Quello che ho visto nella Russia sovietica

Umberto Nobile - terza parte

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  1. JDietzgen
     
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    Segretari ed interpreti


    In Russia ogni capo aveva una segretaria o un segretario. Era, dunque, giusto l'avessi anch'io. Però, a differenza di ciò che sarebbe avvenuto altrove, la segretaria non me la sceglievo da me. Ci pensava la direzione della Flotta Aerea Civile a trovarmene una. A dirla chiaramente, la mia segretaria, o segretario che fosse, non era una persona di fiducia mia, ma delle autorità sovietiche politiche, della G.P.U. forse, cui credo avesse l'obbligo di riferire sulla mia attività e sul mio modo di pensare. Devo dire che, benchè avessi il sospetto di ciò, anzi la certezza, non me ne meravigliavo, e tanto meno me ne dolevo. Trovavo assolutamente naturale che, avendo affidato a me un incarico importante in una posizione esecutiva che mi metteva alla testa di un'organizzazione sovietica tecnica (posizione che, ritengo, non era stata mai data ad altri specialisti stranieri prima di me), le autorità sovietiche volessero in qualche modo assicurarsi che mi comportassi nei loro riguardi con quella lealtà che era doverosa. Non bisogna dimenticare che provenivo da un paese fascista, e che molti, non conoscendomi intimamente, potevano anche dubitare dei miei sentimenti di simpatia verso il paese che mi ospitava.
    Sta però il fatto che bastava il contatto con me di qualche mese perchè un nuovo segretario mi si affezionasse e diventasse devoto. La mia condotta era così aperta e la mia simpatia verso la Russia così evidente, che ben presto essi si accorgevano non esservi nulla di spiacevole da riferire sul mio conto, e mi diventavano amici.
    Cambiai segretario tre volte.
    La mia prima segretaria fu Maria Andréievna, una piccola signora anziana dai capelli grigi, che da giovane aveva fatto l'attrice con Stanislavski. Le piaceva ricordare con me quei suoi bei tempi. Mi diceva che aveva appreso a parlare l'italiano per meglio recitare talune parti affidatele. Raccontava che Stanislavski era molto severo con i suoi attori. Esigeva che recitassero alla perfezione. Era così meticoloso, che una volta, mentre la sua compagnia si trovava a Berlino, dovendo affidare a Maria Andreievna una parte di ragazzo, l'obbligò a vestirsi da tale ed a girare per Berlino durante un mese intero, acciòcchè acquistasse meglio i modi del personaggio che doveva rappresentare.
    Maria Andreievna era una cattolica fervente, che frequentava regolarmente la chiesa. Fu proprio essa ad indicarmi, come ho narrato altrove, dove si trovassero le chiese cattoliche a Mosca. Restò con me circa un anno. Venne licenziata nell'estate del 1933.
    La nuova segretaria entrò in funzione, quando il mio ufficio si trovava al secondo piano della galleria della Petrovka: una ragazza dai capelli rossicci, graziosa, svelta, intelligentissima. Si chiamava Mèla. Parlava il francese perfettamente, ma sapeva anche d'inglese, essendo stata per qualche mese in America con una missione sovietica.
    Mèla mostrò subito di essere una segretaria di primo ordine. Quando mi faceva da interprete nei colloqui con i capi della Dirigiablestroi o con gli ingegneri sovietici miei dipendenti, era di una sveltezza ed una rapidità sorprendente. Come già ho detto, essa traduceva fedelmente, periodo per periodo, senza che per questo fosse necessario fare una sosta. Restò con me circa due anni. Alla fine di questo periodo mi domandò se acconsentivo a lasciarla libera per recarsi a lavorare presso l'Ambasciata degli Stati Uniti, di recente istituita a Mosca. Dagli americani essa avrebbe ricevuto un salario mensile di settantacinque dollari, ed in quel tempo poter disporre di valuta straniera era un gran vantaggio; potendosi con essa acquistare nei magazzini del Torgsin molte cose che non si trovavano nei magazzini ordinari.
    Andata via Mèla, restai per qualche tempo senza segretario. Potendo ora esprimermi alla men peggio in lingua russa, un segretario non era più così indispensabile come nei primi tempi, ma qualcuno che traducesse i miei rapporti era pur necessario, e perciò alla fine chiesi che Mèla fosse sostituita. Questa volta fu un uomo : Frcek. Matunin, l'ingegnere comunista mio samistitiel, venne a presentarmelo, dicendomi che, dopo avergli parlato, gli riferissi se mi convenisse o pur no. Era un giovane cecoslovacco, che parlava correntemente il francese, piccolo, biondo, con gli occhi azzurri un po' sporgenti. La prima impressione fu sfavorevole, perchè mentre parlava non mi guardava in faccia. Non mi trattenni dal dirlo a Matunin, che non replicò; ma qualche giorno dopo mi pregò di ricevere nuovamente il giovane cecoslovacco. Frcek tornò, e questa volta mentre mi parlava stette a guardarmi ben fisso in volto, sicchè non ebbi più ragione di insistere nel rifiuto. Fu assunto come mio segretario.
    Le prime conversazioni che ebbe con me furono, come mi aspettavo, di carattere, dirò così, indagatore. Cominciò col raccontarmi di una sua zia, proprietaria una volta di terre in Crimea, che naturalmente aveva perdute con la rivoluzione. Da questa passò ad altre cose e finalmente finì coll'insinuare che in Russia non tutto andava bene. Fu l'unico tentativo fatto dal buon Frcek nella parte di agente provocatore. Era molto intelligente. Si accorse subito che in Russia stavo per lavorare, e non già per impicciarmi delle cose sovietiche e criticarle, e che, comunque, avevo troppa simpatia per quel paese, perché non vedessi il bene assai più facilmente che il male. Presto Frcek mi divenne devotissimo; credo anche che mi si affezionasse, cosi come io mi affezionai a lui. Era un lavoratore coscienzioso ed infaticabile. Imparò in poco tempo a parlare e leggere l'italiano tanto bene da poter tradurre in russo un mio libro. Quando lasciai Mosca, egli era alla stazione insieme con una sua sorella a salutarmi. Conservo di lui il ricordo più grato.

