita sovietica. Che, nonostante i suoi gravi difetti, contribuisse al miglioramento della produzione è certo, ma di gran lunga maggiore era, io credo, la sua importanza come mezzo di educazione politica. Questo abituarsi del comune cittadino ad esaminare tutto e dare il suo parere su tutto, questo abituarsi a ricercare le deficienze di un programma di lavoro o del modo come esso era messo in esecuzione, costituiva davvero uno stimolo enorme di tutte le intelligenze. Lo spirito di iniziativa ne risultava eccitato, la stessa dignità individuale accresciuta. Ecco un altro dei paradossi della rivoluzione sovietica che pochi, credo, hanno rilevato. La propaganda ostile ci rappresentava la Russia come un paese dove ogni iniziativa individuale fosse repressa, dove l'individuo fosse ridotto a poco meno di uno schiavo in balìa di un tirannico potere statale, mentre invece la mia esperienza di cinque anni mi portò alla conclusione che in Russia, almeno nel campo della produzione, veniva lasciato al singolo individuo una libertà di scelta, di iniziativa, di critica, che in molti casi, a me straniero, pareva eccessiva, e lo era infatti. Tanto meno poi si può parlare di abbassamento della dignità personale, se perfino lo sguattero della cucina di un albergo, o il facchino che lustrava i pavimenti delle camere, poteva, nelle periodiche riunioni di servizio, liberamente discutere di piani di lavoro e del modo come attuarli.Negli altri paesi ad un inserviente si fissano il compito da eseguire ed il salario e basta .
    In Russia nessuno poteva criticare i principii direttivi della politica sovietica, questo è verissimo. Ma chiunque poteva libera¬mente rivolgersi alla Pravda o all'Izvestia per denunziare un sopruso od un inconve¬niente. Nell'Italia fascista, per contrapposto, l'insincerità, la menzogna erano elevate a regola di vita, e sotto il pretesto che costituisse una forma larvata di antifascismo ogni critica, anche la più innocua, veniva soffocata, specialmente quando minacciava di ledere gli illeciti interessi di qualcun delle cricche dominanti. Ricordo il caso tipico di un giornale di Roma, per giunta ultrafascista, il quale venne sequestrato pei aver pubblicato alcune lettere di privati cittadini che criticavano la progettata riforma del servizio auto-tramviario !
    Che cosa sia oggi divenuto di quella politica della samocritica non so, ma qualunque trasformazione abbia subito, sta il fatto che essa contribuì alla pienezza di vita dello gioventù sovietica. I giovani russi erano chiamati a partecipare con tutte le loro forze alla costruzione della nuova società. Ciascuno aveva la sensazione di essere non già uno strumento cieco, ma un artefice consapevole di essa.
    Questa gioventù era allegra, entusiasta, pur in mezzo a gravi preoccupazioni, pur dovendo sopportare condizioni di vita durissime. Dalle mie finestre, all'angolo della Lubianca, vedevo passare, nelle gran¬di ricorrenze della rivoluzione, il primo maggio, il sette novembre, cortei intermi¬nabili di giovani che si dirigevano verso la piazza Rossa. Nelle soste del corteo essi scherzavano, cantavano, ballavano, davano sfogo, decentemente, alla loro esuberanza di vita. Alla fine del 1936, quando tornai in Italia, riassumendo le mie esperienze di cinque anni di vita sovietica, espressi agli amici il mio pensiero su quella gioventù con queste parole: « se una guerra scoppiasse, l'Eu¬ropa farà i conti con essa».
    Ed ho avuto ragione.

    Kremlioskaia Balnitza

    ALLA fine del febbraio 1933 improvvisa¬mente mi ammalai. Un insospettato attacco di appendicite, da me trattato come una banale indisposizione viscerale, condusse alla perforazione della appendice e ad un inizio di peritonite.
    A casa mi trovavo solo. Trascorsi la notte delirando per l'alta febbre. La mat¬tina seguente, appena venne Niura, la mia domestica di quel tempo, feci telefonare per un medico.
    Questi giunse dopo qualche ora. Era dell'ospedale del Kremlino. Visto di che si trattava, concluse che non era affar suo. Avrebbe fatto venire un chirurgo.
    Il chirurgo arrivò. Visitatomi scosse la testa, ed in russo, credendo che non com¬prendessi nulla, annunziò a Niura che il caso era molto grave. Bisognava operare subito. Ma difficilmente sarei sopravvissuto all'operazione. Andò via dicendo che avrebbe fatto venire il chirurgo primario dell'ospedale. Così nel pomeriggio di quel giorno feci conoscenza col dott. Oc'kin.Oc'kin mi riuscì subito simpatico. Era un uomo sulla quarantina. Faccia aperta, biondo, con gli occhi azzurri. Vestiva bene, quasi con eleganza.
    Mi visitò anche lui; poi sorridendo mi disse: « Faremo subito l'operazione ». E telefonò all'ospedale per far venire l'autoambulanza.Ebbi appena il tempo di mettere un po' in ordine le mie cose con l'aiuto degli ingegneri italiani, che frattanto eran venuti a casa. Ad uno di essi consegnai una lettera per mia moglie e diedi istruzioni su ciò che vi era da fare nel caso che non fossi uscito vivo dall'ospedale.
    Giunta l'auto-ambulanza, fui adagiato su una barella e trasportato. Ricordo Niura sulla porta che mi guardava costernata ed i vicini di casa nel cortile, che, in silenzio, facevano ala al passaggio.
    Pochi minuti di tragitto e fummo al¬l'ospedale. Nell'entrarvi ebbi subito l'impressione di trovarmi in un ospedale mo¬dello, dove tutto era nitido e ben ordinato. Mi trasportarono nella camera assegnatami, dove un medico venne a radere la parte che doveva essere operata. Poi, rimesso sulla lettiga, fui portato nella sala operatoria.
    Una gran sala, tutta bianca, illuminata a giorno. Vidi nel centro, attorno al tavolo operatorio, quattro persone in fila, rivestite di camici di un biancore immacolato, con le mani inguantate, tese in alto. Fui disteso sul tavolo. Poi qualcuno mi coprì la testa con qualche cosa. Sentii come una pioggia di etere sul volto, ed ebbi l'impressione di sprofondare ed essere dolcemente assorbito in un abisso. E fu tutto: non avvertii più nulla.
    Quando riaprii gli occhi, vidi davanti a me le figure di Feldmann, il capo della Dirigiablestroi, e del dottor Sander, il no¬stro medico. Ricordo di aver domandato loro « come stavano », ma le palpebre erano pesanti e richiusi di nuovo gli occhi. Nè vidi più alcuno. Più tardi nella notte mi accorsi che una piccola donna bruna mi teneva per le mani. Capii che non mi era consentito di muovermi.

    * * *


    L'operazione era stata grave. Alcuni giorni dopo Oc'kin mi parlò di un flemmo¬ne che si era formato. Aperto l'addome sul davanti, l'aveva trovato pieno di pus, e subito si era deciso ad operare un secondo taglio di dietro per fare il drenaggio. Terminata l'operazione, egli e gli altri chirurghi conclusero che non sarei sopravvissuto. L'operazione era stata fatta troppo tardi.
    I giornalisti, specie quelli americani, che si erano subito precipitati all'ospedale a chiedere notizie, non vollero sentire altro. Era un annunzio sensazionale da comunicare subito ai loro giornali. Si affrettarono a telegrafare in Europa ed in America che ero moribondo; ma uno di essi, per far più presto ed esser certo di giungere prima degli altri a dar la notizia della mia morte imminente, telegrafò addirittura che questa era già avvenuta. Così, qualche settimana più tardi, ebbi la soddisfazione di leggere il mio necrologio in un giornale degli Stati Uniti.
    Il contenuto non era spiacevole.

