Quello che ho visto nella Russia sovietica

Umberto Nobile - seconda parte

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  1. JDietzgen
     
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    Carestia ed abbondanza

    La bellezza di Mosca è che a pochi chilometri dall'abitato già comincia la foresta. Questa mi attraeva sempre molto. Una sera di estate, che faceva molto caldo, proposi a mia figlia di andare a dormire all'aperto.Caricammo sull'automobile una tenda, di recente portata da Berlino, alcune coperte, un velo contro i moscerini che di estate infestano la campagna di Mosca, alcune provviste per mangiare, e partimmo: io, mia figlia, Amabile e tre cani. Amabile era una giovane tedesca, piccola, rotonda, dai capelli rosso oro, che da molti anni stava con noi in Italia. Aveva accompagnato mia figlia a Mosca a passarvi le vacanze estive. I cani erano Titina, quella che era stata due volte al Polo, e due sue figliuole, Totoska e Ziganka, ambedue moscovite. Totoska, poverina, morì sei anni dopo in America; Ziganka, battezzata così, perchè nera, da Polia, una delle mie donne di servizio russe che l'avevano vista nascere, vive tuttora con noi a Roma.
    Ce ne andammo lungo la strada che porta a Nisgnii Novgorod, quella stessa che al tempo degli zar veniva percorsa dagli esiliati che si recavano in Siberia. Era di quelle che più amavo per la grande distesa di boschi e di foreste che la fiancheggiavano, e che si vedevano nereggiare all'orizzonte,non appena fuori della città. Nella luce ancor viva del tramonto oltrepassammo un accampamento di zingari. Alcuni chilometri più avanti, trovato un posto adatto al margine della foresta, ci fermammo.
    Piantata la tenda, distendemmo il velo per proteggerci dai moscerini, e con foglie e rami secchi accendemmo un bel fuoco per riscaldare le vivande. Dopo cena, mentre mia figlia ed Amabile si trattenevano presso il fuoco a parlottare, io, stanco, mi ritirai a dormire.Avevo appena preso sonno, quando fui risvegliato da mia figlia: « Papà, alzati; c'è un lupo ». Ero talmente insonnolito che mi seccava di levarmi. « Tenete vivo il fuoco » risposi. «Il lupo non si avvicinerà». E mi rivoltai dall'altro lato.Ma quelli che alle due ragazze erano sembrati ululati si ripetettero; anzi alla loro fantasia eccitata parvero anche più vicini.Mia figlia entrò di nuovo a chiamarmi. Allora mi rassegnai ad alzarmi, ed uscii fuori.
    Nella notte regnava un silenzio profondo; non si sentiva che il crepitio dei rami secchi che bruciavano. Ma capii che ormai, con il pensiero del lupo, Maria non avrebbe dormito, nè mi avrebbe lasciato dormire; e perciò accolsi il suo savio suggerimento di tornarcene a casa. Così, alle due di notte, rientrammo, mogi mogi, nel nostro appartamentino alla Miasnitzkaja.
    Quando il giorno dopo raccontai ai giovani ingegneri russi del mio ufficio l'avventura notturna del lupo, essi risero. « Ma, signor (*), non può essere. Se vi fossero lupi nei dintorni di Mosca, i cacciatori lo saprebbero. Sarà stata una vacca o, forse anche, il fischio di una locomotiva lontana». Quando riferii questo a mia figlia, essa protestò vivacemente. Si era proprio trattato di un lupo.

    ***


    Fallito in modo così miserevole il primo esperimento di dormire nella foresta, per qual che settimana non vi pensammo più. Ma un giorno, vigilia di quello di vacanza ( allora in Russia alla settimana di cinque giorni che avevo trovato nel 1931, era stata sostituita quella di sei), si unirono a noi due nostri amici, Elisabetta Simeovna e suo

    (*) Cosi erano saliti indirizzarsi a me i Russi; ma vi era perfino taluno (un portiere di Dolgabrudnaja) che mi chiamava addirittura: « Tavarisch signor » !

    marito Abramo, per una seconda spedizione che fu preparata con ogni cura, perchè intendevamo passare nella foresta due giornate consecutive. Anche questa volta ci dirigemmo lungo la strada di Nisgnii Novgorod. Raggiunta la foresta prescelta, ad una ventina di chilometri dall'abitato, v i ci inoltrammo con la nostra Fiat, senza darci troppo pensiero delle inevitabili ammaccature che sarebbero capitate ai parafanghi.
    Sostammo, per attendarci, in uno spiazzo che si apriva nel folto degli alberi. A breve distanza era uno stagno di acqua dove l'indomani avremmo potuto lavarci.
    Non posso affermare che sull'erba, per quanto soffice fosse, dormissi così comodamente come nel mio letto a casa; ma, certo, la libertà che si godeva in quella solitudine, a così breve distanza dalla capitale, era cosa molto piacevole. La mattina ci risvegliammo al cinguettio degli uccelli. Preso il caffè (in Russia, anche allora, se ne poteva comprare a pochissimo prezzo), ci recammo allo stagno, in parte ricoperto dalle larghe foglie delle piante che vi crescevano nel fondo.
    Dopo il bagno Abramo Jacovic mi propose di andare al villaggio più vicino a comprare del latte. Acconsentii, e, mentre le donne scomparivano fra gli alberi per raccogliere fragole, io ed Abramo, in automobile, ci recammo al villaggio.
    Ci indicarono un casolare dove avremmo trovato una donna che possedeva una vacca. Abramo vi entrò a comprare il latte, ma dopo qualche minuto tornò a mani vuote dicendo: « Tolko sa klieb ». Soltanto se le dessimo in cambio del pane».Ma non avevamo pane da dare e così dovemmo rinunziare al latte.

    * * *


    In quel tempo, dunque, nelle campagne attorno a Mosca i contadini erano tornati al sistema del baratto. La carestia durava ancora, in quell'anno 1933, ed i contadini, od almeno quelli di essi che non avevano la tessera di razionamento,' non sapevano che farsi di una carta moneta con cui non riuscivano ad acquistare le cose di cui avevano bisogno. Venivano in città a barattare i loro scarsi prodotti, e di solito chiedevano in cambio del pane. Le mie domestiche lo sapevano bene. Bastava che si recassero all'angolo della strada per trovare chi desse loro latte invece del pane che le nostre tessere ci procuravano in misura abbondante.
    Vi eran, dunque, domestiche in Russia ? Ma certo che ve ne erano. Le poche famiglie russe che io conoscevo avevano quasi tutte al loro servizio una donna che, fosse pure soltanto per alcune ore al giorno, aiutava nelle faccende di casa. Non differivano da quelle di altri paesi, se non forse per una certa maggior dignità con cui si presentavano ed agivano. Avevano le loro associazioni, e, naturalmente, tenevano spesso riunioni per discutere dei loro interessi. Si chiamavano « lavoratrici domestiche », damascnaie rabotnizi. Si corrispondeva loro un salario variabile da trenta a sessanta rubli, a seconda del servizio che prestavano.
    La mia domestica, in quel tempo, era una giovane greca, un po' zoppicante, occhi e capelli nerissimi, di carattere molto duro. Sbrigava le faccende di casa alla perfezione. La sua cucina era eccellente, purchè non intervenissi io a correggerla. I suoi « borsh », una delle zuppe tipiche russe, erano squisiti, specialmente se vi si aggiungeva una cucchiaiata di crema acida, la smetana; e certo fa melanconia ricordarsene ai tempi di oggi, qui in Italia. Benchè le lasciassi completa libertà e non esercitassi alcun controllo, tuttavia Nastia conteneva la spesa giornaliera in limiti modesti : quindici rubli al giorno le bastavano per far da mangiare a cinque persone.
    Una spesa giornaliera di tre rubli a testa era veramente poca cosa in proporzione di ciò che guadagnava in Russia un tecnico straniero. Ma per farsi un'idea più adeguata di ciò che comunemente rappresentasse una tale spesa, devo ricordare che in quel tempo il salario di un comunista, membro del partito, per quanto alta fosse la carica che occupasse, non poteva superare i 30o rubli al mese. Tale appunto era il salario dello stesso Stalin. In quell'anno un buon operaio guadagnava press'a poco altrettanto; ma un operaio, come del resto qualsiasi altro lavoratore o lavoratrice, prendeva il suo pasto principale, a mezzogiorno, sul posto del lavoro, alla mensa 'dell'azienda dove lavorava, e per quel pasto pagava meno di un rublo, sessanta o al massimo settanta copeki. Questo pasto era semplice, servito molto alla buona, spesso anche con poca proprietà, ma più che sufficiente. Esso consisteva in una zuppa, un piatto di carne con legumi, e tè o caffè. Spesso vi si aggiungevano paste dolci, le cosiddette pirósg'noie, oppure frutta. La tenuità della spesa fa comprendere -come fosse possibile ad un fattorino di ufficio, il cui guadagno mensile non superava novanta o cento rubli, o ad uno studente universitario che riceveva dallo Stato per il suo mantenimento uno stipendium di settantacinque rubli, sbarcare il lunario. Si tenga poi presente che in Russia lavoravano e guadagnavano non solo gli uomini, ma anche le donne. Le donne che si occupassero esclusivamente di faccende domestiche, all'infuori delle donne di servizio, erano rarissime: la massima parte avevano un lavoro fuori casa e prendevano anch'esse il loro pasto principale sul posto del lavoro. Ma di ciò che era la vita domestica in Russia e delle sue analogie con quella americana, parlerò in seguito.

    * * *


    Nei primi tempi del mio soggiorno in Russia, fino a tutto il 1933 ed anche nel principio del 1934, i segni della carestia e della generale povertà erano evidenti. I negozi alimentari erano semivuoti. Nelle vetrine ben poco si vedeva esposto: tutt'al più vi si potevano ammirare, a guisa di decorazione, forme di formaggio in legno dipinto di rosso. Davanti ai magazzini sostavano lunghissime file di persone, che talvolta, come ho visto io stesso per l'acquisto di carne o di petrolio, cominciavano a formarsi la sera avanti. Nel centro di Mosca i mendicanti erano numerosi; uno specialmente mi è rimasto impresso nella mente che, seduto a terra sul marciapiedi davanti al Gran Hótel, esibiva una gamba piagata. Nel cortile di casa mia, molte volte, di sera, sorpresi una donna che furtivamente veniva dal di fuori a cercare qualche cosa da mangiare nei cassoni dove si riponevano le immondizie e i rifiuti di cucina. Miserevole era lo spettacolo di un piccolo mercato libero esistente nelle vicinanze dell'Arbàt, una delle piazze più note di Mosca. Vi si vedevano contadini offrire piccoli pezzi di carne, qualche mezza bottiglia di latte, un po' di verdura.
    La gente vestiva poveramente. Camicie non se ne vedevano, e tanto meno cravatte, reputate, non ingiustamente, cosa del tutto superflua nell'abbigliamento maschile; ed i tipi di vestiario erano così poco variati, che lo stesso indumento, del medesimo taglio, della medesima stoffa, si poteva veder riprodotto in centinaia di esemplari addosso alle persone che si incontravano per strada.
    Ma già verso la metà del 1934 la situazione cominciò a cambiare. La carestia si attenuò. I segni di una generale ripresa economica apparvero chiarissimi. Nel mercato libero, in seguito anche ad un decreto del governo che consentiva ai contadini di possedere qualche animale e coltivare per proprio conto un orto, vendendone liberamente i prodotti, ricomparvero all'improvviso, con una certa abbondanza, generi che da un pezzo erano quasi totalmente scomparsi, come il burro e le uova. Presto non ci fu più bisogno di barattare. La mia domestica trovò a comprare al mercato libero il latte (in più di quello spettante con la tessera) che occorreva per i bisogni della casa. Le vetrine dei negozi si riempirono. Le file cominciarono a diminuire.
    Nel 1935, e più ancora nel 1936, la situazione era talmente mutata, che della terribile carestia degli anni precedenti non rimase più che il ricordo. I segni di una crescente prosperità si moltiplicarono. Le file davanti ai negozi scomparvero quasi totalmente. Molti nuovi e grandi negozi si aprirono al pubblico, messi su con eleganza e proprietà e serviti da personale in uniforme di tela bianca, secondo tutte le regole dell'igiene. Questi magazzini rigurgitavano di generi alimentari di ogni sorta. Caviale rosso e grigio, siomga, balik,, salmone e tante altre varietà di pesci secchi ed affumicati, di cui la Russia è ricchissima, si allineavano su nitidi banchi di marmo, protetti dalla polvere e dagli insetti da lucide vetrine. Carni di ogni sorta; formaggi non più di legno, ma veri, e di molte varietà, chè a Mosca funzionava un istituto superiore universitario, dove italiani insegnavano a fabbricarlo.
    Il grande emporio che sorgeva al centro di Mosca era pieno di ogni genere di roba: stoffe, abiti, biancheria, oggetti casalinghi. La folla vi si pigiava per comprare. Dai tipi di vestiario era scomparsa, od almeno si era molto attenuata, quella terribile uniformità che mi aveva colpito durante i primi anni del mio soggiorno in Russia. Le donne, che nei tempi cattivi avevano fatto miracoli di eleganza con le poche cose di cui disponevano, erano adesso molto meglio vestite. Nei ritrovi, a teatro, nelle conferenze, ai concerti, nei caffè, gli uomini, rasati di fresco, apparivano vestiti con accuratezza, talvolta anche con distinzione. Le camicie erano riapparse, e con esse perfino le cravatte, cosa che, a dir la verità, fu per me motivo di disappunto piuttosto che di compiacenza, perchè, in fondo, mi faceva comodo farne a meno.
    La trasformazione che, sotto i miei occhi, ebbe luogo in quei tre anni nell'aspetto esteriore di Mosca fu veramente sorprendente. Nuovi eleganti caffè e ristoranti vennero aperti, taluni di tipo modernissimo; e ancora nuovi magazzini, sempre più ricchi. Vi furono perfino tentativi, direi, di superamericanizzazione. Così, ad esempio, quando fu aperto nei pressi della Lubianca un grande negozio di generi alimentari, dove si poteva ordinare per telefono qualunque cosa si volesse, indicando l'ora più comoda per il recapito a casa delle cose ordinate. Nè importava informarsi se quel dato prodotto ci fosse o pur no, perchè, anche se non vi fosse stato in magazzino, sarebbe stato procurato altrove, a cura del negozio stesso cui veniva dato l'ordine.