    * * *


    Di segretari ne ebbi tre soltanto, ma di interpreti, uomini e donne, a bizzeffe, specialmente nei primi tempi.
    La prima interprete, quella che mi accompagnò fin dal 1931 nei miei giri a Mosca e Leningrado, fu Ester Josefovna, una ebrea, figlia di ricchi mercanti siberiani: una donna di mezza età, assai piccola di statura, con un gran naso aquilino e due occhietti neri vivaci, che facevano agli angoli mille piccole grinze. Parlava l'italiano a questo modo: « Lei, vedete, fa freddo e tutti i russi, anche i poveri, portano il cappotto e voi no. Questo è proprio un guaio. Per piacere, Lei dovete scrivere a vostra moglie che sto molto male a casa vostra, per via del mangiare e del cappotto e del cappello ». Ed ancora:
    «Quando andrete in Italia, dite alla sua signora che io son tanto amica degli italiani; che se lei verrà qui, si troverà benissimo. Vi sono tanti curòs (case dì cura), specialmente nel Caucaso. In un anno certamente guarirà !».
    Come si vede, Ester Josefovna aveva ricevuto l'incarico di occuparsi del mio benessere materiale, e certo essa faceva del suo meglio per rendermi facile e confortevole il soggiorno nell' U.R.S.S. Fu essa a curare l'arredamento del mio appartamento alla Mjasnitzkaja: mobili antichi, tappeti orientali, stoviglie fini, e tutto ciò che si poteva avere di meglio a Mosca.
    Aveva una particolarità: quella di cambiare continuamente alloggio. Da principio, nel 1931, quando aveva con sè una sua figliuoletta di tredici anni, abitava una camera tutta per sè, per la quale pagava soltanto tre rubli al mese. Ma, essendo rimasta sola, dopo che la figlia era partita per raggiungere alcuni parenti in Argentina, Ester Josefovna passò ad abitare con una coppia di amici, marito e moglie, pagando per la metà di una camera quaranta rubli. Non restò a lungo in quell'alloggio, e se ne andò ad abitare insieme con una sua amica, alla quale pagava, per la metà di una camera, venti rubli al mese. Quando vi si fu installata mi disse: « Ora posso anche invitarvi a pranzo. Cucinerò i maccheroni ed anche un pollo ». Le risposi che era meglio lasciare il pollo vivo e fargli mangiare i maccheroni insieme con noi ; ma non mi diede retta.