    * * *


    Rimasi una settimana fra vita e morte. Nei primi tre o quattro giorni, quando da un momento all'altro si aspettava la fine, fu un accorrere al mio capezzale di amici, conoscenti, autorità, che venivano ammessi liberamente, in qualunque ora, a darmi l'estremo saluto. Poi, visto che non morivo, per alcuni giorni non si fece entrare più nessuno nella mia camera, all'infuori dei medici e delle infermiere.
    Fui curato, assistito, come non avrei potuto esserlo in nessuna altra parte del mondo. Medici, infermiere, tutti si prodi¬garono attorno a me per tirarmi fuori di pericolo ed affrettare la mia guarigione. Non fui lasciato solo un minuto, nè di giorno, nè di notte.
    Mattina e sera, per molti giorni di se¬guito, si riunirono attorno al mio letto a consulto i migliori chirurghi e medici di Mosca. Fra gli altri venne anche il medico di Gorki, il dottor Levin, che poi nel 1938 fu processato insieme a Tukacewski e fucilato.
    L'ospedale era attrezzatissimo. Gli ap¬parati medici di primissimo ordine e tenuti in modo perfetto. Le sale, i corridoi, eran belli, ariosi, lucidi, eleganti. Le cure vi erano meticolose; ogni due o tre giorni veniva un medico a prelevare il sangue per farne l'analisi. Al più piccolo disturbo ac¬correva uno specialista. Così divenni fami¬liare con tutti i medici del reparto: il dottor Niesnievic, polacco, il dottor Pogliaccik, il dottor Kotlaroff, il dottor Kantor, il dottore Ginsburg. Più simpatici di tutti erano Oc'kin, che mi aveva operato, ed il professore Rosanof, quello stesso che ave¬va operato Lenin.
    Attorno al mio capezzale si alternavano due infermiere, siestrì (sorelle), come dicevano in Russia. Gentili, premurose, affettuose come potrebbero essere delle persone di famiglia. Si chiamavano Veda e Elisa¬betta. Tutte e due erano maritate. Ad Eli¬sabetta ed a suo marito mi legai poi con affettuosa amicizia.
    La disciplina nell'ospedale era rigorosa e l'ordine assoluto. I visitatori erano ammessi solo in una data ora del pomeriggio, tre volte la settimana. Prima di entrare si faceva loro obbligo di indossare un camice, fresco di bucato, chiuso fino al collo.
    La camera che occupavo era posta in uno degli angoli dell'edificio, tutta linda, tinta di verde in basso, e bianco in alto. Dal mio letto vedevo un po' di cielo e la cupola di una chiesa vicina.
    La mia giornata passava regolarmente. Tutto era stabilito ed eseguito con grande puntualità. Alle sette del mattino comin¬ciavano le pulizie; la bocca, le mani, il volto, spesso gran parte del corpo con acqua ed aceto aromatico. Quando fu possibile, il bagno. Seguiva la colazione con cascia, pane bruscato, burro, caffè latte, caviale, marmellata. Poi veniva il barbiere. Alle dieci la medicazione. Per il pranzo come per la cena mi veniva presentata una lunga li¬sta di vivande, da scegliere.
    Alle cinque del pomeriggio veniva a visitarmi il sole, e dopo tanti mesi che non l'avevo visto, era proprio una gioia sentirsi avvolto dai suoi raggi dorati.
    Ai primi di aprile, dopo più di un mese trascorso all'ospedale, mi ero talmente abituato alla vita tranquilla che vi si conduceva, che pensavo perfino con dispiacere al giorno in cui ne sarei uscito. Avveniva come su un piroscafo, verso la fine di un viaggio, quando, avendo finito di conoscere un po' tutti a bordo, dispiace di separar¬sene. Qui, all'ospedale, ormai conoscevo uno per uno medici, infermieri, inservienti. Conoscevo anche molti ammalati e scam¬biavo visite con loro.
    Non mancavano trattenimenti. Anzitutto il « Club », una sala, situata giusto in fac¬cia alla scala, dove i convalescenti si riu¬nivano, mattina e sera, per giocare a scac¬chi o a carte. Poi, al quinto piano, il Solarium, da cui si godeva la vista del cielo e delle guglie del Kremlino. Sdraiati como¬damente su divani, vi si poteva leggere ed ascoltare la radio, ma spesso vi incontravo ammalati che l'odiavano quanto me e si affrettavano a chiuderla. Nei rari giorni in cui vi era sole, o in cui almeno non pio¬veva nè tirava vento forte, era lecito re¬carsi a passeggiare per un'ora sulla terrazza. Là incontravo di solito un signore che parlava molte. lingue, ed un po' anche l'ita¬Iiano. Si chiamava Abramof. Aveva fatto l'editore di Gorki, e perciò era stato molte volte in Italia. Con Abramof facevamo lun¬ghe chiacchierate. Era un veterano dell'ospe¬dale, dove si trovava da quattro mesi, e perciò era informato di tutto, e mi rac¬contava di questo o quell'ammalato, di questo o quel caso straordinario. Faceva grandi elogi di Oc'kin, di cui diceva non esservi l'eguale per la prontezza di deci¬sione nell'atto di operare.
    Interessanti erano anche i miei compagni di scacchi. Uno di essi, operato di otite, bravo giocatore, mi divertiva molto perchè, sapendo di avere una bella mano, la faceva volteggiare con gesti eleganti sulla scacchiera nel muovere i pezzi. Di un altro, assai sim¬patico, con le mani grosse ed i capelli arruffati, seppi che era un professore «ros¬so », come si diceva in Russia. Insegnava economia o qualche cosa di simile all'univer¬sità; ma, quindici anni prima, non era stato altro che un semplice operaio meccanico.
    Le mie conoscenze erano sparse tra il secondo piano, dove mi trovavo io, ed il quarto, dove riuscivo a salire anche senza ascensore. Fra gli altri, due bambini, l'uno di otto anni, che passava il suo tempo a giocare, l'altro di undici, che non faceva altro che leggere. La camera numero 75 era occupata da due donne. Di faccia a me vi eran, poi, due giovani, all'uno dei quali avevano amputato una gamba congelata, all'altro un piede. Li vedevo continuamente in giro, gioviali, pieni di buon umore, simpaticissimi.
    Tutti i ricoverati erano membri impor¬tanti del partito comunista o, comunque, avevano acquistato benemerenze pubbliche. Nessuno straniero era stato mai ammesso prima di me.
    Un mese e mezzo dopo di esservi entrato lasciai l'ospedale. Ero guarito. Qualche giorno prima il professore Rosanof, venuto a visitarmi per l'ultima volta, aveva esaminato le ferite che si cicatrizzavano, e colpendomi con la mano sul ventre, aveva detto in russo: « Adesso ci si può ballare sopra». Poi aveva aggiunto in francese:
    «Vous étes un cas très intéressant ». Gli domandai perchè, ed egli rispose: «Parce que vous étiez déjà un peu mort». E se ne era andato sorridente ed allegro, come sempre.
    Lasciai l'ospedale del Kremlino portando con me un ricordo incancellabile delle cure che così amorevolmente e sapientemente mi erano state prodigate. Quell'ospedale di eccezione non aveva forse l'eguale in tutta Europa e nemmeno in America per la perfezione dell'assistenza medica, ma era certo unico al mondo per il modo affettuoso con cui medici ed infermieri assistevano gli ammalati, pur non avendo alcun interesse materiale a farlo.

    * * *


    A Mosca ebbi occasione di visitare altri ospedali, dove erano stati ricoverati alcuni miei amici russi. Non avevano il lusso dell'ospedale del Kremlino; però anch'essi erano ben attrezzati. L'assistenza, del tutto gratuita, era quanto di meglio si poteva desiderare.
    L'organizzazione dei servizi medici nell'Unione Sovietica è certamente una delle

    più progredite del mondo. Specialmente mi parve che fossero organizzati bene gli am-bulatori per il pronto soccorso. Ebbi ma¬niera di constatarlo di persona, una volta che in casa mia De Martino, un tecnico venuto con me in Russia, fu colto da un improvviso malore. Tutti attorno rimanem¬mo spaventati. Corsi a prendere acqua da spruzzargli sul volto, ma un amico russo pensò che la miglior cosa fosse di telefo¬nare al più vicino posto di pronto soccorso (ve ne erano molti distribuiti nei vari quar¬tieri della città). Cinque minuti dopo giun¬geva in casa il dottore: una donna, prov¬vista di tutto ciò che poteva occorrere. De Martino, nel frattempo, si era riavuto; ma la medichessa, ad ogni buon fine, gli fece un'iniezione di qualche cosa. Mentre stava per andar via, le domandai cosa ci fosse da pagare. « Nulla», fu la risposta.

    * * *


    Vi erano in Mosca pronto-soccorsi perfino per le bestie, anch'essi gratuiti.
    Ne visitai uno, e dovetti riconoscere che era più pulito e meglio arredato di taluni, da me incontrati girando per il mondo, destinati non già a bestie ma ad esseri umani.