    I salari


    LA propaganda avversaria era solita dipingere l'Unione Sovietica come il paese dell'esasperante uniformità. Salari tutti uguali, uguali condizioni di vita, nessun incentivo che spingesse il singolo individuo a far meglio, a progredire, ad elevarsi. Ed in realtà, da principio, così era stato: vi era poca o nessuna differenza fra la paga di un operaio abile e quella di un principiante, ed in conseguenza mancava qualsiasi stimolo che muovesse quest'ultimo a migliorare la propria qualifica. Gli uomini sono ancora troppo ineducati, perchè possano esser spinti ad operare soltanto dal sentimento di un dovere da compiere. I Bolscevichi, che in un primo tempo avevano creduto il contrario, ammisero francamente il loro errore, ed ebbero il coraggio di cambiar metodo. Infatti, quando nel 1931 arrivai a Mosca, trovai che la differenziazione dei salari era già in atto. Stalin, nel suo discorso del 23 giugno di quell'anno, aveva dato la nuova parola d'ordine: fissare il salario a seconda dell'abilità del lavoratore e del rendimento del suo lavoro. Lo Stato sovietico esigeva dagli operai « duro lavoro, disciplina e mutua emulazione ».
    Questo storico discorso segna una svolta importante nello sviluppo della rivoluzione sovietica. Esso iniziò una nuova fase del grandioso esperimento. L'applicazione del nuovo principio fu, senza dubbio, il fattore più importante del successo dei piani quinquennali. L'iniziativa e l'attività della massa vennero stimolate dalla prospettiva di un maggior guadagno, ma questo, provenendo esclusivamente dal proprio lavoro, non era affatto in contrasto col principio fondamentale della vita sovietica, che vieta di arricchirsi a spese del lavoro altrui.

    * * *


    La gigantesca lotta intrapresa per la creazione dell'industria sovietica era concepita, starei per dire, in termini quasi militari. Si sentiva dovunque parlare non solo di piani da eseguire, ma anche di udarnik, gli operai di urto o di assalto, ai quali nelle officine e negli uffici era affidato il compito di incitare gli altri con l'esempio ad affrettarne l'esecuzione. In compenso questi lavoratori erano meglio trattati: ricevevano paghe più alte, e di estate, nel periodo di vacanze, ottenevano a titolo di premio il permesso di recarsi a soggiornare un mese o più in una delle case di riposo del Caucaso o della Crimea.
    Nel 1932 il salario medio mensile di un operaio si aggirava fra i cento e i duecento rubli, somma che, in relazione ai prezzi di allora, era largamente sufficiente ad assicurare il mantenimento di una singola persona. Si rammenti che un pasto sostanzioso, preso alla mensa collettiva dell'azienda dove si lavorava, costava poco più di mezzo rublo e che, per l'alloggio, un operaio pagava pochissimi rubli al mese. Sicchè, fra alloggio e vitto, se ne andava per ogni persona una piccola parte del salario medio mensile.
    Più caro era il vestiario, soprattutto le scarpe, la cui produzione in quegli anni era insufficiente. Un paio di scarpe, nei magazzini chiusi, costava da cinquanta a sessanta rubli. Nei magazzini liberi si giungeva a duecento o trecento.

    * * *


    Dal 1931 al 1936 la produzione, sia dell'industria che dell'agricoltura, crebbe assai rapidamente, ed i salari aumentarono anche essi, fino a raddoppiarsi; ma i costi del vitto e dell'alloggio non salirono nella stessa proporzione: essi crebbero in misura molto minore. Sicchè si ebbe un effettivo, grande miglioramento nel tenore di vita di tutti i lavoratori.
    Durante quegli anni la differenziazione dei salari si andò accentuando in modo tale che, già nell'anno 1934, a fianco dell'operaio che guadagnava centocinquanta rubli al mese si trovava quello che guadagnava due o tre volte tanto. Ma lo scarto fra il minimo ed il massimo salario crebbe enormemente dopo che Stakanov, un operaio minatore, ebbe mostrato che si poteva eseguire il lavoro in modo da accrescere di molto la produzione. Stalin colse al balzo l'occasione offertagli da questo operaio per promuovere quel gran movimento che prese nome di stacanovismo. Esso consistette, in sostanza, nell'incitare gli operai a produrre sempre più e sempre meglio, lasciando che in cambio realizzassero guadagni molto elevati. I lavoratori che seguirono il movimento si chiamarono stacanovisti. Vi erano stacanovisti che guadagnavano mensilmente fino a duemila o tremila rubli, cioè otto o dieci volte di più del salario medio di un operaio comune.
    Per gli ingegneri ebbe luogo la medesima differenziazione. Nel 1932 i giovani ingegneri russi che lavoravano alla mia dipendenza avevano salari variabili dai duecento ai trecento rubli mensili; quattro anni dopo i loro salari partivano da un minimo di duecento cinquanta rubli per giungere a quattro o cinquecento, e nei posti direttivi anche settecento o ottocento.
    Si vede bene dalle cifre che ho dato che in Russia vi era tutt'altro che quella uniformità di salari di cui blateravano gli avversari dell'Unione Sovietica !
    Un minimo per vivere era assicurato a tutti, un minimo tanto più facile ad ottenersi in quanto, com'è risaputo, in Russia non vi era disoccupazione. Proprio negli anni in cui la disoccupazione più infieriva in America ed in Europa, nell'Unione Sovietica non vi era neppure un disoccupato. Ma, a parte il minimo necessario per vivere, la formula che si applicava in Russia non era: « a ciascuno secondo il suo bisogno », ma piuttosto: « a ciascuno secondo il suo merito ». Fare altrimenti avrebbe significato incoraggiare la infingardaggine proprio nel momento in cui si richiedeva da tutti i cittadini il massimo sforzo per la costruzione della nuova società.
    La stessa cosa avveniva per le varie categorie di lavoratori intellettuali, ad esempio per i medici. Questi avevano tutti un impiego stabile presso un ospedale o un istituto medico statale, od una casa di cura cooperativa che assicurava loro un salario sufficiente per vivere. Ma in più potevano esercitare la professione privatamente, ed è qui dove avevano libero gioco l'abilità ed il valore individuali. Vi erano a Mosca medici modesti che guadagnavano tre o quattrocento rubli al mese; ma vi erano di quelli che ne guadagnavano parecchie migliaia. Né più nè meno di quello che avviene altrove.
    Interessante mi sembrava il modo come venivano rimunerati gli artisti di teatro. Un attore o un tenore, anche di gran fama, un direttore di orchestra, anche se celebre, una grande ballerina, ricevevano dal teatro dove erano stabilmente impiegati un salario che variava, naturalmente, a seconda della bravura dell'artista, ma che tuttavia era sempre relativamente modesto, e, certo, niente affatto paragonabile con le paghe, spesso assai esagerate, che altrove si corrispondono ad artisti famosi. Questo permetteva di tenere relativamente bassi prezzi dei biglietti per i teatri, nonostante la perfezione con la quale gli spettacoli venivano dati. Ma l'artista poteva disporre a suo talento del tempo che gli rimaneva libero per dare concerti o rappresentazioni presso istituzioni private, con le quali poteva liberamente contrattare la somma da pagargli; cosicchè, con questa attività secondaria, i migliori di essi riuscivano a guadagnare due o tremila rubli al mese.
    Una categoria privilegiata mi parve fosse quella degli scrittori e dei giornalisti. Essi guadagnavano molto. Di un giornalista, mio conoscente, sentii dire che giungesse a guadagnare fino a quattromila rubli al mese !
    Questi grossi guadagni, tanto al disopra della media, eran permessi a tutti, tranne, però, che ai membri del partito comunista. Per questi, come ho già detto, il massimo salario consentito era, nel 1932, di trecento rubli al mese, comunque importante fosse la carica da essi tenuta. Negli anni successivi questo minimo, almeno per quanto riguarda gli ingegneri (di cui so più particolarmente per conoscenza diretta), fu elevato, e presso a poco, io credo, in proporzione dell'aumentato costo della vita; ma tuttavia i salari massimi dei comunisti furono mantenuti sempre ad un livello assai basso in confronto di quelli di un operaio stacanovista o di un intellettuale delle categorie citate sopra. Non era ammissibile che un membro del partito fosse spinto a compiere il proprio dovere dal desiderio di guadagnare. Una tal cosa sarebbe stata assurda per un partito, che voleva essere, ed era effettivamente, una élite di costruttori della nuova società, entusiasti e disinteressati. Si ricordi che i membri del partito comunista costituivano in Russia, in quel tempo, una esigua minoranza, di appena l'un per cento, della popolazione. Ad essi non era in alcun modo concesso accumulare denaro, come poteva fare con i propri risparmi qualsiasi bravo operaio o contadino, o qualsiasi medico primario o scrittore. Questo però non vuol dire che non fosse loro assicurato il modo di vivere decentemente. Tutt'altro. I miei amici solevano raccontarmi delle cure che si avevano per i comunisti che tenevano posti di grande responsabilità, perchè potessero attendere tranquillamente al loro lavoro, liberi da ogni preoccupazione di carattere materiale. Ma in cambio di questa libertà dal bisogno concessa ai membri del partito, quali sacrifici e quale abnegazione si richiedessero a ciascun di essi ho già accennato in un'altro capitolo.
    In sostanza il partito costituiva una vera e propria milizia. Di essa si aveva la stessa cura materiale che lo Stato Sovietico prendeva dei soldati dell'esercito rosso, che erano anche essi ben vestiti e ben nutriti, pur nel tempo della più dura carestia. Ma, precisamente come ai soldati, si richiedeva ai comunisti disciplina e spirito di sacrificio.