    * * *


    In Russia le lingue che più si studiavano erano il tedesco e l'inglese. Il francese, tanto in voga al tempo degli zar, specialmente nell'aristocrazia, era ormai quasi caduto in disuso. Tuttavia fra i miei interpreti ebbi due ragazze che lo parlavano correttamente. L'una era Margherita Miragova, una bella armena dagli occhi neri ed i capelli ricciuti, di carattere chiuso, riservatissimo. Negli ultimi anni si ammalò di petto, e dovette essere ricoverata in un sanatorio. L'altra fu Nina, una ragazza bionda di Mosca, che dopo pochi mesi si licenziò per andare a frequentare una scuola di teatro. Riuscì così bene che l'anno successivo già recitava con una compagnia di giovani russi in un teatro di Mosca.
    Ma il più caratteristico dei miei interpreti fu Vankowski, un bel signore dalla figura imponente, la barba a pizzo. Parlava l'italiano.
    « Dove l'avete imparato ?» domandai.
    « In Italia », rispose. «Vi ho viaggiato per circa due anni. Sono stato a Venezia, a Firenze, a Roma, a Napoli ».
    « Per affari ? ».
    « No, per piacere ».
    « Eravate, dunque, ricco ? ».
    « Sì, ero ricco ».
    A questo punto della conversazione non seppi trattenermi dal fare una do-manda indiscreta :
    « Avete, dunque, perduta la vostra ricchezza con la rivoluzione. Ve ne rammaricate ? ».
    Fino a quel momento il volto di Vankowski era stato serio e grave. Ma a quella domanda inaspettata si illuminò di un largo, raggiante sorriso.
    « No, disse, non ho perduto nulla. I miei amici sì, perdettero tutto e se ne dolsero. Ma io, fortunatamente, quando scoppiò la rivoluzione, mi ero già mangiato i miei averi. Non avevo più nulla da perdere ».
    Questo Vankowski era un tipo veramente originale e simpatico. Lo invitai una sera a casa insieme ad una quarantina di altre persone che lavoravano con me, in occasione del compleanno di mia figlia, Venne, indossando un abito nero a coda, residuo dei tempi in cui aveva dissipato così felicemente il suo patrimonio. Il contrasto con gli abiti dimessi di tutti gli altri, me compreso, era stridente. Ma egli non se ne mostrò per niente imbarazzato, nè il suo abito fu oggetto di motteggi da parte dei giovani ingegneri intervenuti alla piccola festa familiare, come certamente sarebbe avvenuto da noi.