    Partinaia cistka

    QUANDO uscii dall'ospedale, trovai che il Constructor Biurò della Dirigiablestroi, men¬tre io ero ammalato, si era trasferito alla galleria della Petrovka, una delle principali strade del Centro di Mosca. Ivi rimase durante tutta l'estate.
    Si accedeva agli uffici da un ballatoio che correva tutto intorno lungo i quattro lati interni. Dall'alto, attraverso il lucer¬naio, il sole avvampava. L'estate a Mosca dura poche settimane ed è di solito assai bella, specialmente nelle notti quasi com¬pletamente chiare fra giugno e luglio. In quel breve periodo può fare molto caldo. Il sole, tanto sospirato durante i lunghi mesi invernali, finiva con l'essere perfino fastidioso in quell'ultimo piano della galleria della Petrovka.
    Una sera, nell'uscire dall'ufficio per recarmi a casa nel mio piccolo appartamento all'angolo della Lubianca, passando davanti al quadro degli ordini di servizio appeso alla parete presso l'uscita, vi scorsi un avviso piuttosto appariscente. Mi fermai a leggere quel poco che mi riusciva di interpretare. Vi era una lista di nomi a me noti: ingegneri con i quali da oltre un anno avevo dimestichezza: Paliniska, Matunin, Faxermann, ecc. A turno ciascuno di essi aveva ricoperta la carica di mio sostituto, qualche cosa come vice direttore o forse un po' di più. In russo si diceva « samiestitel». Era sempre scelto fra i membri del partito. Formalmente era subordinato a me, ma, in pratica, per le cose amministrative di cui più particolarmente si occupava, prendeva istruzioni diretta-mentre dal capo dell'organizzazione, che naturalmente era comunista anche lui.
    A fianco di ciascun nome compariva una data. Seguivano parole che non comprendevo. Il russo riesce tremendamente difficile per un italiano. Perciò non è da meravigliarsi che, sebbene avessi già trascorso due anni nell'Unione Sovietica, non balbettassi allora che poche parole di quella bella lingua. Si aggiunga che le difficoltà ad essa intrinseche venivano accresciute con l'abitudine, invalsa dopo la rivoluzione, di comporre nuovi vocaboli mettendo insieme le radici di varie parole. Per decifrare completamente l'avviso, dovetti ricorrere alla mia segretaria. Si chiamava Mèla Savin, una ragazza assai intelligente e svelta, che quando mi faceva da interprete aveva l'abilità di tradurre quasi parola per parola ciò che si diceva, senza che chi parlava dovesse per questo interrompersi. Mèla mi spiegò che si trattava della cistka del partito, epurazione, diremmo noi altri, ma io preferirei la traduzione letterale della parola russa che in italiano suona « pulizia». Anche nelle case meglio ordinate, dove si cerca di mantenere accuratamente pulita ogni cosa, è inevitabile che alla fine un po' di sudiciume si accumuli qua e là. Di tanto in tanto bisogna pur decidersi a fare una pulizia più a fondo. In Russia la ripulitura a fondo del partito comunista si faceva anche essa di tanto in tanto, tutte le volte che Stalin lo credeva necessario.
    Fin qui nulla di straordinario. Ma straordinario, e per me una sorprendente novità, era che questa epurazione si facesse in pubblico. Proprio così: in pubblico. Mèla mi spiegò che da alcuni giorni una commissione inviata dagli organi dirigenti del partito si era installata presso la Dirigiablestroi per prendere in esame e discutere pubblicamente l'operato dei comunisti che lavoravano presso di noi. Questi comunisti, nella nostra come nelle altre aziende, non erano molti, ma ne costituivano, direi, lo stato maggiore, occupando i posti di più grande responsabilità. Commissioni analoghe, mi diceva la segretaria, eseguivano un analogo lavoro di revisione presso tutte le organizzazioni, officine ed uffici dell'Unione Sovietica.
    « Posso assistere ad una di queste riunioni ?». «Ma certo », rispose Mèla. «L'accompagnerò io stessa». Che fossi curioso di vedere come procedesse in pratica questa « cistka » si comprende; ma, a dir il vero, la mia curiosità era acuita dal fatto che conoscevo personalmente i comunisti di cui dovevano essere discusse pubblicamente le buone e le male fatte.
    Sembrandomi strano, però, che uno, come me, non comunista e per giunta straniero, potesse venir ammesso ad una riunione di carattere, direi, così intimo, volli farmi confermare dalla direzione stessa della Dirigiablestroi il permesso di intervenirvi. Mi recai dal sostituto del capo. Si chiamava Matson. Era stato, dicevano, un pezzo grosso della G.P.U., , da cui proveniva, preceduto dalla fama di essere persona molto energica. « Tavarisch Matson (era il modo comune con cui ci si soleva indirizzare alle persone in Russia), Tavarisch Matson, credete che possa intervenire alla riunione di domani per la cistka del partito ? ». « Senza dubbio », rispose, «ne avete il pieno diritto. Qualunque cittadino può assistere e prendervi parte, anche se non abbia nulla da fare col partito o con la nostra organizzazione ». «Anche uno straniero ? ». « Si, anche uno straniero ».
    Me ne andai soddisfatto. L'indomani, dopo il lavoro, nell'ora stabilita, mi recai nella sala delle riunioni. Era la più spaziosa delle camere disponibili in quell'ultimo piano della galleria della Petrovka. Quando entrai era già gremita. Vi erano tutti i giovani ingegneri con i quali già da oltre un anno avevo consuetudine di lavoro e molte altre persone che vedevo per la prima
    volta. Gentilmente mi fecero passare avanti. Due sedie vennero offerte, in una delle prime file, a me ed alla segretaria. Ma la sala era talmente assiepata di persone che molte dovettero rimanere in piedi.
    Avanti a noi, dietro un lungo tavolo sopraelevato sul pavimento, siedevano i
    membri della commissione: tutti volti sconosciuti. Ad un lato del tavolo, alla nostra sinistra, era una specie di podio, sul quale, invitatovi dal presidente della commissione, salì Paliniska.
    Conoscevo Paliniska da un anno e mezzo. Era stato mio sostituto per parecchi mesi.
    Sulla trentina, alto, magro, ossuto, i capelli biondi, gli occhi chiari: un vero russo.
    Non aveva, forse, una grande intelligenza, e nemmeno, credo, una adeguata preparazione per il posto che aveva ricoperto, ma in compenso era semplice, diritto, schietto. Parlava sempre cori un tono pacato di voce; un Paliniska eccitato, nervoso, non avrei saputo immaginarmelo.
    Anche ora Paliniska era tranquillo. Senza enfasi, senza gesticolare, prese ad esporre
    tutto quanto aveva fatto negli ultimi due anni. Parlò dei vari uffici tenuti, dei vari incarichi disimpegnati, delle difficoltà superate. Mentre egli parlava, Mèla mi andava man mano traducendo, senza darsi alcun pensiero se il suo cicaleccio infastidisse o pur no i vicini, i quali pazientemente tolleravano, con quella indulgenza che è così caratteristica dei russi.
    Quando Paliniska ebbe finita la sua esposizione, il Presidente si rivolse all'assemblea: vi era alcuno che volesse fare osservazioni, critiche o accuse contro il compagno Paliniska ? Altro se ve ne erano! Qua e là nella sala si levarono in alto delle mani. Una dopo l'altra le persone parlarono, dal posto stesso dove si trovavano. Taluni si limitavano a porre delle domande: « perchè il compagno Paliniska in tale occasione aveva fatto così piuttosto che colà ? »; oppure, « perchè aveva omesso di fare la tal cosa ? ». Altri contestavano degli errori; altri, più severi, formulavano accuse di cattiva volontà o addirittura di inettitudine. Le critiche investivano non solo l'attività pubblica di Paliniska come membro del partito, non solo la sua attività amministrativa o tecnica, ma la sua stessa vita privata, familiare. L'intero procedimento mi dava l'impressione come di un tribunale popolare. Mi colpiva, fra l'altro, la franchezza delle accuse, la mancanza di acrimonia con cui venivano espresse e, ad un tempo, la calma con cui erano accolte dall'imputato, anche quando, come sembrava a me, fossero eccessivamente personali. Tutta la vita privata e pubblica di Paliniska veniva messa allo scoperto; tutte le sue azioni discusse e non solo le azioni ma talvolta anche l'inazione, la passività, la mancanza di iniziativa. E probabile che non tutte le accuse fossero giuste, come ad esempio quella di essere stato troppo indulgente con il proprio padre che, dalla discussione, risultò essere un contadino refrattario alle idee comuniste. Ma Paliniska aveva modo di discolparsi, replicando.
    Le accuse, le contestazioni, le repliche si protrassero a lungo, forse un'ora, forse più, e di tutto la commissione prese nota. Dopo si passò alla parte del procedimento che direi più piacevole, quando il presidente domandò ai presenti se vi fosse alcuno che volesse parlare in favore di Paliniska. Anche stavolta si levarono in alto delle mani qua e là, nella sala. Paliniska venne difeso e le sue benemerenze enunciate, dopo di che egli abbandonò il podio e un altro venne chiamato al suo posto.
    Nell'uscire dalla sala domandai a Mèla: « Ebbene, quali sono state le conclusioni ? ».
    « Non vi sono ancora conclusioni, rispose. La Commissione deciderà in altra sede, dopo che avrà confrontato i fatti risultati dalla discussione di oggi con i rapporti e le segnalazioni dei vari organi del partito, compresa la G.P.U. Forse dovrà indagare su qualcuno dei fatti. Soltanto dopo deciderà! ». « Ed in che cosa potrà consistere questa decisione ?».« Dipende », disse Mèla, « da ciò che in definitiva sarà risultato sulla condotta pubblica e privata di Paliniska. Potrà essere riconfermato membro del partito, oppure sospeso per un determinato tempo, od anche retrocesso a candidato. O forse, anche, potrebbe essere rimosso dalla carica attuale. Se vi fossero contro di lui risultanze gravi potrebbe essere espulso dal partito ».
    Povero Paliniska! Fare il comunista in Russia non era così comodo come fare il fascista in Italia.
    Alcuni anni fa vidi a Chicago un film molto divertente, edito dall'Unione Sovietica stessa, dove si faceva una gustosa satira del capo comunista di un piccolo centro industriale russo. Ecco una cosa che non sarebbe mai potuta avvenire nell'Italia fascista, e tanto meno poi nella Germania nazista, dove ogni capo, grande o piccolo, era tabù!
    Nel periodo eroico della costruzione in Russia, l'appartenere al partito non era niente affatto un comodo espediente per procacciarsi cariche, ricchezze, onori. Non si trovavano perciò molti, all'infuori dei giovanissimi, che aspirassero ad entrarvi. Avevo, fra i miei amici, un ebreo, piccolo, grassotto, dalla bella faccia paffuta, rosea, gli occhi celesti. Era il marito di Elisabetta Simeovna, ch'era stata mia infermiera all'ospedale. Occupava un posto amministrativo in una organizzazione attinente a non so più quale industria di metalli. Era molto intelligente, e credo che facesse assai bene il suo lavoro, a giudicare dallo stipendio che gli veniva corrisposto. Non apparteneva al partito, ma era comunista convinto ed entusiasta, sempre pronto ad esaltare la immensa opera di ricostruzione cui il partito aveva posto mano. Un giorno gli domandai: « Come mai, Abramo Jacovic (così si chiamava), con tutto questo vostro entusiasmo, non siete entrato nel partito ? ». « Ci ho pensato tante volte, mi disse, da anni, ma non ho saputo mai decidermi a farne domanda. Certo se lo avessi fatto, a quest'ora avrei un posto di maggiore importanza di quello attuale. Ma non me la son sentita di perdere la mia libertà. t una vita di duri sagrifici. Non si è mai padroni del proprio tempo. Se mi piacesse farlo, oggi stesso potrei abbandonare il posto che ho e cercarmene un altro, trattando liberamente le condizioni del mio salario; potrei, se me ne venisse la voglia, lasciare Mosca ed andare a stabilirmi a Leningrado o dove più mi piacesse. Non dovrei dar conto a nessuno. Ma, se fossi membro del partito, tutto sarebbe diverso. Mi assegnerebbero un posto, e dovrei restarci, volente o nolente. Mi si potrebbe all'improvviso ordinare di partire, questa sera stessa, ad esempio, per Arcangelo, o per gli Urali, o per qualunque altro posto dove si credesse più utile la mia opera. Dovrei ubbidire, senza fiatare. No, in verità, non me la sento ».
    Abramo jacovic aveva ragione. In Russia chi voleva esser libero di scegliere l'occupazione e la residenza più confacentiglisi, chi voleva disporre liberamente dei suoi periodi di riposo, chi voleva vivere senza grattacapi, ed in santa pace, doveva rinunziare ad entrare nel partito. Del resto nessuno lo sollecitava a farlo. Il partito costituiva una infima minoranza della nazione, una vera e propria élite di persone, alle quali, se pure talvolta eran concessi piccoli privilegi, come a soldati, d'altra parte veniva imposta una ben dura disciplina. Non si entra volontariamente in una milizia, in tempo di guerra, se non si ha voglia di combattere e rischiare la vita; né si diventa sacerdoti, se non si ha fede. Questo non vuol dire, però che non vi siano talvolta soldati traditori da punire o sacerdoti indegni da espellere.