    * * *


    Tali erano le condizioni economiche in Russia nel tempo che vi fui io.
    Certo il periodo che va dal 1932 al 1936 rappresenta nella storia della costruzione socialista russa un periodo di rapida ascesa in tutti i campi. Mentre negli altri paesi la crisi economica non poteva ancora dirsi del tutto superata, l'economia sovietica era in pieno sviluppo. Alla fine del 1936 la produzione industriale rispetto a quella del 1933 era raddoppiata; quella agricola era anch'essa in piena ascesa. Parallelamente alla produzione anche il tenore di vita delle masse sovietiche era andato rapidamente innalzandosi.
    La stessa città di Mosca, come ho già notato altra volta, subì esteriormente un grande mutamento. Le strade vennero quasi tutte asfaltate; nuovi grandi edifici furono costruiti, sorsero nuovi quartieri di abitazione. Divenute all'enorme traffico cittadino insufficienti le linee tranviarie, comparvero i trolley-bus e fu costruita la metropolitana.
    La costruzione di questa ferrovia sotterranea, iniziatasi verso la fine del 1932, ebbe luogo con una rapidità che solo in America avrebbe potuto esser sorpassata. La sua costruzione mi causò, invero, il dispiacere di veder demolita la piccola bella chiesa che sorgeva proprio davanti a casa mia, ma quando vidi ultimate ed aperte all'esercizio le prime linee della metropolitana, dimenticai il mio disappunto. Vi si accedeva da eleganti stazioni, ciascuna di un tipo architettonico diverso, di uno stile moderno non privo di decoro artistico. Vi si discendeva su scale mobili che rotolavano silenziosamente senza interruzione. Le gallerie spaziose, ricche di marmi, sfolgoravano di luce. Qua e là, si vedevano eleganti chioschi di vendita. Ed una folla alacre, composta, decentemente vestita, che entrava ed usciva dai modernissimi treni che velocemente giungevano e ripartivano a brevi intervalli di tempo.

    La proprietà

    MA esiste la proprietà in Russia ? Ecco una domanda fattami centinaia di volte. Esiste: con grandi limitazioni, ma esiste.
    Il padre di Elisabetta Simeovna possedeva una casa di campagna, una dacia, ed erano tanti quelli che ne possedevano. Si poteva possedere l'appartamento che si abitava cd ogni sorta di beni mobili, da un'opera (l'arte ad un'automobile. Si potevano avere depositi di denaro presso la Banca di Stato o le Casse di risparmio postali. Si potevano possedere titoli di stato, come quelli dei prestiti fatti per l'esecuzione dei piani quinquennali. E tutte queste cose si potevano, morendo, trasmettere ai propri figli.Non si poteva possedere la terra, perchè questa era dichiarata proprietà nazionale. Nessuno poteva accamparvi diritto di proprietà, e ciò sembrava tanto naturale, come è naturale che nessuno accampi diritti sull'atmosfera di cui abbiamo bisogno per respirare: la terra dà da vivere a tutti gli umani. Ciò non impediva però che appezzamenti di terreno venissero dati in uso personale ai contadini delle Kolkose (Kollectivnoie Kasiajstvo).
    I depositi presso le banche e gli uffici postali fruttavano interessi, che al mio arrivo nell'U.R.S.S. erano molto alti: si riceveva il sette per cento, e sui prestiti dei piani quinquennali si era arrivati perfino al dieci. Dai depositi si potevano liberamente prelevare somme servendosi del sistema degli assegni.
    Il principio fondamentale della vita sovietica è che ognuno lavorando deve dare secondo la propria capacità e ricevere secondo il proprio lavoro. L'applicazione di tale principio portava ad una grande differenziazione dei salari, per cui, come ho detto avanti, vi era chi guadagnava novanta rubli mensili, come il fattorino del mio ufficio, e chi invece ne guadagnava due o tre mila come un operaio stacanovista.
    All'atto pratico, però, le grandi differenze di guadagno venivano attenuate col far variare i prezzi delle cose di prima necessità a seconda delle categorie stesse. Per l'abitazione, ad esempio, una camera a Mosca, se assegnata ad un operaio o un ingegnere della Dirigiablestroi, costava sei rubli al mese; assegnata invece ad un giornalista, ne costava trenta o quaranta. In sostanza, per ciò che concerneva le cose indispensabili alla vita, esisteva una scala di prezzi variabile con quella dei salari. Ma tuttavia, a certe categorie come, ad esempio, scrittori, artisti, giornalisti, ecc., rimaneva pur sempre, sui grandi guadagni che facevano, un largo margine, con cui potevano migliorare il proprio tenore di vita, oppure risparmiare nel modo che ho detto.

    * * *


    La regola era: « Chi non lavora non mangia ». Ciò nonostante si potevano avere, e si ebbero specialmente nei primi tempi, curiose eccezioni.
    Un caso di questo genere occorse a Leningrado dove la polizia, una volta, appurò che un certo cittadino, pur non avendo alcuna occupazione redditizia, viveva con lusso nel suo appartamento. Un ispettore, mandato al domicilio di quel tale a chiedere spiegazioni, si vide, con suo grande stupore, aprire la porta da un servo in livrea, che lo introdusse dal padrone di casa. Questi lo ricevette con grande dignità. Informato di che cosa si volesse da lui, forni le spiegazioni richieste: « Sono un buon cittadino », disse, « rispettoso delle leggi dello Stato. Quando fu emanato l'ordine di consegnare tutto l'oro che si possedeva, vi adempii scrupolosamente, ed investii i rubli, che ricevetti in cambio del mio oro, in prestito del piano quinquennale. La rendita di quel prestito mi fornisce i mezzi per vivere».
    Non vi era nulla da replicare. L'uomo era perfettamente a posto con le leggi sovietiche. Nessuno poteva disturbarlo, e nessuno lo disturbò.

    * * *


    Del denaro guadagnato si faceva in Russia l'uso che se ne fa dovunque nel mondo. Una sola restrizione importante: non si poteva con esso comprare della terra nè impiegarlo in imprese in cui si sfruttasse a proprio beneficio il lavoro altrui. Così pure non era lecito servirsene per costruire un fabbricato per abitazioni con l'idea di fittarne gli appartamenti a scopa di speculazione. Nè si sarebbe potuto adoperarlo a mettere su un'officina dove sarebbero stati assoldati degli operai. Queste cose erano rigorosamente vietate; ma non era vietato, ad esempio, che un gruppo di medici ed infermieri mettessero insieme le proprie risorse per fondare una casa di cura.

    * * *


    Uno scrittore francese di economia, Joseph Dubois, in un libro comparso nel principio del 1932 col titolo: Une nouvelle Humanité, scriveva a proposito della proprietà in Russia delle cose interessanti, di cui mi piace riportare qualche brano.
    Devo premettere che il Dubois si professa avversario dichiarato del regime sovietico. Infatti in un punto del libro dichiara: « Personalmente ho per il regime sovietico una profonda avversione a causa dell'assassinio che ha commesso della libertà individuale ». E più avanti, in un altro punto del libro: « Vi è tanta differenza fra il nostro regime e quello sovietico, quanta ve ne è tra una passeggiata sotto un bel sole lungo la Senna e una corsa fatta nel Metro durante le ore di maggior traffico ».
    Eppure la medesima persona che ha scritto tali cose, non certo complimentose per il regime sovietico, quando parla della proprietà in Russia, si esprime così:
    « Sembrerebbe che alla rivoluzione sovietica si possa applicare una definizione celebre, di cui autore è quel Polibio che, sicuramente, è il più interessante dei quattro storici greci: In tutte le rivoluzioni la sola cosa che conta è quella di spostare la proprietà: di qui la necessità di ricominciarle spesso.
    « Orbene la rivoluzione sovietica non appena entrata nella frase di Polibio si è affrettata ad uscirne; essa non ha perseguito, in effetti, una ridistribuzione della proprietà, ma più semplicemente si è preoccupata di dimostrarne l'inutilità. Una rivoluzione, la quale ha liquidata la proprietà senza ridistribuirla, ha acquistato per questo stesso fatto un carattere talmente definitivo, che non ha bisogno più di essere ricominciata ».
    Quando si ridistribuisce la proprietà, osserva il Dubois, si crea un nuovo diritto, che in qualche modo ravviva l'antico. Ma il regime sovietico non ha spostata la proprietà, perchè nessuno si è impossessato dei beni degli antichi proprietari. Di guisa che, se per caso quel regime un giorno crollasse, gli antichi possessori non troverebbero installato sulle loro terre di una volta un altro proprietario, cui potessero rivolgersi per rivendicare l'antica proprietà.
    « La virtù sovietica ha potuto realizzare », dice il Dubois, « un caso completo e definitivo di spodestamento ».
    Si aggiunga che sotto il regime sovietico il rendimento delle terre è di gran lunga cresciuto rispetto a quello che era al tempo degli zar. Con qual diritto potrebbe allora un emigrato russo reclamare la proprietà di una terra, che non solo non appartiene più a nessuno, ma che per giunta frutta oggi alla collettività dieci volte più di quanto era capace di farla fruttare lui quando la possedeva ?
    « Il regime sovietico », conclude lo scrittore, «è realmente fondato su una virtù ostinata e feroce, di cui guardiano è il partito comunista. Può darsi che questa constatazione obiettiva non piaccia a molti; ma bisogna pur farla, perchè non solo è l'espressione della verità, ma il fondamento della conoscenza, nel senso cartesiano della parola, per tutto ciò che concerne l'U.R.S.S. ».

    * * *


    Tolta la terra agli antichi proprietari, essa venne affidata alle Kolkhoz, che sono aziende direttamente gestite dallo Stato. Nel 1933 oltre i 3/4 dell'area totale seminativa dell'U.R.S.S. era nelle loro mani; oggi dai 3/4 si è passato al 93%, il che vuol dire che la quasi totalità della terra coltivabile è affidata alle aziende collettive o statali. Le aree a cultura seminativa tecnica, quelle cioè che servono alla produzione di cotone, lino, semi oleosi e barbabietola, sono, poi, tutte ad economia socialista. Il progresso realizzato è dimostrato da poche cifre. Nel 1936, quando lasciai la U.R.S.S., l'area totale seminativa era cresciuta del 3o% circa rispetto a quella dei tempi zaristici (1913) ed anche la produzione globale era cresciuta, sebbene in misura minore. Ancora più forte, poi, fu il progresso delle terre a colture tecniche, la cui produzione nel 1938 raggiunse il triplo circa di quella del 1913.
    Le aziende agricole socialiste sono attrezzate modernamente con trattori, macchine trebbiatrici ed autocarri. Rapido fu il progresso di questa meccanizzazione negli anni del mio soggiorno. I trattori, che nel 1933 erano quattrocentoventiseimila, si trovavano raddoppiati nel 1936; le trebbiatrici da venticinquemila passarono ad ottantottomila. L'ascesa continuò negli anni successivi, tanto che nel 1938 i trattori eran triplicati di numero e le trebbiatrici sestuplicate.
    A conti fatti non si può mettere in dubbio che il grandioso esperimento sovietico di agricoltura socializzata sia riuscito, e che esso rappresenti un gran passo verso la modernizzazione del mondo. Specialmente interessanti sono a questo riguardo le aziende agricole statali, le sovkhoz. Esse costituiscono delle grandi organizzazioni, progettate scientificamente e dirette con criteri moderni. I suoi lavoratori sono disciplinati e ben preparati. Un modello se ne ebbe nel « Gigante» del Caucaso, la più grande azienda granaria del mondo, coprente un'area di oltre cinquemila chilometri quadrati.
    Oggi si può dire che tecnicamente l'agricoltura sovietica, sebbene non dia ancora il rendimento che si dovrebbe aspettarne, rappresenta una delle più progredite del mondo, essendo la più industrializzata e la più meccanizzata.
    Questa ricostruzione dell'agricoltura russa, la sua trasformazione da un'economia quasi medievale ad una modernissima, non poteva aver luogo senza incontrare ostacoli formidabili, di cui la tenacia di Stalin ebbe ragione. Vi furono anche periodi di violenza, quando si trattò di vincere la resistenza opposta dai contadini ricchi, i kulakì. Furono anche commessi errori, soprattutto per l'impazienza e l'eccesso di zelo dei giovani comunisti incaricati di dirigere la trasformazione. Così, ad esempio, quando fu dato l'ordine ai kulaki di consegnare il bestiame, che essi preferirono, invece, di uccidere. Fu questo il periodo di tempo in cui, tra l'altro, i mercati russi si trovarono inondati da una quantità di pollame a poco prezzo. Ma, riparati gli errori e vinta definitivamente la resistenza dei kulakì, la nuova economia agricola finì con lo stabilirsi su solide basi.