    Un processo a Mosca

    No. Non si tratta di uno di quei terribili processi davanti al Tribunale Supremo Sovietico, con conseguenze da far accapponare la pelle. Questo di cui mi accingo a parlare fu un processo innanzi a un tribunale ordinario, ed il processato fui proprio io. Me la cavai, si vede, a buon mercato, se posso oggi parlarne. Ecco come andarono le cose.
    Abitavo nel centro di Mosca in un angolo della gran piazza della Lubianca, all'estremità della Miasnitzkaia, una lunga tortuosa strada fra le più affollate di Mosca, che, più tardi, dopo l'uccisione di Kirov, fu chiamata Ulitza Kírova.
    Per quella strada passava, allora, il tram che poi, qualche anno dopo, venne soppresso, quando al ciottolato fu sostituito l'asfalto. E qui dirò tra parentesi che l'asfaltatura dell'intera strada, lunga più di due chilometri, fu compiuta in soli tre o quattro giorni : cose che avvenivano in Russia, dove si stava dei mesi, degli anni talvolta, prima di decidersi a fare un lavoro, e poi, all'improvviso, lo si eseguiva con una rapidità sbalorditiva.
    Dunque, vi era, allora, il tram nella Miasnitzkaia, ed una fermata si trovava proprio davanti al cancello di casa mia, sicchè spesso il passaggio era ingombrato da gruppi di persone che stavano ad aspettare per montarvi.
    Un giorno uscivo dal cortile, conducendo una « Fiat» che avevo portata dall'Italia con l'idea di guadagnar tempo nei viaggi che frequentemente dovevo fare per recarmi da Mosca a Dolgabrudnaia, che era il posto dove si costruivano le nostre officine. Idea sbagliata perchè quella benedetta vettura mi causò una serie innumerevole di noie e di piccole peripezie, che mi fecero perdere una quantità di tempo, e che sarebbe spassoso raccontare.
    Al mio lato, nella vettura, sedeva uno dei miei collaboratori italiani: Nicola de Martino, che poi fece da testimone al processo.
    Uscivo adagio dal cortile e mi ero quasi fermato poco oltre il cancello, quando, facendosi strada fra le persone che stavano lì ferme in attesa del tram, passò correndo un taxi. L'urto fu inevitabile. La mia vettura, investita sul davanti, ebbe il paraurti tutto contorto. Cosa spiacevole perchè la vettura era nuova, ma non mi parve valesse la pena di perdere tempo a reclamare la riparazione del danno dalla cooperativa cui apparteneva il taxì ; e perciò, senza curarmi di altro, riportai la vettura nel cortile per distaccare il para-urti e riprendere la strada.
    Ma è proprio vero che chi si fa pecora il lupo se lo mangia. Questa volta il lupo si presentò sotto le spoglie del conducente del taxì: un pezzo di giovane, alto, robusto, le spalle tarchiate. Costui, visto che non reclamavo, pensò di reclamar lui. Mi si avvicinò, mentre con De Martino staccavo il para-urti, e mi disse con calma qualche cosa che non capii, perchè allora niente sapevo della lingua russa. Tuttavia non esitai a rispondergli con altrettanta calma, in lingua italiana, che la colpa invece era tutta sua. Avremmo continuato per un pezzo il nostro dialogo, senza che l'uno capisse che cosa diceva l'altro, se, terminato il lavoro, non mi fossi deciso a stringermi nelle spalle e risalire sulla vettura per riprendere la marcia interrotta.
    Ma il mio interlocutore non approvò la mia saggia risoluzione. Seppi, dopo, che protestava per alcuni graffi riportati dal suo taxi nell'urto. Manifestò la sua opposizione, piantandosi con le gambe allargate, davanti alla vettura con l'intenzione evidente di non farmi proseguire. Non gli diedi retta e continuai ad avanzare, facendogli cenno di scostarsi. Si scostò, infatti, ma lo fece solo per andare a chiudere il cancello. Dovette probabilmente pensare « Questo bursgiui sembra deciso a passare sopra il mio corpo, ma sul cancello non passerà di certo ».
    Il gesto dell'ostinato uomo mi fece perdere la calma olimpica che fin allora avevo conservato. Ridiscesi dalla vettura, e senza star lì a pensarci due volte, nè tenendo conto dell'evidente sproporzione fra i miei muscoli e quelli del mio avversario, lo afferrai per le larghe spalle, e con una certa violenza — non posso negarlo — lo spinsi fuori nella strada, riaprendo il cancello. Sorpreso dalla rapidità della mia azione, l'omone non oppose alcuna resistenza, il che mi permise di riprendere il mio posto nella vettura ed andarmene con De Martino per i fatti miei.