    Aspetti della vita culturale

    NEI sei anni che sono stato nell'Unione Sovietica ebbi occasione di parlare in pubblico una dozzina di volte, senza contare alcune lezioni date in un istituto universitario di Mosca.
    Una conferenza in Russia, qualunque ne fosse il tema, tecnico, letterario, artistico, era sempre una cosa molto seria. Già il pubblico stesso cominciava con l'essere differente da quello che è di solito negli altri paesi. L'enorme maggioranza erano giovani usciti allor allora dall'officina o -dal laboratorio, vestiti alla buona, senza cravatta, spesso una blusa al posto della camicia, od una tolstovka al posto della giacca. Non avrei potuto distinguere, almeno nei primi anni che mi trovavo in Russia, un operaio da un ingegnere. Guai a giudicare dall'aspetto esteriore: vi eran da prendere granchi solenni.
    Poi c'era questo, che, mentre parlavate, tutti vi tenevano gli occhi addosso, né si lasciavano sfuggire una sola parola di quello che dicevate. Di persone venute per sbadigliare non ve ne era neppure una.
    Ed infine, e questa era la cosa più grave, la conferenza non durava un'ora, ma due o tre, spesso anche di più, praticamente tutta la serata. Si andava ad una conferenza come da noi si va ad un teatro.
    Ricordo la prima che tenni a Mosca nel gennaio 1926, per invito dell' Ossoaviachim, una grande associazione che si interessava di aviazione ed altre cose. Mi avevano invitato a parlare della spedizione polare che allora andavo preparando, e per la quale appunto era andato a Mosca a conferire con Litvinoff. La sala era gremitissima.
    Mentre parlavo mi accorsi che, di tanto in tanto, qualcuno degli ascoltatori scriveva qualche cosa su un pezzo di carta che, ripiegato in quattro, passava poi a qualcuno della fila avanti. Così di fila in fila il biglietto arrivava ad una delle persone sedute avanti a me, che, ricevutolo, si alzava e discretamente veniva a deporlo sul tavolo dietro il quale io parlavo.
    Così vidi accumularmisi davanti una quarantina, forse, di tali biglietti. Che cosa contenessero non sapevo immaginarmelo, ma la spiegazione l'ebbi quando, terminato che ebbi di parlare, Leteisen, il giovane ingegnere russo che aveva tradotto brano a brano il mio discorso, mi disse:
    « Ora faremo una pausa di alcuni minuti per prendere un bicchiere di tè. Dopo potrete rispondere alle questioni».
    Risposi a queste come meglio potevo. Le domande erano le più svariate. La maggior parte rivelavano la competenza delle persone che le avevano fatte. La discussione durò un'ora, forse più.
    Di conferenze, dopo quella prima, ne feci in Russia, come dicevo, molte altre: alla Società di Ingegneri delle Comunicazioni, alla Società Geografica, al Club Dzerzhinskij, alla Università e perfino al Club degli inventori di Mosca. Il procedimento era sempre lo stesso: la conferenza, un intervallo di alcuni minuti, e poi la pubblica discussione. E' chiaro che con questo sistema sarebbe stato arrischiato presentarsi insufficientemente preparato davanti ad un uditorio di giovani russi. La conferenza occupava, come dicevo avanti, praticamente l'intera serata, ma una volta alla M.A.I. a Mosca, nel 1931, non avendo esaurito l'argomento, mi obbligarono a tornare per altre due sere di seguito.
    I bigliettini contenenti le questioni erano sempre in gran numero: talvolta così grande che alla fine mi trovavo obbligato a dare risposte evasive e laconiche per potermi sbrigare. Spesso le domande erano ingenue o uscivano fuori del tema o diventavano generiche; talvolta, anche, eran di carattere personale, spesso anche divertenti. Ricordo una volta un biglietto che diceva: « Vi fascist ? ». Siete fascista ?