    La famiglia

    QUANDO giunsi a Mosca nel 1931, tutto accennava ad una completa disgregazione dell'istituto familiare. L'esortazione stessa a preferire la mensa comune a quella di famiglia, che appariva scritta sulle pareti del ristorante della stazione ferroviaria di Niegoroloje, sembrava dare allo straniero, che entrava nell'U.R.S.S., l'annuncio della scarsa considerazione in cui allora era tenuta in Russia la vita familiare.
    Infatti l'abitudine di prendere il pasto principale della giornata fuori casa era generale. Tutte le officine, tutti gli uffici erano provvisti di stalovaje, dove a prezzo assai basso si poteva avere il pranzo. La donna, uscendo la mattina di casa per recarsi al lavoro, non aveva affatto da pensare alla spesa e alla preparazione del desinare. Tutta la sua fatica culinaria si riduceva a preparare, la sera, il tè a guisa di cena. All'infuori di questo non doveva provvedere ad altro, perchè, al pari di lei, marito e figliuoli avrebbero mangiato fuori casa.
    Quando si pensa che le nostre donne in Italia occupano molte ore per far la spesa, preparar da mangiare e rassettare la cucina, si vede subito quale enorme risparmio di tempo e di fatica rappresentassero per le donne sovietiche le cucine collettive. Ma bisogna aggiungere che in Russia il lavoro domestico veniva di molto complicato dalla scarsezza di alloggi. In una città sovrappopolata come Mosca convivevano quasi sempre in un medesimo appartamento più famiglie con un'unica cucina in comune, e si comprende, perciò, come la donna fosse ben contenta di non dover allestire il pranzo per i suoi familiari.
    La politica sovietica di quel tempo aveva come mira di liberare la donna dalle sue occupazioni domestiche per darle la possibilità di partecipare con tutte le sue forze alla grande opera di industrializzazione intrapresa da Stalin. Per questa ragione nelle nuove città industriali non erano previste cucine individuali, ma collettive. A Dnieprostroi, ad esempio, ve ne era in media una per ogni trecento persone. La donna, liberata così da questo pesante dovere domestico, poteva dedicare tutto il suo tempo all'officina e all'ufficio.
    Da questo punto di vista l'analogia di quello che avviene in Russia con ciò che succede in America è grande. Anche in America il desinare del mezzogiorno, il lunch, viene generalmente consumato sul posto del lavoro. Anche in America la
    donna, liberata da buona parte degli usuali lavori domestici (che del resto le vengono resi molto facili dall'uso dell'elettricità, del telefono e dell'automobile) ha assai più tempo da dedicare alle sue occupazioni fuori casa.
    Ma negli Stati Uniti sono ancora molte le donne che hanno come occupazione principale quella di badare alla casa ed accudire alla famiglia. Non così in Russia, dove l'uguaglianza dei sessi è assoluta, e dove non vi sono compiti affidati ad uomini che non possano anche, e spesso con migliori risultati, venir affidati a donne.
    Le donne partecipano alla vita economica, sociale, culturale, politica del paese nella stessa misura degli uomini. Anzi, vi sono campi dove esse portano un'intelligenza, uno spirito d'iniziativa, un'energia superiori all'uomo, per cui finiscono con l'esercitarvi un'influenza preponderante. Sono molte le aziende o imprese, alle quali sono preposte delle donne, che spesso riescono là dove gli uomini han fallito. Nella Dirigiablestroi più di un reparto era diretto da donne, le quali del resto, in quella azienda, venivano impiegate perfino in compiti altrove riservati esclusivamente agli uomini, come, ad esempio, quello di motorista a bordo di dirigibili.
    In sostanza era ben raro in Russia trovare una donna che non avesse un lavoro fuori casa e non potesse, col frutto di quel lavoro, bastare a se stessa. L'indipendenza economica dall'uomo le era assicurata nel modo più completo.
    In tali condizioni di cose è naturale che i vincoli familiari si fossero assai rallentati.
    La stessa cosa avviene anche in America, benchè in misura minore che in Russia dove la libertà reciproca dell'uomo e della donna, che convivono insieme come marito e moglie, è assai più grande, e dove anche i figliuoli costituiscono un vincolo piuttosto tenue, visto che la maggior parte delle responsabilità della loro educazione ricade sullo Stato.Uguaglianza assoluta di diritti per l'uomo e la donna, partecipazione di questa a tutte le attività della vita sociale, riduzione al minimo della vita familiare in comune, eran tutte cause queste che minavano le basi dell'istituto familiare. Ma oltre queste, ve ne erano altre più gravi.Anzitutto l'estrema facilità di stabilire e sciogliere un vincolo matrimoniale. Nessuna cerimonia, nessuna formalità solenne. Una semplice registrazione della dichiarazione fatta dai due sposi o anche da uno solo di essi. Ma molte volte non aveva luogo nemmeno tale dichiarazione. Esisteva cioè anche il matrimonio di fatto; bastava che due convivessero insieme come marito e moglie perchè l'unione fosse legalmente riconosciuta.Il solo vero vantaggio che il matrimonio registrato presentava su quello non registrato, era che, nel caso di contestazione a chi spettasse di provvedere agli alimenti di un bambino, il giudice, se il matrimonio era stato registrato, presumeva senz'altro che il padre del bambino fosse il marito denunziato.
    Facilissimo era il divorzio. Se l'unione era registrata bastava la denunzia di uno dei due, fatta anche a mezzo di una semplice cartolina postale. Se l'unione non era stata registrata, bastava rompere la convivenza.
    Anche in questa estrema facilità di contrarre e sciogliere un vincolo matrimoniale la Russia mi richiamava in mente l'America. Ma in America, almeno, è obbligatorio andare davanti ad un giudice che esamina i motivi addotti per il divorzio (*). E vero, però, che spesso questi motivi sono ridicoli, e ciò nonostante il divorzio viene accordato lo stesso. Da tal punto di vista è difficile di dire quale sia, in ultima analisi, il peggiore dei due sistemi.

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    Secondo le idee che in quei primi tempi prevalevano in Russia, il bambino essenzialmente apparteneva alla madre. Il padre

    (*) Vedi nota successiva

    sembrava non avesse altro dovere che dare il danaro necessario per allevarlo.
    La ricerca della paternità era permessa. Spesso, nei casi dubbi, avveniva che i tribunali ripartissero la somma che si doveva corrispondere per il mantenimento del bambino fra diverse persone. Mi fu raccontato che una volta l'uomo, che la donna aveva citato quale padre del bambino, non volle ammettere di esserlo, adducendo il motivo che nello stesso tempo la donna aveva avuto rapporti anche con altri due uomini. Il giudice interrogò questi, ed avuta la conferma di quanto aveva asserito il primo, nell'impossibilità di stabilire chi fosse il padre, li condannò tutte e tre a pagare gli alimenti al bambino, la qual cosa equivaleva ad ammettere che fossero egualmente responsabili della sua nascita. Una triplice paternità, dunque, la quale però, all'infuori del dover pagare mensilmente trenta o quaranta rubli che sarebbero stati trattenuti sul salario, non importava, da parte dei tre uomini, altri obblighi verso la donna e il suo bambino.

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    Mosca al mio tempo era sovrappopolata, e probabilmente lo è ancora adesso. Per quanto si costruissero nuove case, non si riusciva mai a provvederne abbastanza per la popolazione che andava rapidamente aumentando. Credo che in media non vi fossero disponibili più di tre metri quadrati di spazio per ogni abitante. Questa ristrettezza costituiva un altro ostacolo allo sviluppo della vita familiare.
    Essa dava luogo a casi curiosi come quello capitato a due coniugi conoscenti di Elisabetta Simeovna, che abitavano a Mosca. Un giorno essi ricevettero la visita di due amici, marito e moglie, provenienti dalla Crimea. Il senso dell'ospitalità, come tutti sanno, è vivissimo in Russia. Non vi è nemmeno bisogno di preavvertire l'amico del vostro arrivo. Vi presentate a casa sua, ed in un modo o nell'altro egli vi darà alloggio e da mangiare. Nulla di straordinario, dunque, che gli amici di Elisabetta cedessero ai due ospiti metà della camera dove alloggiavano.
    Ma la visita si prolungò. I due venuti dalla Crimea finirono col trovare lavoro a Mosca e con lo stabilirvisi. La ospitalità da temporanea divenne duratura, e le due coppie, occupando ciascuna metà della camera, continuarono a vivere insieme indefinitamente.
    Col passare del tempo un giorno si scoprì che il marito dell'una coppia si era innamorato della moglie dell'altra. Che fare ? Da noi sarebbe nato un dramma sanguinoso, ma in Russia certe situazioni si risolvono più pacificamente, anche se vi siano violente discussioni. In questo caso non vi fu nemmeno discussione. Le due coppie furono subito d'accordo: si scambiarono fra loro mariti e mogli, e proseguirono a vivere tranquillamente nella medesima camera.
    Questo modo di reagire dei russi, in certe situazioni imbarazzanti, mi fa ricordare di aver assistito una volta nella strada della Petrovka ad una scena veramente divertente. Due uomini fermi su] marciapiede discutevano fra loro vivacemente. Ad un tratto l'uno di essi allungò all'altro un calcio nel sedere. Mi aspettavo che ne sarebbe seguita una zuffa, ma invece l'uomo che aveva ricevuto il calcio compostamente si allontanò senza nemmeno voltarsi.

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    Si sbaglierebbe chi da episodi come quello narratomi da Elisabetta o da altri analoghi traesse la conclusione che in Russia le coppie unite stabilmente fossero rare. Tra i cento ingegneri che lavoravano con me, tutti quelli che sapevo ammogliati mantenevano, dopo cinque anni, intatta la loro unione. Si rifletta, per spiegarsi questa stabilità, che nell'Unione Sovietica a far unire insieme due giovani non poteva generalmente esservi altra ragione che l'attrazione reciproca. Le considerazioni di carattere economico erano quasi completamente escluse, perchè la donna, avendo la sua occupazione e potendosi mantenere da sè, non sentiva alcun bisogno di appoggiarsi ad un uomo. Con ciò non voglio dire, però, che non vi fossero eccezioni a questa regola. Anche in Russia vi erano donne ambiziose o vanitose che miravano, ad esempio, a sposare un comunista influente od un ufficiale della G.P.U. per godere di alcuni vantaggi di carattere materiale o anche per conquistare un maggior prestigio personale. Bisogna riconoscere che, a questo riguardo, tutto il mondo è paese. La stessa cosa avviene, ad esempio, in America, dove spesso matrimoni e divorzi sono suggeriti alla donna solo dal desiderio di conseguire una migliore posizione sociale.

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    Le condizioni assai spesso precarie della vita in quegli anni, la politica, seguita dal Governo, di liberare la donna per quanto era possibile dalle occupazioni domestiche, la ristrettezza degli alloggi, l'enorme facilità del divorziare, eran tutte cause che avevano condotto alla decadenza dell'istituto familiare.
    Vi erano, però, talune famiglie che meglio delle altre avevano resistito alla disgregazione, ed erano quelle ebraiche.
    Un esempio si aveva nella famiglia di Elisabetta Simeovna, nella quale, dopo venti anni di rivoluzione, i legami familiari permanevano intatti o quasi. Questa famiglia continuava ad abitare da sola l'appartamento nel quale aveva sempre vissuto; l'unica differenza era che, legalmente l'appartamento, si trovava ora suddiviso fra i singoli membri della famiglia: una camera per i due vecchi genitori, un'altra per Elisabetta, un'altra per il fratello con la moglie, ecc.
    Nel gennaio 1932 visitai a Mosca una piccola famiglia costituita dal marito — un ingegnere ebreo — dalla moglie russa e da due bambini, uno di sette anni, l'altro di nove o dieci.
    Essa avrebbe potuto esser presa a modello in qualunque altra parte del mondo.