    Questo incidente mi era uscito affatto di mente, quando alcuni giorni dopo si presentò nel mio ufficio una guardia con un foglio che mi intimava di presentarmi il tal giorno, alla tal ora, davanti al tal tribunale, in via tal dei tali, per rispondere del reato di maltrattamenti inflitti ad un cittadino sovietico. Era il conducente del taxì che si era querelato. Uomo pacifico, avrebbe potuto, volendo, mettere in moto i suoi pugni, quando io l'avevo afferrato per le spalle, e non so come me la sarei cavata se l'avesse fatto, ma, fortunatamente per me, aveva preferito ricorrere alla legge per punire la mia violenza.
    Andai al tribunale accompagnato da De Martino e da una signorina che parlava l'inglese. Questa doveva fare da interprete.
    Nell'aula non grande, vi erano alcune file di banchi come in una scuola. Nel fondo, alla sinistra di chi entrava, un tavolo con tre sedie.
    Non vi era nessuno, salvo l'uomo che mi aveva fatto citare. Appena mi vide entrare, s'alzò da sedere, e mi venne incontro tutto sorridente a stringermi la mano. Un atto di cavalleria che allora non apprezzai come si meritava. A me parve che costui avesse una bella faccia tosta a venirmi a fare dei complimenti dopo avermi rotto il para-urti e causata per giunta la seccatura di quel processo. Risposi al suo largo e cordiale sorriso con un sorrisetto un po' acidulo. Dopo di che ci mettemmo a sedere tutti e quattro: io, il querelante, il testimone e l'interprete; ed aspettammo che comparissero i giudici.
    Questi comparvero all'ora stabilita: erano tre, un giudice di professione, che presiedeva, e due operai che funzionavano da giudici assistenti. Sentirono il querelante, poi me ed infine il testimone: l'interprete traduceva le nostre dichiarazioni, la mia direttamente, quella di De Martino attraverso la mia traduzione in inglese. Ma, ahimè, ci accorgemmo che per ogni dieci parole da noi pronunziate la signorina ne diceva per lo meno cento. Era evidente che, con l'intenzione di giovare alla mia causa andava colorendo ed abbellendo le nostre deposizioni; ma il risultato fu ben diverso da quello che essa si riprometteva.
    Finiti gli interrogatori, i tre giudici si ritirarono nella camera adiacente. Alcuni minuti dopo rientrarono a leggere la sentenza. Il giudizio fu quanto mai saggio, anzi direi salomonico addirittura. Ambedue avevamo torto, avendo ambedue messo in pericolo l'incolumità pubblica. Conclusione: eravamo condannati io a cento rubli di ammenda, il mio avversario a due mesi di lavori forzati.
    Lavoro forzato significava che il condannato sarebbe stato tenuto a fare un certo ammontare di lavoro il cui salario sarebbe andato a beneficio dell'erario dello Stato. Il giudice presidente, rivolgendosi a me, aggiunse che avevo quaranta giorni per appellarmi, se volevo, contro la sentenza. Al mio avversario il diritto di appello non era concesso, la qual cosa mi sembrò giustissima.
    Lasciai il tribunale piuttosto mortificato. Non già che mi desse gran pena l'idea di dover pagare quell'ammenda di cento rubli, che in verità allora non valevano più di trenta o quaranta lire, ma era questione di giustizia. Ero convinto di aver ragione, e mi meravigliavo che i giudici non se ne fossero accorti anche loro. Colpa della loquacità dell'interprete ? Può darsi.
    Tornato in ufficio dissi alla mia segretaria di prendere nota del termine di tempo per l'appello.
    Quando fummo al quarantesimo giorno essa mi avvertì che il termine stava per scadere.
    Questa volta, francamente, ero deciso a fare a meno di qualsiasi interprete. Pensai che la miglior cosa fosse di scrivere un chiaro e succinto rapporto sull'incidente, corredandolo di un certo numero di schizzi. Poi che l'ebbi preparato, ne feci fare la traduzione in russo. Questa volta non era proprio possibile essere frainteso.
    « Devo andare alla Corte oggi stesso ? ». « Non occorre andare di persona », mi rispose Leteisen, che era in quel tempo il mio sostituto; « basterà mandare questa dichiarazione a mezzo della segretaria ».
    Due ore dopo la segretaria tornò tutta soddisfatta, ad informarmi che la Corte aveva accolto il mio appello ed aveva cancellato la sentenza, assolvendomi.
    Cosi mi fu risparmiata la vergogna di avere la fedina penale macchiata di una condanna riportata nell'Unione Sovietica.
    Morale ?
    Ebbene, una morale, forse, c'è ed è questa: che la giustizia in Russia era molto sbrigativa: niente formalità superflue, niente discussioni prolisse ed oziose, niente perditempi, niente avvocati ed alla fine, a giudicare dal mio caso, sembrava facesse giustizia sul serio.
    Avvocati a Mosca ve ne erano, senza dubbio, ma bisognava andare a consultarli nei loro studi se si aveva bisogno di un parere. Ma, grazie a Dio, non venivano ad ingarbugliare le cause davanti ai giudici.