    * * *


    L'avidità di sapere di questi giovani russi era veramente grande: una sete di conoscenza che non aveva riscontro in nessun altro paese del mondo.
    Nei primi mesi del mio soggiorno a Mosca, ogni qualvolta visitavo una fabbrica o un laboratorio scientifico, terminata la visita, venivo sottoposto ad un fuoco di fila di domande: un vero e proprio interrogatorio che aveva luogo nell'ufficio di uno dei capi della Azienda. Mi si domandava : « Come fate questo in Italia ? e perchè ? e come ?»; e poi ancora: « Che pensate della nostra fabbrica ? quali difetti vi trovate ? come credete si possano eliminare ? ». Insomma, sembrava, per così dire, che si volesse estrarre dal mio cervello tutto ciò che vi era contenuto e che a loro potesse tornare utile. Devo confessare che in nessun altro paese ho avuto tante occasioni, come in Russia, di misurare la povertà delle mie conoscenze.
    Con questi sistemi è chiaro che i Russi, in tutto ciò che si riferiva a scienza o tecnica, finivano coll'essere al corrente di quello che si faceva all'estero assai più che noi si immaginasse. Le informazioni che a loro
    affluivano da tutte le parti del mondo sotto forma di libri, riviste, rapporti delle varie missioni inviate all'estero, erano copiosissime. Nel mio ristretto campo, quando giunsi la prima volta in Russia, ebbi la sorpresa di trovarvi tradotti e pubblicati la maggior parte dei miei studi. Credevo di poter dir loro cose nuove ed invece già le conoscevano da un pezzo.

    * * *


    La diffusione dei libri in Russia è veramente enorme. Fin dalla mia prima visita a Leningrado, pur in mezzo al desolante squallore che allora si notava nelle strade della bellissima città (si era alla fine del 1925), venni colpito dal gran numero di librerie. A Mosca, poi, non si percorrevano cinquecento metri senza imbattersi in una di esse. Ve ne era una grandissima a Kuznietskij Most, dove si potevano comprare libri inglesi, francesi, italiani, tedeschi, a prezzi relativamente bassi. Quasi, poi, a spiegare il perchè di questo gran numero di librerie, era cosa assai frequente, andando in autobus, in tram o nel metro, imbattersi in giovani con un libro fra le mani, assorti nella lettura.
    Si potrebbe pensare che questa grande quantità di libri messa a disposizione dei giovani russi si riferisse quasi tutta a questioni tecniche, o sociali, o di propaganda politica. No: vi erano anche classici della letteratura di tutto il mondo. Nel 1935, il giorno del mio compleanno, un amico russo, l'ingegnere Gamber, venne ad offrirmi in dono l'Eneide tradotta e commentata in russo, in una bella edizione « Academia » del 1933. Apparteneva ad una collezione che portava il titolo: Pamiatniki mirovoi literaturi. Un'altra volta lo stesso amico mi disse : « Umberto Vikientievic, ho comprato oggi un libro che vi interesserà», e me lo mostrò. Era un classico italiano del cinquecento, uno dei minori, che, a dir la verità, non avevo mai sentito nominare, nonostante mi vantassi di essere stato a mio tempo fra i migliori allievi del miglior liceo di Napoli. Vi era ben ragione di arrossire davanti ad un giovane russo che ora si accingeva a leggere la prosa di quel classico tradotta nella sua propria lingua!
    Ma i classici stranieri venivano non solo tradotti in russo, ma anche messi a disposizione degli studiosi nelle loro lingue originali, in edizioni decorose, rilegate, ed a buon mercato. Io stesso ebbi così occasione di acquistare alcuni classici francesi ed inglesi che ignoravo.
    Questo, cui ho accennato, è un aspetto della società sovietica assai poco conosciuto, che certo sorprenderà molto. Noi ci saremmo immaginato che questa ardente gioventù, tutta protesa nel suo formidabile sforzo verso l'avvenire, avesse rinnegato completamente il passato. Ma in realtà il culto per i classici in Russia è oggi vivo come, ed in un certo senso, anche più che altrove. Nei teatri di Mosca tutti gli anni si davano centinaia di rappresentazioni di tragedie e commedie di Shakespeare, di drammi di Schiller, di commedie di Goldoni, di fiabe di Carlo Gozzi. Quanti romani a Roma hanno assistito ad una rappresentazione di «Re Lear » o della «Dodicesima notte» o dei « Masnadieri » o della « Locandiera » o della «Principessa Turandot » ? A Mosca praticamente tutti, e molti, forse, anche più di una volta. E con quanta cura queste opere classiche venivano interpretate! La messa in scena, la recitazione, erano il risultato di studi e di prove che spesso duravano degli anni. Gli artisti, avendo col loro salario fisso assicurato il necessario per vivere, potevano dedicarsi completamente alla loro arte. Onde si raggiungeva tale perfezione che lo straniero, anche se non avesse capito una sola parola di ciò che gli attori dicevano, era ugualmente avvinto dalla bellezza dello spettacolo. Ho assistito io stesso, in queste condizioni, ad una rappresentazione del «Re Lear. », data in lingua yiddish. Un esperto inglese, che vi assistette anche lui, dichiarò che in Inghilterra, nel teatro shakespeariano, non si era mai raggiunta un'interpretazione così eccellente.

    * * *


    In Russia si aveva veramente quella che si chiama « uguaglianza di opportunità» per tutti. Non vi erano privilegi di nascita (*). Ogni bambino aveva la stessa possibilità di accedere ai gradi più alti dell'istruzione, in qualunque famiglia fosse nato, anche la più povera. Il figliolo del fattorino di ufficio o di una donna di servizio aveva davanti a sé aperte le medesime strade che il figliolo di uno scrittore o di un medico, per citare a caso qualcuna delle categorie sociali che, guadagnando più delle altre, avevano anche la possibilità di disporre di più danaro per l'educazione dei propri figli. Certo, i ragazzi di queste famiglie più agiate potevano vesti re meglio, e forse anche mangiare meglio degli altri; ma non avevano maggiori facilitazioni dei ragazzi di famiglie povere nell'accedere agli istituti di educazione superiore. Il solo vero grande privilegio, che poteva dar luogo a differenziazioni sociali, era in realtà il talento naturale del bambino. Se questo talento esisteva, sarebbe stato ben difficile che, col sistema di educazione vigente nell'Unione Sovietica, rimanesse soffocato e non avesse la possibilità di svilupparsi.

    (*) Devo qui ricordare che per alcuni anni in Russia fu vietato ai figli dell'antica borghesia ed aristocrazia l'accesso alle Università. Ma qu7sta aberrazione ebbe termine, mentre mi trovavo ancora in Russia. Se ricordo bene, fu la Krúpskaja, la vedova di Lenin, che molto si adoperò per far abolire questo ingiusto divieto.

    Questo mi fa tornare in mente un'osservazione fatta tante volte: quanti intelletti di prim'ordine, quanti grandi talenti artistici rimangono nascosti o soffocati mancando I oro l'occasione di rivelarsi e svilupparsi! Centinaia di genii come Platone, Aristotile, Dante, Michelangelo, Shakespeare, Galilei, Einstein conterebbe oggi in più l'umanità se tutti i bambini nascendo avessero goduto delle stesse possibilità di istruirsi e di sviluppare i propri talenti naturali. Il problema di dare a qualunque fanciullo, dovunque sia nato, in un tugurio o in un palazzo, in un remoto villaggio sperduto fra le montagne o in una grande città, l'opportunità di accedere alle fonti del sapere, indipendentemente dalle circostanze materiali della propria nascita, è certamente uno dei più importanti che si presentino nella ricostruzione del mondo. La messe, per ogni generazione, di nuove scoperte scientifiche, di nuove invenzioni, di nuove grandi opere d'arte, ne sarebbe enormemente accresciuta. Si pensi, ad esempio, quale splendido contributo darebbero al progresso della civiltà umana i settecento milioni di cinesi e indiani, oggi oppressi dalla miseria e dalla ignoranza, quando fosse data ai loro bambini la possibilità di una conveniente educazione! Fra essi devono certo esistere allo stato potenziale moltissimi grandi scienziati, artisti e filosofi.