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    Vi era in Russia, nel 1931, e durò ancora per qualche anno, una grande diffusione delle operazioni di aborto, che venivano eseguite in appositi ospedali. Benchè fossero sconsigliate, esse, con certe limitazioni, erano allora ammesse dalla legge sovietica. Le donne ne parlavano apertamente senza alcuna reticenza, tanto che una volta una delle ragazze che lavoravano nel mio ufficio mi avvertì tranquillamente che avrebbe dovuto chiedermi otto giorni di permesso per recarsi a quello scopo all'ospedale. Dopo mi fu spiegato che la cosa era del tutto normale. Una donna aveva diritto, in quel caso, di ottenere dall'ufficio dove lavorava i giorni di permesso necessari.

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    Contribuiva in quei tempi a minare le basi della famiglia un'altra circostanza. L'educazione dei bambini, completamente nelle mani dello Stato, scavava spesso un abisso profondo fra genitori e figliuoli. I fanciulli, abituati a scuola alla vita in comune e ad agire e parlare secondo i principii comunisti, tornando a casa, si accorgevano che i loro genitori, ancora delle vecchie generazioni, parlavano ed agivano diversamente. Ne seguiva che, pur senza alcuna intenzione di far da delatori, essi riferivano al maestro parole e gesti dei genitori, che suonavano critica ai sistemi ed alle idee comuniste. Poteva in conseguenza avvenire che i genitori fossero molestati a motivo di ciò che avevano detto alla presenza dei figliuoli; donde una causa di scissione e di disaccordo. Ma più tardi, a dir il vero, le critiche dei ragazzi non furono più in alcun modo adoperate contro i parenti, ma solo considerate come una riprova della bontà dell'educazione che ad essi era stata impartita.

    * * *


    Tutte le cose cui ho accennato: l'assenza della donna da casa per la maggior parte della giornata, e la conseguente scarsezza di cure che essa poteva dedicare al marito e ai figliuoli, il solco profondo scavato fra i genitori e i figliuoli dalla educazione comunista, la facilità estrema di distruggere un vincolo matrimoniale, e infine lo scarso senso di responsabilità del padre verso il figlio portavano inevitabilmente ad una grande rilassatezza dei vincoli familiari, minando le basi stesse della famiglia.Si aggiunga l'ammissione legale dell'aborto, e si avrà il quadro della situazione in cui, durante i primi anni del mio soggiorno in Russia, si trovava l'istituto familiare.
    Poi la politica del Governo cambiò. L'aborto venne proibito con pene severissime, ed il divorzio reso assai meno facile (*). Meglio di tutto, poi, ebbe inizio una vasta, intensa propaganda, fatta anche a mezzo del teatro, per richiamare i padri ai loro doveri verso i figliuoli, incitare le mogli ad occuparsi del benessere dei propri mariti e protestare contro i facili divorzi. Con grande stupore di noi stranieri vi fu perfino una campagna demografica perchè le donne sovietiche avessero più bambini.
    Il curioso è che di quest'ultima propaganda non sembrava proprio vi fosse bisogno in un paese che, sotto il regime

    (*) Furono aumentate le tasse. Ma un ulteriore passo è stato fatto con la legge del 18 giugno 1944: secondo cui il divorzio deve essere pronunciato dalle corti giudiziarie dopo pubblica discussione. È proprio di questi giorni la notizia, diramata da Mosca dall'Associated Press, secondo cui, in seguito all'applicazione della nuova legge, in sedici mesi il numero dei divorzi è diminuito di due terzi.

    sovietico, aveva veduto la sua popolazione accrescersi di un quarto, e dove in certi distretti rurali l'aumento annuo aveva raggiunto il 12 %.
    Ma la campagna vi fu ed attivissima. Che portasse i suoi frutti me ne accorsi dal differente parlare di Mèla, la mia colta ed intelligente segretaria, che a ventisei anni si maritava per la terza volta. Questa volta, essa mi diceva, doveva essere l'ultima, la definitiva. Mèla, fino a poco tempo prima, mi aveva confessato di non aver voluto bambini perchè, nei tempi duri che correvano, non poteva assumere la responsabilità di un'altra vita. Ma ora all'improvviso cambiò parere.
    Virtù di una propaganda che fra l'altro metteva in mostra, dovunque, fotografie di Stalin nell'atto di accarezzare una fanciullina, o di prendere fra le braccia un bambino incontrato nel Parco di Cultura e Riposo.

    La religione

    GIUNGENDO a Mosca ero talmente convinto che non vi fosse alcuna chiesa cattolica aperta al culto che non mi presi nemmeno la briga di domandarne. Un giorno, però, conversando con Maria Andreievna, la mia segretaria di allora, seppi che di chiese ve ne erano due, proprio vicino a casa mia, dietro la piazza della Lubianka, una francese, l'altra polacca.Alla prima domenica mi ci recai. Le trovai gremite. Chiunque, naturalmente, poteva entrarci. Si intende che una parte del pubblico era di stranieri, ma vi erano anche molti russi.Ricordarsi della domenica non era cosa facile in Russia, a meno che ci si fosse trovati ad abitare in un villaggio dove i contadini ancora la rispettassero. Nel 1931 la settimana (così si continuava a chiamare l'intervallo di tempo che correva tra un giorno e l'altro di riposo) era di cinque giorni appena. Uno di essi era giorno di vacanza (vicannoi dien), e si faceva variare da azienda ad azienda per evitare una eccessiva calca ai teatri ed ai cinema, già troppo affollati. Il vicannoi dien coincideva con la domenica ogni trentacinque giorni,ma nel 1932, quando la settimana fu portata a sei giorni, la coincidenza ebbe luogo soltanto ogni quarantacinque giorni.
    Con 'la settimana così ridotta si era presto perduta ogni abitudine di indicare i giorni con i nomi tradizionali, il che avrebbe, del resto, creato una inutile confusione. Si diceva semplicemente: primo, secondo, terzo giorno, ecc. Perciò, vivendo in mezzo ai russi, presto si finiva col non saper più in che giorno si fosse, e la domenica il più delle volte passava inavvertita, anche quando si era fatto il proposito di non dimenticarsene.
    Per questa ragione Maria, mia figlia, quando giungeva a Mosca a passarvi le vacanze estive, pensava subito a prepararsi dei grandi cartelli dove scriveva i giorni della settimana: lunedì, martedì, mercoledì, ecc. Ogni mattina attaccava al muro, in un posto ben in vista, il cartello della giornata. Così non avrebbe dimenticato di andare a messa, la domenica.

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    Le chiese ortodosse a Mosca, la città dalle diecimila cupole, erano moltissime, ma quelle aperte al pubblico erano assai poche in verità. Ne domandai la ragione ai miei amici russi. Mi fu risposto che, non dando il Governo alcuna sovvenzione per il mantenimento delle chiese e dei preti, ad esso dovevano provvedere da soli i fedeli. Questi, pesò, non solo si andavano riducendo di numero, ma, quel che è peggio, non riuscivano più, in quei tempi di carestia, a dare un obolo che bastasse a coprire le spese del culto.
    Conseguenza inevitabile di questo stato di cose era che molte chiese venivano abbandonate. Se esse avevano un valore artistico, le si trasformava in musei, altrimenti erano demolite per far posto a nuove costruzioni, oppure adibite ad usi civili come era accaduto, ad esempio, di una piccola chiesa all'Arbat dove la Dirigiablestroi custodiva le sue automobili, e con esse anche la mia.
    Una chiesa assai bella era quella del Salvatore (Kram Krist Spassitelia) elevata in ricordo della liberazione della Russia dall'invasione francese. Era la più grande di Mosca e poteva contenere diecimila persone. Delle sue cinque belle cupole, la maggiore, quella centrale, misurava 102 metri di altezza. La visitai nel 1926. Sei anni dopo, nel 1931, non la trovai più. Al suo posto si lavorava per la fondazione del grande palazzo dei Sovieti.

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    La curiosità più di una volta mi spinse ad entrare in qualcuna delle chiese ortodosse aperte al culto. Erano decorate sfarzosamente. Con altrettanto fasto e grande solennità vi avevano luogo le funzioni religiose. Notai che erano frequentate prevalentemente da persone di mezza età od anziane. Di giovani se ne vedevano ben pochi, anzi direi, nessuno. Meno raro era il caso di vedervi dei ragazzi accompagnati dalle madri.
    Due di queste chiese sorgevano sulla piazza della Lubianka, una presso le mura cinesi, l'altra proprio vicino alla casa dove io abitavo, all'angolo della Mjasnitzkaja. Questa si chiamava di S. Antonio: era piccola, quadrata, con una bella cupola che la sormontava. Dicevano che fosse antica. Quando la mattina mi alzavo da letto, affacciandomi dalle finestre che davano sul cortile, me la vedevo davanti agli occhi a pochi metri di distanza. Era la sola bellezza artistica, per così dire, di cui potessi godere senza muovermi di casa, giacchè le altre finestre che davano sulla Mjasnitzkaja non avevano di faccia altro che il massiccio, brutto palazzo della G.P.U. Un giorno la bella cupola scomparve. La chiesa era stata demolita, per praticare al suo posto un pozzo della ferrovia sotterranea. Poco dopo scomparve anche l'altra, più grande, sotto le mura cinesi. Al suo posto si costruì una stazione della Metro.

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    Di « Popi », con la loro lunga zimarra nera, i capelli lunghissimi e la gran barba fluente, se ne incontravano spesso nelle strade centrali di Mosca, magari sulla stessa piazza Rossa dove, sul frontone dei fabbricati prospicienti al Kremlino, si leggeva scritto a caratteri cubitali: « La religione è l'oppio dei popoli». Mi sembrava così strana la loro apparizione in piena capitale comunista, che mi fermavo a bella posta ad osservare il contegno che avrebbero avuto i passanti nell'incontrarli. Ma i russi non mostravano nemmeno di accorgersi della loro presenza.

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    A Leningrado visitai una volta il museo antireligioso della cattedrale di Sant'Isacco, la bella chiesa dalla grande cupola dorata, al cui centro oscillava un pendolo che riproduceva la esperienza di Foucault. Sulle pareti, nelle navate sorrette da colonne di granito, erano in mostra documenti e fotografie riguardanti alcune strane sette religiose che anche allora pullulavano in Russia, specialmente nei dintorni di Leningrado. Non notai nulla di indecente. Ma ad Arcangelo, nel 1931, girando un giorno per la strada principale, lessi su una cantonata scritto in russo: « Museo antireligioso ». Entrai: una piccola camera a pianterreno con le pareti ricoperte di figure, iscrizioni, disegni. Mi avvicinai ad uno di questi: un quadro osceno che si riferiva alla Annunciazione, una cosa bassamente volgare e disgustosa. Nauseato, mi affrettai ad uscire.Mi apparve evidente che il museo di Arcangelo fosse fatto per un genere di visitatori del tutto diversi da quelli di Leningrado.Quel giorno stesso, ad Arcangelo, notai una rubizza contadina che passando davanti ad una chiesa posta fuori mano si faceva il segno della croce.

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    A Mosca, nel 1932, una ragazza di venticinque anni che mi faceva da interprete, mi mostrò la tessera dell'Associazione degli atei. « Perchè ne fate parte ? » domandai. « Che attività vi svolgete ? ». Si strinse nelle spalle. Non lo sapeva nemmeno lei.

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    A chi in Russia dirigeva la lotta antireligiosa credo dovesse assai poco importare se un uomo o una donna delle passate generazioni praticasse l'uno o l'altro culto religioso. Durante gli anni che io fui in Russia, per quello che mi consta, nessuna persecuzione ebbe luogo contro un cittadino sovietico per il solo fatto che frequentasse una chiesa. Quello che importava era che nell'educazione dei bambini (posta quasi completamente nelle mani dello Stato) lo spirito religioso dei genitori non avesse alcuna influenza. Per questa ragione si può ben dire che le nuove generazioni, quelle che hanno fatto la guerra, sono cresciute in un'atmosfera di assoluta antireligiosità.