    Gli scacchi in Russia

    ALL'ETÀ di nove anni già giocavo a scacchi, e questo basta a spiegare la mia passione per il nobile gioco. Fin da allora giungevo, perfino, a trascurare il pranzo per terminare una partita iniziata. Continuai così fino agli anni di liceo e di università; ma più tardi, preso dalle cose della vita, non ebbi più tempo da dedicare agli scacchi, e giocai assai raramente. Ripresi in pieno, con la passione di una volta, molti anni dopo, in Russia.
    Non è che in Russia avessi meno da fare che in Italia e potessi perciò dedicare molte ore di tempo agli scacchi. No, la ragione era un'altra. In Russia si respira, direi, un'atmosfera scacchistica alla quale è difficile sottrarsi. Si gioca a scacchi dovunque, e giocano a scacchi tutti, uomini, donne, vecchi, ragazzi. In un'atmosfera simile era ben difficile che non rispuntasse la vecchia passione, e infatti ripresi a giocare con ardore. Del resto, per chi vive solo, in terra straniera, la compagnia più facile a procurarsi ed anche la più innocua, è quella di uno scacchista. Potete passare molte ore con il vostro compagno anche se non capite un'acca della sua lingua, nè lui della vostra.
    Le prime partite le giocai fra i ghiacci della Terra Francesco Giuseppe, nel 1931, a bordo del Malighin. Fra i russi che partecipavano a quella spedizione artica vi erano molti bravi giocatori, ma il più valente di tutti era Romm, un giornalista che in altri tempi aveva fatto l'istruttore di ginnastica, un pezzo di uomo, alto, robusto, che era stato in Italia e parlava un po' la nostra lingua. Ma che il gioco degli scacchi non solo tenesse un posto di onore fra i passatempi dei giovani sovietici, ma fosse popolarissimo e diffuso dovunque, me ne accorsi solo più tardi, quando, qualche mese dopo, tornai in Russia per rimanervi alcuni anni.
    A Mosca si giocava in pubblico non solo al Parco di Cultura e Riposo, dove un apposito grande recinto era riservato agli scacchi, ma spesso anche in posti dove uno meno se lo sarebbe aspettato. Un giorno, entrato in una rimessa di automobili pubbliche, vi trovai due conducenti assorti in una partita a scacchi. Aspettai che la partita terminasse prima di pregarli di accompagnarmi. In treno, fra Mosca ed il piccolo villaggio di Dolgabrudnaja dove sorgevano le nostre officine, mi capitava spesso vedere alcuni dei giovani ingegneri da me dipendenti estrarre dalle tasche una minuscola scacchiera e mettersi a giocare: la scacchiera era di quelle che nel centro di ogni casa portano un foro per conficcarvi i pezzi, affinchè essi non cadano nel movimento del veicolo. Una volta mi accadde perfino veder giocare nella sala di aspetto di un cinematografo del centro di Mosca ! Quando vi entrai, la sala era gremita di pubblico che aspettava l'inizio del nuovo spettacolo, perchè in Russia anche al cinema i posti son numerati. Lungo le pareti della sala eran disposti dei tavoli dove si giocava a scacchi. Trovato un compagno, mi misi a giocare anch'io, ma, poco dopo, il segnale che lo spettacolo s'iniziava venne ad interrompere la partita. La partita mi interessava, ma mi interessava anche il film, che era uno di quelli dove i Russi, con il grande talento artistico che li distingue, danno la prova che si può fare dell'arte anche quando si fa propaganda politica, come ad esempio: « Il foglio della vita », « La corazzata Potemkin », « Le tre canzoni di Lenin ».
    La sera, al termine del lavoro, nelle officine e negli uffici della Dirigiablestroi si giocava a scacchi. Frequenti erano i tornei, frequenti anche le sfide fra i giocatori di un'azienda e quelli di un'altra. Una volta fui prescelto anche io, con altri cinque, a rappresentare la Dirigiablestroi in un match che doveva aver luogo fra essa ed un'altra organizzazione aeronautica. I fatti provarono che non meritavo l'onore della scelta. E' vero che il mio avversario aveva giocato più debolmente di me, e che le cose eran procedute bene sin quasi alla fine, ma fu proprio allora che, ritenendomi certo della vittoria, rallentai l'attenzione e commisi degli errori. Perdetti.

    * * *


    Non so se l'enorme popolarità del gioco degli scacchi in Russia si debba spiegare come effetto di una speciale inclinazione che i Russi abbiano per esso, o piuttosto come risultato degli sforzi fatti dal partito comunista per diffonderlo. Forse è vera l'una cosa e l'altra. Il gioco degli scacchi doveva essere abbastanza conosciuto in Russia anche al tempo degli zar; ma è certo che la sua diffusione fu voluta da Lenin, che doveva, io ritengo, esser convinto che la pratica di questo gioco influisca favorevolmente sulla formazione del carattere della gioventù. Il fatto è che il governo centrale sovietico prendeva un interesse veramente grande a tutte le manifestazioni scacchistiche.
    Nel 1935 si tenne a Mosca un torneo internazionale con l'intervento di molti celebrati maestri. Ricordo fra gli altri Capablanca, Lasker e Flor. I giocatori russi eran tutti giovanissimi. Alla testa di essi era Botvinik, un ingegnere di Leningrado di appena venti anni, che riuscì secondo nel torneo dopo Capablanca, allora campione del mondo.
    Il torneo ebbe luogo nelle sale di un palazzo del centro di Mosca, dove di solito si tenevano grandi manifestazioni culturali o politiche. Si giocava nel grande salone centrale, che all'uopo era stato diviso in due parti: una per i giocatori, l'altra per il pubblico. Appena un giocatore aveva fatta la sua mossa, un uomo appositamente incaricato andava a ripeterla su una delle grandi scacchiere attaccate alla parete, in modo che anche il più lontano spettatore poteva, standosene comodamente seduto, seguire le varie partite. Il torneo durò molti giorni, e tutti i giorni il salone era gremito di una folla attenta e silenziosa. Mi par di ricordare che per entrare si pagasse una piccola tassa.
    Emozionanti furono le ultime partite. Botvinik nella classifica seguiva molto da vicino Capablanca, e forti erano le speranze dei russi che egli riuscisse a prendere il primo posto od almeno a pareggiare. A Capablanca non restava da giocare che una sola partita, precisamente con Botvinik. Questi invece doveva terminarne anche un'altra con un russo. Di questa partita, sospesa in una situazione tale da far ritenere più che probabile una patta, era stata rimandata la continuazione a dopo che fosse terminata la partita Botvinik-Capablanca. Questa circostanza diede occasione ad alcuni maligni di insinuare che la partita fra i russi fosse stata sospesa di proposito, affinchè, nel caso che Botvinik fosse riuscito a vincere Capablanca, l'altro russo potesse giocare in modo da far guadagnare la partita a Botvinik, assicurando così ai Russi il primo posto nel torneo Ma la partita fra Capablanca ed il campione russo riuscì patta, e quindi non vi fu l'occasione di accertare se la maligna insinuazione avesse fondamento oppur no. Ma è probabile che l'avesse.
    Certa cosa è che il governo sovietico seguiva con estremo interessamento l'andamento del torneo. Tanto è vero che i risultati di ciascuna partita gli venivano immediatamente comunicati per telefono.