    * * *


    A giudicare dalla cultura tecnica media dei molti giovani ingegneri posti alla mia dipendenza, l'insegnamento tecnico universitario in Russia non era, allora, all'altezza delle Università europee. Mi impressionava, però, il fatto che qualunque giovane, indipendentemente dalle condizioni finanziarie dei genitori, fosse in grado di accedere alle università. L'insegnamento vi era gratuito; anzi, era lo Stato a corrispondere allo studente una piccola somma di denaro, chiamata stipendium, sufficiente a far fronte alle sue spese. In Russia, negli anni che vi sono stato io, ogni operaio che ne avesse avuta la capacità poteva, dunque, diventare ingegnere. Lo Stato provvedeva a fornirgliene i mezzi. Anzi, questa facilità era così eccessiva da causare talvolta seri inconvenienti al lavoro. Ad esempio, nelle officine impiantate per le nostre costruzioni, i migliori nostri operai spesso ci lasciavano per andare all'università, né era facile rimpiazzarli, perchè in quel tempo i bravi meccanici scarseggiavano. Questo fatto, insieme all'altro che molti operai si licenziavano per andare a cercare altrove migliori condizioni di lavoro, costituiva uno degli ostacoli più gravi alla formazione di maestranze stabili esperte, ed incideva gravemente sul rendimento delle officine. Giacchè, contrariamente a quello che si credeva in Europa, in Russia gli operai erano perfettamente liberi di cercarsi lavoro dove meglio loro aggradisse, a meno che fossero stati membri del partito.
    Si presentava, dunque, in Russia un problema nuovo: quello di mettere un limite al continuo esodo di operai da una data officina, pur senza ledere sostanzialmente il diritto che ciascun operaio aveva di migliorare le proprie condizioni.

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    Il sentire così spesso di operai che volevano diventare ingegneri mi faceva riflettere alla possibilità che giungesse in Russia un momento in cui nessuno più avrebbe voluto far l'operaio. Fortunatamente, nel mondo moderno, le macchine si vanno sempre più sostituendo all'uomo, specie nei lavori di carattere puramente materiale, e si potrebbe anche pensare che un bel giorno gli operai si riducano a pochissimi, e quei pochissimi siano così altamente qualificati da potersi comprendere nella categoria degli ingegneri. Resterebbero pur sempre, però, da compiere certi lavori che non richiedono uno sforzo di intelligenza, come avviene, ad esempio, nelle costruzioni in serie, dove spesso un operaio ripete continuamente, come un automa, lo stesso movimento migliaia di volte. Resterebbero altresì dei lavori penosi o sudici, come, ad esempio, il raccogliere spazzature o il pulire luoghi immondi. Con la tendenza che vi è in Russia a elevarsi, potrebbe ben venire il tempo in cui non si trovi più alcuno che voglia compiere quei lavori. Ed allora come si provvederebbe ?
    L'unica soluzione possibile a tale problema sarebbe quella di istituire per tutti i giovani, maschi e femmine, un servizio obbligatorio del lavoro, paragonabile a quello militare. Questa idea non è nuova. E' stata già, almeno in parte, attuata durante la guerra, e non v'è alcuna ragione perchè non si possa estendere anche al tempo di pace.

    * * *


    In Russia, praticamente, non esisteva disoccupazione. Si potrà, forse, pensare che ciò fosse effetto dei piani quinquennali. Certo, questi davan luogo a programmi enormi di lavoro, per i quali faceva bisogno utilizzare l'opera di tutti, tanto più che il rendimento medio di lavoro di un lavoratore russo era, in quei tempi, inferiore a quello di un lavoratore occidentale. Ma, a parte i piani quinquennali, la disoccupazione poteva considerarsi un fenomeno definitivamente scomparso. Con un regime di economia diretta e pianificata dallo Stato, si potevano sempre regolare produzione ed orari di lavoro in maniera da evitarla.
    Dal momento, dunque, che tutti, lavorando, potevano procacciarsi da vivere, si può in certo modo ritenere che in Russia una delle quattro libertà della Carta Atlantica, quella dal bisogno, fosse già realizzata. Con ciò non voglio dire che vi fosse abbondanza. Tutt'altro. Vi era scarsezza di moltissime cose; e moltissime comodità, che pure erano di uso comune in occidente, mancavano del tutto. Ma si guadagnava abbastanza da poter soddisfare i bisogni elementari della esistenza, e, quel che è meglio, anche se si mangiava male e si vestiva peggio, non mancava la possibilità di istruirsi e di progredire intellettualmente.
    Avendo tutti un'occupazione, ed essendo assicurato a tutti il minimo indispensabile per l'esistenza, non poteva accadere che una famiglia si trovasse nella dura necessità di dover mettere a lavorare un figliuolo prima del tempo, troncandone così l'educazione. Alle spese di questa, provvedeva, per la maggior parte, lo Stato.

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    Il diritto, anzi il dovere di un lavoratore sovietico di migliorare la propria « qualifica », si trovava spesso in contrasto con l'interesse del lavoro collettivo. Ricordo un caso tipico capitatomi. Un giorno si presentò da me un giovane ingegnere, che già da due anni trovavasi adibito alle lavorazioni aerostatiche e che in quel lavoro aveva acquistato sufficiente esperienza, a domandarmi di essere trasferito in un reparto di lavorazioni metalliche, per le quali non aveva alcuna preparazione. Gli feci osservare il danno che ne sarebbe derivato al nostro lavoro, dovendosi provvedere a sostituirlo nel reparto dove allora lavorava con un altro ingegnere privo di esperienza, mentre egli stesso nel nuovo reparto, per molto tempo, non avrebbe potuto dare alcun rendimento, perchè nuovo alla materia. « Appunto per questo mi rispose — desidero cambiare. Voglio imparare altre cose. Voglio migliorare la mia qualifica».
    Le mie obbiezioni non valsero a nulla. Le regole sovietiche gli davano il diritto di ottenere il cambiamento che aveva richiesto e l'ottenne.
    Di casi simili ne occorsero parecchi. In generale una delle difficoltà più gravi che incontrai nel mio lavoro fu, come ho già accennato avanti, per l'appunto questa: che non potevo fare assegnamento sulla collaborazione stabile dell'uno o dell'altro ingegnere, di questo o quell'operaio. Da un giorno all'altro essi potevano abbandonare i nostri uffici od officine per andare a lavorare in un altro posto che a loro piacesse di più. Questa abitudine costituiva, senza dubbio, l'ostacolo più forte alla formazione di una tradizione tecnica, pure così necessaria in certi generi di lavoro.

    * * *


    Le conferenze di tre ore con le conseguenti discussioni, gli operai che volevano diventare ingegneri, gli ingegneri che volevano migliorare la loro qualifica, il gran numero di librerie, i libri stampati e venduti a milioni di copie, le interminabili file ai botteghini dei teatri per assistere alla rappresentazione di commedie e tragedie classiche, le file alle edicole dei giornali, erano tutti aspetti di un solo fenomeno: l'inesauribile, immensa avidità dei giovani sovietici di apprendere, di sapere.
    Quando io ripenso a questi giovani, avidi di libri e di informazioni, ammiratori assai più che non si pensi delle grandi opere e dei grandi uomini del passato, mi piace soprattutto ricordarli nell'atto in cui, nei giorni di vacanza, con i piedi ricoperti da soprascarpe di tela per non insudiciare i pavimenti, e rispettosi di tutte le regole stabilite per la cura delle opere d'arte, visitavano i musei di pittura e di scultura, ascoltando attentamente le illustrazioni che intelligenti esperti andavano loro facendo di quelle opere.