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    Ai membri del partito era, naturalmente, fatto divieto di praticare qualsiasi culto religioso. Ogni manifestazione di tal genere avrebbe costituito un motivo di indegnità di appartenenza al partito.
    Fui molto divertito, una volta; dall'ingenua insistenza con la quale, in un eccesso di zelo antireligioso, un giovane comunista di mia conoscenza tentò di catechizzarmi. Ciò avvenne a casa mia, una sera che l'avevo invitato a pranzo insieme ad altri quattro o cinque ingegneri del mio ufficio. Fu solo dopo qualche occhiataccia rivoltagli dai compagni che si decise a smettere.

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    Nel marzo 1933, quando dopo l'operazione di appendicite fui dichiarato spacciato dai medici dell'Ospedale del Kremlino, Ester Josefovna mi domandò: «Volete un prete ? ».
    Il giorno dopo Elisabetta Simeovna, una delle mie infermiere, spalancò la porta della camera, dove giacevo moribondo, per lasciar passare un'alta, imponente figura di prelato, solennemente rivestito di paramenti sacri. Era Monsignor Neveu, il vescovo che alloggiava presso l'Ambasciata di Francia, che veniva ad amministrarmi i sacramenti.
    Qualche mese dopo, Elisabetta commentando la visita del vescovo mi disse: « Bila balsciaia sensazio ». Fu una grande sensazione per tutti, personale ed ammalati, veder entrare un prete nell'ospedale del Kremlino. Una cosa simile non si era mai vista.
    E non si poteva vedere, perché in quell'ospedale eran curati solo i «grandi» comunisti. Fu dunque un avvenimento memorabile l'entrata di un vescovo in quell'edificio, ma bisogna riconoscere che nessuna delle cinquecento persone che vi si trovavano si permise di far commenti men che rispettosi.

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    Di una cosa sentivo la mancanza in Russia, ed era il suono delle campane. Forse per chi va esule per il mondo, avendo vissuto da fanciullo in un piccolo centro od in campagna, non vi è nulla che riporti il pensiero alla patria ed alle persone care come quella musica sonora che ci ha accompagnati fin dalla infanzia.
    Una sera, al Teatro d'Arte in Mosca, dove si rappresentava un dramma -storico russo, ad un tratto la scena si aprì davanti ad una cattedrale. Nell'atto in cui lo zar scendeva gli scalini della chiesa, le campane cominciarono a suonare. Uno scampanio a festa, che andò sempre più crescendo, e che riempiva gli orecchi ed il cuore. La riproduzione del suono, come tutto il resto della rappresentazione, era perfetto. Ritornai ad assistere a quello spettacolo soprattutto per riudire il suono di quelle campane.
    Ma una volta a Leningrado, andando lungo la Perspectiva Newski per visitare la fabbrica di porcellane, fui colpito da un suono familiare. Stavolta eran proprio le campane di una chiesa, ed il suono metteva come una festa nell'aria e nello spirito.

    Cene funerarie

    Ho assistito una volta, a Mosca, ad una cremazione. Vi fui invitato da un celebre aviatore, cui dopo una lunga malattia era morta la moglie.
    Mi ci recai insieme con mia figlia e con Elisabetta Simeovna.Raggiunto in automobile il corteo funerario, proseguimmo a piedi per un chilometro o più. Infine giungemmo all'edificio dove avrebbe avuto luogo la cremazione: un edificio di forma semplicissima, di pianta quasi quadrata, con una gran sala a livello del suolo, nuda, fredda, squallida, rivestita di marmi.In questa sala fu trasportata la salma, ed ebbe luogo una funzione funebre con suoni, fiori e bandiere. Di là, attraverso una botola, la salma fu fatta discendere al piano sottostante, dove era il forno.Aperti gli sportelli di questo, la salma vi venne introdotta. Il gesto mi colpì. Senza volerlo mi richiamava quello del fornaio che spinge entro il forno una palata di pane.Mentre la cremazione avveniva, fummo invitati a guardare attraverso uno sportellino di cristallo. Il cadavere, investito dalle fiamme, si contraeva.Così terminò la macabra cerimonia. Le ceneri sarebbero state poi consegnate alla famiglia in una cassettina.L'impressione che provai non fu piacevole. Ero andato alla cerimonia con una certa curiosità, avendone sentito parlare da Elisabetta Simeovna come di uno spettacolo assai bello. Ma rimasi deluso ; dirò di più, disgustato. La cerimonia mi apparve, come realmente era, fredda, brutale, direi quasi cinica.

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    Al ritorno il marito della morta ci invitò ad andare a casa sua a prendere il tè.
    Non ero mai stato ad una cena funeraria. Ne ebbi un esempio.Il marito faceva gli onori di casa. Ci fece visitare l'appartamento. La camera da letto della morta era stata già disfatta. Ci annunziò che avrebbe comprato un nuovo letto. « Nuova vita, nuovo letto ».Giunsero man mano gli invitati. Quando ci furono tutti, il padrone di casa ci invitò a sedere davanti alle due tavole apparecchiate, e ci esortò a bere e mangiare. Passava da un tavolo all'altro dicendo: « Sgisn sgisn» (Vita, vita !) « Un po' di allegria! ».Si mangiò e si bevve. Io e mia figlia non prendemmo quasi nulla e ad una certa ora ce ne andammo. Rimase Elisabetta Simeovna, che poi ci raccontò che il festino era durato fino ad ora tarda della notte, e che si era continuato a bere e mangiare allegramente.
    In questo modo il marito, gli amici e le amiche della povera defunta ne commemorarono la morte !

    * * *


    Ma di un'altra cena funeraria seppi, interrotta in condizioni drammatiche.
    Il caso mi fu raccontato dal dottor Pohl, l'ex ambasciatore di Austria in Russia, direttore di un giornale in lingua tedesca che allora si pubblicava a Mosca.
    In un'officina elettrica, a causa di un corto circuito, due operai eran rimasti fulminati. Il medico dell'officina, constatatane la morte, aveva redatto il relativo certificato. Dopo di che le due salme erano state portate al cimitero per la tumulazione. Ora si dava il caso che uno dei due operai fulminati, venuto da poco tempo dall'America, indossasse nel momento dell'accidente un abito quasi nuovo.
    Un compagno di lavoro pensò (si era allora in Russia in un periodo di estrema scarsezza di indumenti) che in fondo era un peccato che un così buon vestito fosse messo a marcire sotto terra, mentre poteva servire a lui a proteggerlo dal freddo. Decise di recarsi al cimitero per portarlo via.Era una notte rigida d'inverno. Il freddo pungeva. Il camposanto era tutto ricoperto di neve.Ritrovato il posto dove era stata depositata la cassa funebre, il ladro la forzò. Il cadavere era là, disteso, rigido. Sollevatone il torso, il ladro tolse la giacca, poi il corpetto. Si accingeva ora a tirar via i pantaloni, quando ad un tratto, il cadavere fece un movimento, ed aprì gli occhi. Atterrito, il disgraziato afferrò tutto e scappò via di corsa.Era un caso di morte apparente, di quelli così frequenti nelle fulminazioni da corrente elettrica. Sotto il morso dell'aria fredda il creduto morto aveva ripreso i sensi, e si trovava ora nudo, all'aperto, nella notte gelata, disteso in una cassa funebre !
    Si alzò, uscì dal cimitero. Alla prima casa che trovò, si fermò a chiedere in prestito una coperta. Gli fu data. Vi si avvolse ed a piedi si recò a casa sua, dove la moglie, il fratello di lei e gli amici, si trovavan riuniti per la rituale cena funeraria.
    Bussò. Venne la moglie ad aprire. A vedere il marito avvolto nella coperta, gettò un grido di terrori, e richiuse a precipizio la porta, correndo dentro, pallida e tremante, a narrare agli ospiti che lo spettro del marito era là che voleva entrare. Gli ospiti credettero ad una allucinazione, ma ecco bussare di nuovo violentemente. Il fratello si decise ad andar lui a vedere di che si trattasse; e così potette convincersi che non sì trattava di uno spettro, ma di suo cognato in carne ed ossa, che tornava a casa.
    Un particolare raccapricciante. La mattina dopo, si andò al cimitero con la speranza di trovar vivo anche l'altro fulminato. Ma era già cadavere da alcune ore. Il disgraziato era rinvenuto anche lui, ed aveva tentato inutilmente di rompere la cassa in cui era chiuso. Fu trovato con la faccia rivolta all'ingiù, tutto contorto per lo sforzo tremendo che aveva fatto.

    * * *


    Ebbi la curiosità di sapere se, la giovane moglie di Stalin fosse stata cremata o sepolta.
    Era stata inumata, e mi fu un giorno indicato il cimitero dove era seppellita.

    Case di lavoro per donne

    NELL'AMPIA sala del ristorante del Metropole, sfarzosamente decorata ed illuminata, gli zingari avevano interrotto i loro canti e le loro danze per andare anch'essi a cenare. La sala era semivuota. Solo pochi stranieri sedevano qua e là, chè in quel tempo al Metropole bisognava pagare in valuta forestiera, e perciò il ristorante non poteva essere frequentato da cittadini sovietici. Mi trovavo seduto ad un tavolo del centro, presso la gran vasca dove guizzavano dei pesci dorati, e dal mio posto scorgevo il bar, davanti al cui banco alcuni giornalisti americani erano seduti a bere: fra gli altri Stoneman, il corrispondente del Chicago Daily NEWS, che conoscevo da molti anni.
    Ora che il melanconico canto degli zingari si era taciuto, avevo ripreso a conversare con Leteisen, il giovane ingegnere comunista che il Capo della Flotta Area Civile aveva messo a mia disposizione come interprete. Venuto a parlarmi del programma della riunione fissata per il pomeriggio del giorno dopo, si era trattenuto a lungo, ma come al solito aveva rifiutato di cenare con me.
    Leteisen mi piaceva molto. Aveva modi gentili e fini. Alto, magro, con due occhi scuri che guardavano in faccia mentre parlava con tono di voce tranquillo e pacato. Indossava una casacca militare. Parlava indifferentemente in italiano, francese e inglese. ma conosceva bene anche il tedesco, e non so più quale lingua orientale. Rispondeva sempre di buon grado a tutte le domande che gli ponevo sui vari problemi della vita sovietica. Una volta scrisse su un foglio di carta una serie di idee e di principii comunisti, e me lo diede, ma il giorno dopo mi pregò di restituirglielo.
    Quella sera si era finito col discorrere di quelle disgraziate che si vedono in giro per le strade di Parigi, di Berlino, o di Londra ad allettare i passanti, ma che a Mosca non si vedevano più. Leteisen mi parlò a lungo della lotta che il partito aveva intrapresa per estirpare il terribile male. Quelle povere donne venivano avvicinate nella strada ed indotte con la persuasione a lavorare. Vi erano, per questo, a Mosca appositi stabilimenti, dove esse venivano ricoverate.
    Mentre il mio compagno terminava di raccontarmi queste cose, gli zingari rientravano e riprendevano posto sul palcoscenico in fondo alla sala. Erano una ventina fra uomini e donne, di tutte le età. Il più vecchio sembrava essere il loro capo. Vestivano i loro pittoreschi costumi nazionali; le donne con un lungo scialle che ricopriva loro le spalle scendendo lungo i fianchi. Eran tutti di carnagione molto scura, tranne una ragazza con gli occhi chiari, che dicevano fosse figlia di un generale zarista.
    Sul palcoscenico si disposero a semicerchio, le donne sedute, gli uomini in piedi dietro di loro; poi, ad un cenno del vecchio, cominciarono a cantare in coro.
    Ad un tratto una delle giovani si levò di scatto e con un lieve passo di danza si mise a girare in tondo, suonando un tamburello con la mano destra e piegando in graziose movenze, al ritmo del canto e dei suoni, il corpo alto, snello, flessuoso. Gli altri continuavano a cantare scandendo il ritmo della danza col battere delle palme delle mani, come per eccitare la giovane danzatrice. Di tanto in tanto ella si arrestava e si metteva a scuotere le spalle ed il petto, cosi rapidamente da sembrare che tremasse. Si faceva allora più forte e concitato il batter di mani del coro.
    Cessata la danza ci alzammo per uscire. Era già tardi.
    Avviandoci alla porta Leteisen domandò: E che farà nella mattinata ? Vuole che la accompagni in un museo ? ». « No », risposi, «di musei in Italia ne abbiamo tanti. Qui in Russia mi interessano più le cose vive: Andiamo piuttosto a visitare una di quelle case di lavoro di cui ha parlato ».
    Leteisen mi guardò un po' sorpreso. «Le interessa tanto questo argomento ?, mi domandò ». « Perchè no ? » risposi.
    « Bene », disse Leteisen. « Domani alle dieci verrò a prenderla al Grand Hotel ». E ci separammo.