    * * *


    A Mosca in tutti i circoli si giocava a scacchi e si tenevano tornei. A stimolare l'emulazione fra i giocatori molto serviva il sistema della classificazione. I giocatori eran divisi in sette categorie, e norme precise regolavano il passaggio da una categoria all'altra. Al di sopra della prima categoria vi erano i « maestri» e più sopra ancora i « grandi maestri». Ad ogni giocatore veniva rilasciata una tessera con l'indicazione della categoria cui apparteneva.
    Nel 1935 venne aperto a Mosca un elegante circolo scacchistico di cui divenni socio. Non solo vi si giocava, ma vi si discuteva e vi si tenevano conferenze serali su questioni teoriche.
    L'ambiente era messo con molto decoro, quasi, direi, con lusso. Vi era anche un bar dove si poteva prendere l'immancabile dai con panini spalmati di caviale e burro. La segretaria del circolo era una giovane signora, forte giocatrice.

    * * *


    Il ricordo degli scacchi in Russia è legato nella mia memoria particolarmente a quello di tre giovani con i quali ebbi consuetudine di giocare: Borìs Miliukóff, che avevo avuto occasione di conoscere a Leningrado nella sua qualità di meteorologo dell'Aeronautica Civile, l'ingegnere Gamber e Michail Ivanovic.
    Miliukoff era un giovane di vasta cultura, che parlava molto bene il francese. Uno spilungone magro, bruno, con i capelli lunghi, spioventi. Non aveva altri parenti che la madre, una vecchia gentile signora, che parlava molte lingue, ed anche un po' l'italiano, essendo stata in Italia da giovane. Madre e figlio si amavano molto e vivevano insieme in un piccolo appartamento posto a pianterreno, in fondo al cortile di una vecchia casa presso l'Arbat. Miliukoff era appassionato di libri, e ne comprava sempre. Conosceva uno per uno tutti i buchinisti di Mosca e di Leningrado. Fu proprio lui che mi fece prendere l'abitudine di passare molte ore dei miei giorni di vacanza visitando le librerie antiquarie, ed a Mosca, di tali librerie, ve ne erano molte. Miliukoff era riuscito a formarsi con i suoi risparmi una considerevole biblioteca di libri antichi e moderni, taluni di edizione assai pregiata o rara. Le due camerette dove egli viveva con la madre ne erano piene zeppe. Gli alti scaffali che correvano attorno alle pareti ne rigurgitavano, e non vi era angolo che non ne fosse ingombro. Mi diceva di averne seimila, ma forse eran più.
    Miliukoff soleva di tanto in tanto venire a casa mia a giocare a scacchi. Era un forte giocatore, assai più abile di me. L'ultima volta che venne mi disse che il giorno dopo sarebbe partito per Leningrado per tenervi una conferenza. Lo pregai di ricercarmi presso i buchinisti di quella città alcuni libri che non ero riuscito a trovare a Mosca, ed egli promise di tarlo; ma era destinato che non lo vedessi mai più. Scomparve per sempre.
    Aveva detto che si sarebbe trattenuto a Leningrado quattro o cinque giorni; ma un mese trascorse senza che sentissi più di lui. Finalmente, un giorno, venne la madre da me. La povera signora era in grande agitazione; mi disse di non sapere nulla di preciso del figliolo. Solo, le era giunta una lettera con cui una sua amica l'avvertiva che il figliolo era stato arrestato a Leningrado insieme con altri meteorologhi.