    Magazzini

    AL primo sentirlo sembrerà strano, ma è un fatto che in Russia, mentre vi ero io, anche nel tempo della peggiore carestia, non esisteva per le merci alcun mercato clandestino. Ed era naturale, perchè tutto il commercio si trovava nelle mani dello Stato. Il solo mercato nero possibile era quello della valuta, e questo, infatti, esisteva.
    La moneta sovietica, il rublo, non era esportabile, nè si poteva dall'estero introdurre nel territorio russo. Anche in questo campo, come in tanti altri, la Russia sovietica ha, dunque, anticipato un fenomeno che, più tardi, è accaduto altrove, specialmente in Germania ed in Italia.
    Ma, nonostante il divieto di esportazione ed il rigore che si usava alle frontiere per farlo osservare, una certa quantità di rubli riusciva a passare il confine e veniva venduta alla borsa nera di Varsavia o di Harbin. Qui essi venivano comprati per conto degli addetti alle varie ambasciate, legazioni e consolati residenti nell'Unione Sovietica, e trasportati a Mosca a mezzo dei corrieri diplomatici. Il prezzo che così si pagava per il rublo era enormemente inferiore a quello che si sarebbe dovuto pagare alla Banca di Stato a Mosca. Basti dire che questa, in cambio di un dollaro, dava meno di due rubli, esattamente 1.94, mentre a Varsavia per un dollaro si ricevevano da quaranta a cinquanta rubli, ed anche più. Per una lira italiana si avevano due o tre rubli, mentre il cambio ufficiale era di circa dieci lire per rublo. A Harbin i cambi erano anche più vantaggiosi.
    Ma il valore reale di acquisto del rublo in Russia non corrispondeva affatto al cambio della borsa nera; era superiore, e di molto. Onde avveniva che, per ogni dollaro convertito in rubli nella proporzione che ho detto, gli stranieri ricevessero nei magazzini di Mosca assai più di quello che con un dollaro avrebbero potuto comprare in qualunque altro magazzino di Europa o di America. Questo spiega perchè in quei tempi, i primi anni del mio soggiorno
    in Russia, i diplomatici, ed anche i giornalisti, riuscissero a vivere con grande larghezza, spendendo somme irrisorie non solo per mantenersi, ma anche per fare acquisti di cose pregevoli nei magazzini di antiquari, che abbondavano in tutte le grandi città sovietiche.

    Per farsi un'idea di quanto realmente fosse basso il costo della vita in Russia per uno straniero che cambiasse la propria valuta al mercato nero (e questo lo facevano in generale tutti gli stranieri che, al contrario di me, non avevano fonti di guadagno in rubli), farò qualche esempio concreto: un pranzo al Club Dzerzhinskij dove, qualunque forestiero poteva essere ammesso, costava, al cambio di due rubli per lira, appena settantacinque centesimi; alla Casa degli Scienziati una lira; in un ristorante di lusso sette od otto lire. Una poltrona di prima fila al Teatro dell'Opera costava nove lire; un libro di quattrocento pagine con numerose incisioni, di carta abbastanza buona e rilegato in tela, cinque lire; un paio di galoches mezza lira; un abito in lana, di discreta qualità, sessanta o settanta lire; un disco di grammofono da venticinque a cinquanta centesimi. Una corsa in taxi, a Mosca, veniva a costare una o due lire al massimo. La benzina si pagava da dieci a quindici centesimi al litro. Il salario mensile di una donna di servizio si aggirava dalle dieci alle venti lire.
    Il fatto di poter acquistare il rublo alla borsa nera a prezzo tanto inferiore a quello ufficiale farebbe pensare che fosse in corso un processo di inflazione della moneta sovietica. Credo che una tale conclusione sarebbe erronea. Lo Stato Sovietico controllava la propria moneta nel modo più completo, fissandone l'emissione in relazione alla produzione prevista per i piani quinquennali. Il valore di acquisto del rublo era regolato dallo Stato, ed esclusivamente dallo Stato, giacchè in ultima analisi era esso che fissava sia i prezzi delle merci che i salari. Dal 1931 al 1936 vidi i prezzi salire, ma in corrispondenza aumentarono anche i salari.
    Se il cambio del rublo fatto alla borsa nera era eccessivamente vantaggioso, il contrario si poteva dire del cambio ufficiale. Con cento lire italiane si ricevevano alla Banca di Stato dieci rubli circa. A questo cambio una poltrona all'Opera sarebbe costata quasi duecento lire, prezzo molto caro, perchè all'Opera di Roma, in quel tempo, non se ne spendevano più di cinquanta o sessanta. Per questa ragione i turisti che, non essendo iniziati ai misteri della borsa nera, cambiavano la loro valuta al tasso ufficiale, trovavano che Mosca era la città più cara di Europa.
    Ma a rendere molto meno costoso il soggiorno in Russia degli stranieri che visitassero il paese, o di quelli che per il loro ufficio vi dovessero permanere a lungo, senza avere una fonte di guadagno in rubli, come i diplomatici ed i giornalisti, provvedevano due grandi organizzazioni create dal Governo Sovietico, l'Inturist e il Torgsin.
    L'Inturist, di cui fino a pochi anni fa noi di Roma abbiamo veduto un'agenzia a piazza di Spagna, serviva, come si sa, a regolare il viaggio ed il soggiorno nell'U.R.S.S. degli stranieri che avevano chiesto ed ottenuto il permesso di visitare l'Unione Sovietica. La parola derivava da innostrannii turism, turismo straniero. I turisti pagavano in anticipo, nella propria valuta, presso le agenzie di quell'organizzazione tutte le spese di viaggio e di soggiorno in Russia. Restavano solo le piccole spese accessorie del viaggio, alle quali provvedevano, in Russia, cambiando la loro moneta al cambio ufficiale.
    Per gli stranieri residenti in Russia che, non guadagnando con il proprio lavoro rubli, dovevano per vivere cambiare sul posto la propria moneta, era stata creata un'altra grande organizzazione, il Torgsin, parola derivata da Torgovlia s'innostranzami, commercio con gli stranieri. Quest'organizzazione aveva magazzini, alberghi e ristoranti sparsi in tutta l'Unione Sovietica. I suoi magazzini erano ricchissimi. Vi si trovava di tutto, anche generi importati dall'estero. I prezzi erano fatti in rubli, ed erano bassi, ma bisognava pagarli in una valuta straniera al cambio fissato ufficialmente. A conti fatti la roba vi costava parecchio meno che in qualunque altra città europea.
    Chiunque poteva accedere ai magazzini del Torgsin. Essi erano frequentati più specialmente da stranieri, diplomatici, giornalisti e turisti, ma vi potevano liberamente fare le proprie spese anche i cittadini sovietici che possedessero valuta straniera. Questa, in alcuni casi, perveniva loro da parenti all'estero; ma, più comunemente, era procurata, in cambio di rubli, da conoscenti stranieri in Russia.
    Ma, a parte questa via illegale, ai cittadini sovietici che volessero fare spese nei magazzini del Torgsin un'altra via, legalissima, era aperta : quella di portare a vendere ai magazzini stessi i loro oggetti d'oro e di argento. A questo scopo vi era, in quei magazzini, un apposito reparto ai cui sportelli i cittadini sovietici affluivano con i loro oggetti preziosi. Un impiegato riceveva gli oggetti, li pesava, li stimava, ed in cambio dava buoni in rubli, validi per acquistare merci in qualsiasi magazzino del Torgsin, in qualunque città dell'Unione.
    La funzione di quest'organizzazione, come del resto anche dell'Inturist, era, dunque, di raccogliere le valute estere ed i metalli preziosi di cui lo Stato Sovietico aveva bisogno per il commercio estero. Questo bisogno si fece maggiormente sentire nei primi anni dell'industrializzazione sovietica, quando occorreva acquistare in Europa e in America grandi quantità di macchinario. Ma con l'attuazione dei piani quinquennali l'importazione di macchine andò sempre più diminuendo, mentre d'altra parte andò aumentando la produzione dell'oro sovietico. In conseguenza, l'importanza dei magazzini del Torgsin, quali centri di raccolta di valute straniere e di oro, andò rapidamente scemando, tanto che, alla fine, non ve ne fu più bisogno e vennero soppressi. Nel settembre 1936, quando partii dalla Russia, essi erano scomparsi da un pezzo, ma in quello stesso anno l'Unione Sovietica era già al secondo posto nella produzione mondiale dell'oro, e si avviava ad occupare il primo.
    Con l'abolizione del Torgsin la richiesta di valute estere alla borsa nera di Mosca diminuì grandemente, e corrispondentemente crebbe il costo del rublo e con esso il costo della vita per gli stranieri, specialmente diplomatici e giornalisti. Al posto dei magazzini soppressi, altri, non meno grandi e sontuosi, ne sorsero, dove i cittadini sovietici poterono comprare, pagando rubli di carta, quasi tutte le cose che prima ricercavano nei magazzini del Torgsin. Essi, perciò, non ebbero alcuna ragione di dolersi della scomparsa di quei magazzini, che danneggiò solo gli stranieri.