    * * *


    Fuori faceva freddo. Si era in pieno inverno. Il termometro sulla porta segnava venticinque gradi sotto zero. Il gelo aveva dipinto su vetri dell'albergo fantastici, meravigliosi arabeschi, quali solo a Mosca ne ho visti. La grande piazza Sverdlov era tutta ricoperta di neve. A destra, nel fondo, il teatro dell'Opera era ancora illuminato, e potevasi scorgere chiaramente la quadriga che sovrasta la facciata. La fontana del Vitali era tutta gelata e quasi scompariva sotto la neve. Ma la nota più pittoresca era data dai grandi fuochi accesi qua e là per liquefare la neve sulle rotaie del tram.Mosca d'inverno è veramente bella.
    Rialzai il bavero del cappotto, ma il freddo era così pungente che mi costrinse ad abbassare sulle orecchie il risvolto di pelliccia del berretto di Alaska, ricordo della spedizione del Norge. Mi inoltrai nella piazza per accostarmi ad uno dei fuochi. Il contrasto fra la bella fiamma rossa ed il biancore della neve che ricopriva la piazza come una coltre, era impressionante. L'attrazione era irresistibile. Ne ero come affascinato.Quattro anni più tardi, al tempo del terribile processo in cui fu implicato anche il dottor Levin, uno dei medici che mi curò all'ospedale del Kremlino, appresi che Massimo Gorki, di cui il Levin era il medico, amava come me Io spettacolo di quei fuochi accesi nel mezzo della neve, e restava a lungo a contemplarli, noncurante del mal di petto di cui soffriva.

    * * *


    La mattina dopo, puntualmente, Leteisen venne a prendermi. Una corsa di pochi minuti e ci arrestammo davanti ad un grande edificio dall'apparenza modesta. « Occupano tutta questa casa», disse il mio compagno.
    Bussammo. Una donnetta ci aprì, lasciandoci entrare. L'interno era di aspetto piuttosto povero. Attraverso una porta, a destra, intravidi alcune donne curve davanti a telai. Sulla parete una tabella indicava la ripartizione dei locali: al primo piano i laboratori, al secondo i dormitori, al terzo le cucine e le mense.
    Ci venne incontro il direttore, un giovane di aspetto simpatico, vestito assai modestamente. Poi che Leteisen ebbe spiegato chi ero e lo scopo della visita, egli ci accompagnò nel suo ufficio, ed invitatici a sedere si disse pronto a dare tutte le informazioni che desideravo.
    « Di istituti come questo ne abbiamo a Mosca una settantina, con circa settemila donne. Spesso vengono a noi spontaneamente, convinte dalle compagne che le hanno precedute. Ma durante la notte una commissione va in giro per le strade per avvicinarle e persuaderle a venire a lavorare. Prima della rivoluzione avevamo a Mosca trentamila di queste disgraziate; oggi son ridotte a quattro o cinquecento ».
    « Le considerate come recluse ? », domandai.
    « No, sono tenute nella massima libertà. Lavorano sei ore al giorno ed hanno un giorno di riposo ogni cinque. La sera possono uscire. Guadagnano 125 rubli al mese, e ne versano a noi per il mantenimento soltanto 25. Il resto è per loro; possono farne quello che vogliono. Dopo un anno, se hanno tenuto buona condotta, vengono inviate a lavorare in una fabbrica».
    « Capita mai che qualcuna torni alla vita di prima ?»
    « No, mai. Del resto, hanno tutti i vantaggi a stare qui a lavorare. Se non lavorassero, dovrebbero pagare molto di più per l'alloggio e per comprare le cose essenziali per vivere ».
    Chiesi delle loro condizioni di salute. « Le curiamo prima di ammetterle. L'assistenza medica è assai rigorosa. Alcune di esse si maritano anche ed hanno figlioli».
    Entriamo a visitare uno dei laboratori. Una lunga fila di telai a cui lavorano a fare calze una cinquantina di donne. Esprimo il desiderio di parlare con qualcuna di esse. Vicino alla porta è una ragazza bruna, dalle fattezze un pò rozze, una espressione di sempliciona nel volto. La interrogo. A tredici anni, rimasta senza genitori, aveva dovuto mendicare. Poi si era data alla mala vita. Qui è contenta. Le piace di starci, e non ha alcun desiderio di andare a lavorare in fabbrica.
    Passo ad interrogare una ragazza bionda, delicata, giovanissima, molto seria in volto, quasi schiva di parlare. Ha diciotto anni. La madre era una guardiana. Essa l'abbandonò. Ora è felicissima di stare qui.
    Ancora un'altra. Sui venticinque anni, fiorente, dal volto roseo, piena di vita, allegra. Si è maritata da poco; sta per diventare madre.
    Passiamo ad un altro laboratorio. « Ecco un tipo interessante », dice il direttore, indicandomi una donna di mezza età, con una faccia grossolana e rossastra, lineamenti duri.
    Parla. Ha una voce un po' roca. Dice che per diciotto anni ha fatto quella vita, ed era un'ubbriacona. Anche ora beve, ma poco. E contenta di lavorare.
    Oso fare una domanda: « Quando guadagnava allora ? Più o meno di adesso ?» Si mette a ridere. Interloquiscono le compagne, ridendo anch'esse. « Cinquanta copeki, qualche volta un rublo; spesso soltanto percosse».
    Ringrazio ed usciamo. Nel vestibolo troviamo una ragazza bruna, belloccia, dell'età, forse, di venti anni. Essa si rivolge piangendo al direttore. Domando la ragione. « E' andata a trovare il suo amico, ed è rimasta assente per tre giorni. Secondo i regolamenti non può più essere riammessa».
    La ragazza è disperata. Fra le lacrime spiega: « Ma come potevo fare ? Egli doveva partire e non ho potuto lasciarlo ». Mosso a compassione, intervengo presso il direttore pregandolo di essere indulgente per questa volta. Il direttore, da principio inflessibile, alla fine cede alle preghiere. Ma la ragazza non crede al perdono e continua a piangere. Poi, quando vede che il direttore scrive su un foglio l'autorizzazione a rientrare, si acquieta.
    Ora appare tutta felice nel volto.

    * * *


    Ridotto al minimo il numero di queste donne girovaghe, si trovava in Russia ridotta anche la criminalità che fiorisce attorno ad esse; e penso che soprattutto questa sia la ragione per cui a Mosca, a Leningrado, non esistevano quartieri dove fossero concentrati i bassifondi sociali, come ve n'è a Parigi, a Londra, a Berlino, a New York, a Roma. A Mosca non esistevano case malfamate, nè strade o locali pubblici dove una persona dabbene si dovesse vergognare di entrare. Si poteva girare di giorno e di notte per qualsiasi strada senza imbattersi in spettacoli disgustosi. Una fanciulla poteva liberamente andare in giro dovunque, sicura di non essere molestata da alcuno, o di fare incontri che potessero offendere la sua modestia.

    * * *


    Una grande decenza era nella fiumana di popolo che continuamente si riversava nelle strade di Mosca. E tuttavia, nei primi anni della vita sovietica, vi erano state strane aberrazioni.
    Mi raccontavano gli amici russi di aver visto una volta un corteo di donne completamente nude, che portavano in giro dei cartelli dov'era scritto: «Abbasso il pudore ». « Il pudore è un pregiudizio borghese ».
    Si era perfino costituita una «lega contro il pudore », i cui soci si abbandonarono alle manifestazioni più grottesche fino a che, un bel giorno, il Governo Sovietico, perduta la pazienza, intervenne per reprimere energicamente quelle stupide aberrazioni.Ciò non ostante, nell'estate del 1931 i giovani sovietici, sulle spiagge dei mari e dei fiumi, si bagnavano ancora del tutto nudi.
    II primo di questi spettacoli mi fu offerto ad Arcangelo, nel mese di luglio di quell'anno. Sulla spiaggia, a pochi metri di distanza da me, vidi una donna grassa e brutta togliersi tranquillamente i panni d'addosso, e poi, completamente nuda, tuffarsi nell'acqua della Dvina.L'estate successiva a Mosca, ancora una volta fui colpito dalla disinvoltura con cui centinaia di uomini e donne, pur in separati recinti, si bagnavano nudi nelle acque della Moskova. Quell'esposizione di carni era certamente fatta senza alcuna apparente sfacciataggine, e forse era causata da mancanza di indumenti adatti più che voluta espressamente. Ma non per questo era meno ripugnante. Lo spettacolo mi ricordava molto da vicino quello dei bagni giapponesi dove avevo visto, in un'indecente promiscuità, uomini, donne, bambini, vecchi, tutti completamente nudi.
    Nel 1933 le ultime vestigia di nudità scomparvero anche dalle rive della Moskova . che cosa avesse provocato il cambiamento non saprei dire; ma certo dovette esservi un ordine dall'alto. Comunque, da quell'anno in poi, in fatto di castigatezza di costumi, le città russe offrirono uno spettacolo piuttosto raro nel mondo.
    Le donne, in istrada, eran tutte vestite decentemente, senza scollacciature, senza esibizione di gambe e braccia nude. Esse eran troppo occupate nella grande opera di costruzione sovietica per tollerare che il loro prestigio di fronte agli uomini venisse abbassato da qualsiasi manifestazione di civetteria o di inverecondia.
    Nell'atmosfera ardente di lavoro, di iniziative, di nuove imprese creata dall'attuazione dei piani quinquennali, non vi era posto per depravazioni del gusto e degenerazioni intellettuali del genere di quelle che avevano inspirato le prime manifestazioni contro il pudore. I giovani sovietici, maschi e femmine, dovevano dedicare tutte le loro forze alla lotta per la industrializzazione. Non era permessa nè tollerata alcuna indulgenza verso il vizio. Giornali pornografici, libri osceni, film indecenti, spettacoli teatrali scurrili eran tutte cose sconosciute in Russia, al tempo in cui vi sono stato io.
    I giovani russi nelle strade, nei parchi, nei teatri, nei cinematografi, nei caffè di Mosca si comportavano con la più grande decenza e la maggiore serietà. I giornalisti che con una visita di due o tre settimane, credevano di aver scoperto l'Unione Sovietica , raramente si accorgevano di questo lato pur così caratteristico della nuova Russia, ed ancora più raramente lo mettevano in rilievo. Ma un osservatore acuto e profondo quale André Gide, che venne a Mosca nel 1936, tornato in patria, narrando la sua visita al Parco di Cultura e Riposo, scriveva queste parole:
    « Non appena varcata la porta ci si sente disorientati. In questa folla di giovani, uomini e donne, dovunque una grande serietà, un'assoluta decenza: giammai il minimo accenno di scherzo stupido o volgare, di facezie oscene, di parole o di atti licenziosi, nemmeno di flirt. Si respira dovunque una aria di fervore gioioso ».


    Bies-prisornik

    IN un pomeriggio d'estate, qualche mese dopo che mi ero stabilito a Mosca, mentre passavo davanti all'albergo Metropole, la mia attenzione fu richiamata da un ragazzo, tutto lacero e sporco, che se ne stava buttato a terra in un cantuccio. Mi fermai a guardarlo. Poteva avere sedici o diciassette anni. Gli occhi aveva arrossati. Sembrava stanchissimo, come chi abbia compiuto lungo cammino.
    Servendomi del pochissimo russo che allora conoscevo, cercai di interrogarlo. Riuscii a capire che giungeva a piedi da Leningrado e che non aveva casa, nè parenti, nè amici. Solo. Un ragazzo senza tetto, un bies-prisornik.
    Mi sembrava cosa indegna proseguire tranquillamente per la mia strada senza aver fatto nulla per quel povero fanciullo che non aveva dove ricoverarsi, mentre io, in una città dove vi era tanto poco spazio per alloggiare, disponevo da solo di un appartamento di quattro camere. Decisi di condurlo con me. Avevo delle scarpe da dargli, ed anche qualche indumento. L'avrei fatto ben ripulire e rifocillare, finchè
    Non fossi riuscito a trovargli un'occupazione. Non mi sembrava difficile farlo assumere al servizio della Dirigiablestroi.