    * * *


    A parte gli speciali magazzini dei quali ho parlato finora, i magazzini in Russia si dividevano in due grandi categorie: magazzini chiusi, ai quali potevano accedere solo i dipendenti di una data azienda, e magazzini liberi, aperti indistintamente a tutti. Questi ultimi, come già dissi, andarono sempre più crescendo di importanza e di numero.
    Si intende che tutti i magazzini, di qualunque tipo fossero, erano di gestione collettiva, a forma statale o parastatale o cooperativa. Magazzini privati in Russia non esistevano, e mancava, perciò, l'occasione di indignarsi per le speculazioni esose che, altrove, così spesso vi si fanno a danno dei consumatori, nei tempi di crisi. Tutto il commercio interno era, direttamente od indirettamente, controllato dallo Stato. L'ultimo magazzino privato che vidi nell'U.R. S.S. fu a Leningrado, nel 1926, ed era un piccolo negozio di gioielleria tenuto da un ebreo, alla ex Perspectiva Newski. Dopo, non ne ho visti altri.
    I magazzini chiusi erano su per giù tanti quante le aziende esistenti: così, ad esempio, vi erano i magazzini della G.P.U. molto ben forniti, quelli della Flotta Aerea Civile, quelli della Dirigiablestroi, ecc. Essi venivano gestiti dalle aziende stesse ai cui dipendenti dovevano servire. In sostanza funzionavano, ad un dipresso, come le nostre cooperative di consumo. I prezzi vi erano molto più bassi che nei magazzini liberi.
    All'inizio, nel 1931, vi erano magazzini speciali chiusi anche per i diplomatici ed i giornalisti; ma l'anno dopo vennero soppressi. Rimasero aperti ancora per qualche tempo quelli che servivano per gli specialisti tecnici stranieri, ma anch'essi, qualche anno più tardi, vennero aboliti. Questi magazzini, insieme con quelli del Torgsin, costituivano per gli stranieri un privilegio, che giustamente si fece scomparire quando, con il crescere di numero e l'arricchirsi di merci dei magazzini ordinari, gli stranieri poterono acquistare in questi le cose di cui abbisognavano, sia pure pagando più di quanto usavano pagare una volta.

    * * *


    Esistevano in Russia, ed erano assai numerosi, anche i cosiddetti magazzini di commissione. A Mosca, nel centro, non vi era strada importante dove non se ne incontrassero uno o due. Ve ne erano di modesti e di ricchissimi. Ad essi la vecchia aristocrazia zarista e la borghesia dei tempi andati portavano a vendere, quando si trovavano nella penosa condizione di doverlo fare, oggetti artistici, tappeti, quadri, mobili antichi, antiche stoffe, merletti, porcellane, ecc. Stabilito con i dirigenti del magazzino il valore approssimativo delle cose da vendere, queste venivano lasciate in deposito, in attesa di chi le comprasse. A vendita effettuata il magazzino, che era naturalmente anche esso di emanazione statale, prelevava sul ricavato una parte per sè, generalmente il 3o per cento, e rimetteva il rimanente della somma al proprietario dell'oggetto venduto.
    Questi magazzini, specialmente nei primi anni, erano molto frequentati dagli stranieri, che spesso, servendosi dei rubli comprati alla borsa nera, vi acquistavano a poco prezzo cose di grande pregio.
    L'importanza di questi magazzini andò scemando col generale progredire dell'economia sovietica. Nei primissimi anni del mio soggiorno in Russia essi rigurgitavano di oggetti di ogni specie, anche di gran valore. Ma non era più così nel 1935 e nel 1936. I segni della loro diminuita importanza già allora erano evidenti. Dovettero a ciò contribuire non solo la minor disponibilità di cose da vendere, ma anche il miglioramento nelle condizioni economiche dei singoli, anche di quelli appartenenti a famiglie dell'antica aristocrazia o borghesia.
    La guerra ultima con i suoi terribili sconvolgimenti economici ha, purtroppo, fra le altre sciagure, obbligato, anche qui da noi, in Italia, talune categorie di persone a vendere le cose ritenute non indispensabili per procurarsi il danaro necessario a far fronte ai bisogni elementari dell'esistenza. Sono le categorie a proventi fissi, che hanno visto giorno per giorno ridursi sempre più il potere di acquisto della lira. Ma tra il fenomeno che aveva luogo in Russia ed il fenomeno che si presenta oggi da noi vi è, tuttavia, una grande differenza. In Russia le vendite nei magazzini di commissione non rappresentavano un passaggio di ricchezza da una categoria all'altra di cittadini. Tutt'al più di queste vendite si avvantaggiava lo Stato. Da noi, invece, le categorie di cittadini che dicevo sopra, certo tra le più degne ed oneste, si vanno impoverendo a beneficio non dello Stato ma di una classe di speculatori, grossi e piccini, che scandalosamente si vanno arricchendo
    in mezzo al generale depauperamento.

    * * *


    Ma nonostante tutto il grande progresso da me notato, nei magazzini di Mosca mancavano tante cose, che pur sono di uso comune negli altri paesi del mondo. Faceva soprattutto difetto la qualità; e non vi era nessuna possibilità di scelta. Bisognava contentarsi di quello che c'era. Certo la libertà concessa nei paesi capitalistici a singoli individui di creare con un proprio capitale nuove intraprese industriali ha il vantaggio di spingere automaticamente alla creazione di prodotti industriali che soddisfano ai bisogni della collettività. Si guardi, ad esempio, al meraviglioso progresso realizzato con tale sistema nella ricca America. Sotto l'impulso della concorrenza e mossi dal desiderio di forti guadagni gli industriali americani cercano di andare incontro ai gusti del pubblico per accaparrarsene la clientela. L'americano che deve comprare un'automobile, un refrigeratore, una radio, una macchina per lavare, un rasoio, delle lamette per radersi ha la scelta fra diecine di prodotti similari. Le ditte costruttrici fanno a gara per cercare di accontentarlo in tutte le sue esigenze, in tutti i suoi desideri. Talvolta sono essi stessi ad eccitarle. Il risultato è una fioritura di mille comodità, sempre più perfezionate, sempre più a buon mercato, che finora mancano nell'Unione Sovietica, dove i capi di aziende non devono aguzzare l'intelligenza per trovare qualche cosa di nuovo e di meglio, o a prezzo più basso, per mantenere o conquistarsi un mercato. Da questo derivava la esasperante uniformità di vestiario che tutti i visitatori dell' U. R. S. S. potevano notare nelle strade di Mosca negli anni che precedettero la guerra. Ma rappresenta, forse, questo risultato negativo un argomento contro il sistema sovietico ?
    E' difficile sostenerlo. Non si vede alcun motivo serio perchè non si possa riuscire a stimolare la immaginativa inventrice degli uomini in qualche altra maniera che non sia quella di prospettargli la possibilità di grandi guadagni, lasciandolo libero di sfruttare più o meno a suo talento il lavoro altrui. In Russia al mio tempo esistevano inventori di professione, le cui proposte venivano prese in considerazione, anche troppo facilmente. Non è dunque la fantasia inventrice che può venir meno. Si tratta solo di disciplinarla. Il problema è esclusivamente un problema di tecnica. Se in Russia non si producevano le mille comodità che abbondano nei paesi capitalistici, questo, forse, provava soltanto che vi erano problemi di maggior importanza da risolvere. Non si poteva pensare a occuparsi dell'estetica del vestiario, allorquando si doveva pensare a creare l'industria pesante.
    Ma, quando anche non si riuscisse ad ottenere da un sistema quale è il sovietico tutti i vantaggi materiali di un sistema di libere intraprese industriali, resterebbe pur sempre la sua superiorità etica. Di progresso materiale l'uomo ne ha realizzato fin troppo. Quello che gli occorre è mettersi a pari col progresso morale. Si pensi a tutta la rete di loschi interessi, di azioni criminose, di inganni, di frodi, che fioriscono là dove si lascia libero campo alla speculazione individuale. Ne ebbi un esempio impressionante nel 194o in America, apprendendo che nei dintorni di Chicago era stato scoperto uno stabilimento industriale, dove si fabbricavano arnesi per ladri. Il colmo era che quella ditta si serviva della pubblicità per diffondere i suoi prodotti fra i suoi singolari clienti. La Chicago Tribune documentò questo fatto pubblicando un'intera pagina di fotografie di cotesti avvisi pubblicitari, dove si decantava la bontà degli ultimi arnesi ideati per scassinare una cassaforte!

    Edited by JDietzgen - 27/11/2013, 22:00
     
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