    * * *


    Mentre cercavo di far intendere al fanciullo il mio proposito, si era formato attorno a noi un piccolo capannello di persone, che stavano incuriosite ad ascoltare. Sentii che dicevano fra loro qualche cosa che non comprendevo. Ad un tratto una giovane donna, che faceva parte del gruppo, mi si avvicinò a dirmi: « These men ask me to tell you that the boy is not worthy of your attention ». (Questi uomini desiderano che vi dica che il ragazzo non merita la vostra attenzione).
    La giovane, una ragazza alta, bionda, dal volto rotondo, usciva proprio allora da una scuola serale di lingue. Mi spiegò che non vi era nulla di buono da aspettarsi dal fanciullo. Sarebbe stato assai pericoloso condurlo con me a casa.
    Tale fu il mio primo incontro con un bies-prisornik in Russia.

    * * *


    Quanti erano questi disgraziati ? Un numero enorme. Centinaia di migliaia. Una terribile piaga sociale, frutto dell'intervento straniero e delle invasioni di Kolciatk, Denikin e Wrangel, ma più ancora della carestia del 1921, la più tremenda che la storia dell'umanità ricordi.In quella carestia le popolazioni di intere città e villaggi perirono. La gente si ridusse a cibarsi di fieno, e perfino a scavare nelle tombe per alimentarsi della carne dei recenti cadaveri. Morirono milioni di persone. Quello spaventoso flagello ebbe un terribile strascico, che durava ancora dopo undici anni: i bies-prisornik.

    * * *


    La loro storia mi era stata rivelata in modo commovente da uno dei più bei film prodotti in Russia in quegli anni, Il foglio della vita, che avevo visto a Mosca nel 1931. Nella prima parte il film mostrava questi giovanissimi vagabondi in azione, nella loro vita randagia di ladruncoli dediti ad ogni sorta di vizi. « Vodka, tabacco e ragazze»: così, cinicamente, uno di essi riassumeva le proprie aspirazioni. Poi era intervenuta la polizia a dar loro la caccia, ed infine l'opera di redenzione. Un'opera paziente, umana, commovente di persuasione che aveva a poco a poco mutato l'animo di quei piccoli, terribili delinquenti.
    Liberati dal vizio, molti di quei disgraziati ragazzi si eran trasformati in buoni, spesso esemplari operai della grandiosa impresa di costruzione sovietica.

    * * *


    Un esempio vivente dei risultati ottenuti con questa rieducazione dei bies-prisornik l'avevo davanti ai miei occhi, senza saperlo, alla Dirigiablestroi, fra i miei ingegneri. L'appresi più tardi. Si chiamava Biliukof:
    un giovane bruno, piccolo di statura ma robusto, intelligentissimo. Uno dei migliori calcolatori dell'ufficio progetti, anzi il migliore. Faceva parte dei komsomol, la gioventù comunista. Nelle riunioni che si tenevano nel mio ufficio si era già fatto notare da me per il modo reciso, secco, aspro con cui esprimeva la sua opinione. Credo che talvolta formulasse anche critiche che mi toccavano da vicino, ma non gli volevo male per questo. Lo stimavo appunto per la sua franchezza e per la sua essenziale onestà. Molte volte lo invitai a casa insieme con un altro giovane ingegnere, suo inseparabile amico, Fiodorof, che aveva però un carattere del tutto opposto: timido e gentile.

    * * *


    La rieducazione dei bies-prisornik non è che un caso particolare dell'opera di rieducazione che si faceva in Russia dei criminali comuni.
    Alla base del sistema repressivo sovietico era la concezione che essi non fossero dei reietti da punire, ma piuttosto dei disgraziati che la società aveva il dovere di rieducare al più presto possibile, ricuperandoli come membri utili della comunità, e perciò venivano trattati con umanità ed aiutati in tutti i modi a riabilitarsi. Il massimo della prigionia era di dieci anni e mentre essa durava si cercava di interessare i condannati ai problemi della vita sovietica mediante il cinema ed il teatro. Si giungeva al punto da conceder loro, come a tutti gli altri operai, un giorno di vacanza ogni settimana. Venivano impiegati a lavorare in grandi imprese, come, ad esempio, la costruzione del canale da Leningrado al Mar Bianco e quello da Mosca al Volga, sotto la direzione della G.P.U., la temutissima organizzazione di polizia politica, che in Russia aveva compiti così vasti e variati. Molti di quei condannati, liberati alla fine dai lavori e decorati per le benemerenze acquistate, finirono col conseguire posizioni importanti nella vita sovietica, fornendo con il loro esempio la prova che l'assetto sociale, allo stesso modo come può formare dei delinquenti, può anche redimerli.
    Una specie di mostra, direi così, dei brillanti risultati ottenuti nella rieducazione dei criminali era offerta da Bòlcevo, una località vicino a Mosca, sorta per iniziativa di Massimo Gorki. Bòlcevo era una piccola città fondata da ex criminali, ladri ed assassini. Si dirigevano da loro stessi. Avevano delle officine modello, un circolo, una biblioteca. Si istruivano, facevano dello sport. Nel loro aspetto esteriore, nel linguaggio, nei modi, nella mentalità nessuna traccia della burrascosa vita passata.

    Nicevò

    NICEVÒ è una parola russa che ha molti significati. Domandate ad un amico come sta, ed egli vi risponde: « Nicevò!» (non c'è male). Gli chiedete che cosa ha fatto, e vi risponde: « Nicevò»: non ha fatto nulla. Infine vi è un nicevò detto con tono particolare di voce, quasi un po' cantando, accompagnato talvolta da significative contrazioni del volto o da un lieve scuotere del capo, che significa press'a poco: «Non importa ». Ma l'equivalente esatto si trova nell'espressione napoletana: « Non te ne incaricare», cioè non darvi importanza, passaci sopra, non vale la pena di pensarci.
    Tutto il temperamento russo è nel nicevò adoperato secondo l'ultimo dei tre significati, un temperamento che prende filosoficamente il mondo come viene. Esso è agli antipodi di quello tedesco, che prende tutto sul serio; e, forse, questa è la ragione per cui fra i tedeschi che dimoravano a Mosca ed i russi non correva buon sangue,mentre invece vi era gran simpatia di questi verso gli italiani. Ma bisogna dire che di tutti gli stranieri che si trovavano in Russia i tedeschi erano, senza dubbio, i più brontoloni ed intolleranti.
    La disposizione a prendere le cose della vita così come vengono, senza un'eccessiva reazione, è una virtù che i russi hanno in comune con i napoletani; ma comuni a questi due popoli sono anche taluni difetti, ad esempio, la mancanza di precisione e di puntualità, che, a dir il vero, però, nei secondi non è così esagerata come nei primi.La concezione che i russi hanno del tempo è assai larga. Se invitate un russo a pranzo per mezzogiorno, è probabile che giunga alle due. Se vi promette di fare una data cosa « siciàs », cioè subito, potete ragionevolmente aspettarvi che non la farà prima di domani o dopo domani ; ma se vi dice « domani» siate sicuro che vi toccherà aspettare alcuni giorni. Non dico, poi, quanti mesi passeranno prima che compia una cosa che abbia promesso di fare entro una settimana !La spiegazione che mi son data di questa mancanza di puntualità è che il temperamento artistico dei russi mal si adatta alle pedanterie di una precisione e di una puntualità di tipo tedesco.La stessa pittoresca imprecisione si nota nel modo di parlare. Infatti per dar calore di veridicità a ciò che dice, il russo sente il bisogno di aggiungere: « cestniislova», parola d'onore. Se non rafforza le sue affermazioni con tale intercalare, avete tutto il diritto di dubitare dell'esattezza di ciò che vi dice.Quando si pensi che da un popolo siffatto, noncurante della puntualità non inclinato alla precisione, i bolscevichi hanno ottenuto il più grande sforzo di costruzione che la storia moderna ricordi, ci si rende conto delle enormi difficoltà che han dovuto superare e della grandiosità del successo riportato.

    * * *


    Queste qualità del temperamento russo pure, nonostante tutto, cosi simpatico ed attraente — valgono, forse, a spiegare lo spirito di tolleranza di cui tanto spesso quel popolo dà prova, e di cui si hanno le manifestazioni più inaspettate.
    Una volta mia figlia, trovandosi con me a Mosca, si fece portare da un operaio italiano, che si era recato a Roma a passarvi le vacanze, dei dischi da grammofono. Fra gli altri capitò anche quello di « Giovinezza », forse a caso, forse perchè il ritmo di quella vecchia canzone goliardica piaceva a mia figlia. E, a dir il vero, piaceva anche a me, nonostante le melense parole che vi erano state aggiunte per farne un inno fascista. E piacque, come ora si vedrà, anche ai russi. Al confine, alla stazione di Niegorolje, i doganieri sovietici, trovati i dischi nel bagaglio del viaggiatore italiano, ne vollero, come era prescritto, controllare il contenuto facendoli suonare su un grammofono. Quando fu la volta di « Giovinezza» l'operaio, seduto in un angolo, stava con l'animo sospeso ad attendere che cosa avrebbero (letto i doganieri, e già si immaginava, il poveretto, di venir arrestato come un pericoloso propagandista fascista. Ma non avvenne nulla di tutto questo. Agli agenti sovietici la canzone piacque, e vollero risentirla. Poi presero a cantarla in coro.
    E piacque anche ai miei amici di Mosca, che, comunisti o non comunisti, qualche volta prendevano in prestito quel disco, insieme ad altri di canzoni napoletane, per farlo sentire agli amici, e che, appena giungevano in casa mia a passarvi la serata, chiedevano a gran voce che venisse messo sul grammofono « Giovinezza», senza darsi alcun pensiero della G.P.U., la famosa polizia politica che, pure, era là a due passi di distanza, proprio di fronte alla mia abitazione. Nella Germania nazista un fatto analogo avrebbe dato luogo ad una tragedia. In Russia la gente ci si divertiva.
    Ma l'esempio più clamoroso di tolleranza russa era, in quel tempo, la libertà che si concedeva a Pavlow di dire tutto il male che gli piacesse del regime sovietico, senza che ad alcuno venisse in mente di dargli per questo fastidio.
    A Pavlow, fisiologo di fama mondiale, il Governo Sovietico aveva dato tutti i mezzi da lui richiesti per condurre le sue esperienze di biologia. Fra l'altro aveva fatto costruire secondo le sue indicazioni un grande istituto nei dintorni di Leningrado, l'Istituto di genetica psicologica.
    Pavlow, ad ottanta anni, era rimasto attaccato alle tradizioni del tempo zarista. Andava regolarmente in chiesa, e non aveva voluto saperne di chiamare al modo nuovo i giorni della settimana. Ma questo era nulla: il peggio era che si permetteva di insolentire pubblicamente contro il regime sovietico. Alla presenza stessa dei suoi assistenti comunisti derideva il materialismo dialettico e affermava, senza che alcuno lo contraddicesse, che fino a quel momento il nuovo regime non aveva conseguito alcun risultato degno di menzione.Che importanza potevano mai avere gli sfoghi antibolscevichi di Pavlow, quando egli col suo lavoro continuava a far crescere all'estero il prestigio dell'Unione Sovietica ?
    Di questo spirito di tolleranza si avevano in Russia questa e cento altre manifestazioni. Io stesso ne ho ricordate talune nel corso di questo libro. Il contrasto con lo spirito settario, ancora oggi così vivo perfino in uno dei paesi più liberali e progrediti del mondo, è sconcertante. E' proprio di questi giorni l'assurdo divieto fatto dalla associazione Daughters of American Revolution ad Hazel Scott, una pianista famosa negli Stati Uniti, di adoperare per un concerto la « Constitution Hall » di Washington.
    Ragione del diniego: Hazel Scott é una negra !
     
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