    Molte dicerie si sparsero tra i conoscenti a spiegare questo arresto, talune anche assai strane. Si accennò tra l'altro a un preteso sabotaggio che quei meteorologhi avrebbero fatto, dando intenzionalmente notizie errate sul tempo che avrebbero provocato dei danni ad un piroscato sulla Neva. L'indole apparentemente leale di Boris Miliukoff, il suo carattere mite e gentile, non mi fecero prestar fede a tali dicerie. Più tardi, quando la vecchia signora venne a vedermi, mi parve di comprendere dai suoi discorsi che il motivo vero dell'arresto fosse da mettere in relazione con la frequenza assidua del giovane in casa di una signora moscovita, dove pare si cospirasse contro il regime sovietico. Comunque stessero le cose, fatto è che egli venne condannato a cinque anni di lavori forzati.
    Passarono mesi senza che avessi altre notizie. Poi un giorno mamma Miliukoff ricomparve. Questa volta aveva un volto sereno. Era stata a visitare il figliolo nel posto dove era detenuto, una colonia di condannati adibiti ai lavori di costruzione del canale del Volga. « Sta proprio bene, mi diceva la signora; si è perfino ingrassato. Non porta più i capelli lunghi come una volta; ma non importa. E non dovete pensare che faccia lavori materiali. Oh, no. Tiene dei corsi agli altri detenuti ».
    Rividi spesso la signora Miliukoff. Talvolta andavo io a casa sua a prendere notizie. Più spesso veniva essa da me. La poverina, rassegnata, continuava a vivere in mezzo ai libri del figliolo custodendoli amorosamente in attesa del suo ritorno. L'ultima volta che mi vide mi annunziò, tutta contenta, che presto il figlio sarebbe stato liberato.
    Un giorno, impensierito dal fatto che da molto tempo non si faceva più vedere, mandai Amabile a chiedere notizie. Quando ella bussò alla porta in fondo al cortile, le fu aperto da una donna sconosciuta.
    « La signora Miliukoff? ».
    La signora Miliukoff non c'era più. Era morta senza aver potuto vedere il figlio.
    I libri erano stati presi in consegna dalla polizia.
    Un anno dopo ebbi notizie anche del figliolo. Pare che si fosse ammalato di petto. Era morto poco dopo la madre.

    * * *


    Dell'altro mio compagno di scacchi, l'ingegnere Gamber, il ricordo è assai meno triste. Gamber era un bel giovane elegante, molto intelligente. Nato nei paesi baltici aveva vissuto per alcuni anni a Varsavia ed a Parigi. Narrandomi del suo soggiorno in questa ultima città, si compiaceva parlarmi delle partite da lui giocate al « Cafe de la Régence ».
    Sapevo che viveva solo in un piccolo, nitido appartamento di un quartiere nuovo di Mosca. Perciò restai meravigliato quando un giorno mi accennò ad un suo bambino che viveva lontano da lui. « E dove è vostra moglie?» domandai. Gamber rimase un momento silenzioso, poi disse: « Vedete, Umberto Vikientievic, qui in Russia abbiamo distrutta la vecchia morale ma ad essa non ne abbiamo ancora sostituita un'altra ». Nè aggiunse altro. Più tardi seppi da amici comuni che la moglie l'aveva abbandonato e se ne era partita col bambino. Casi simili avvenivano allora assai frequentemente in Russia e non era da meravigliarsene. Le cose cambiarono più tardi.
    Del resto l'ingegnere Gamber non rimase a lungo solo. Un bel giorno comparve a casa mia con una bella, giovane signora siberiana: la sua nuova moglie.

    * * *


    Nei miei ricordi di Russia il tipo più divertente di scacchista che ebbi a conoscere fu un giovane scrittore: Michaíl Ivanovic. Di lui non ho mai saputo il nome di famiglia.
    Michail Ivanovic mi era stato presentato dal mio segretario Frcek. Era un tipo veramente originale. Romantico, direi. Come giocatore di scacchi valeva anche meno di me e per giunta era di una lentezza esasperante. Ma, a parte gli scacchi, la sua compagnia era interessante e piacevole. Soleva venire da me di sera senza preavvisarmi, e si tratteneva fino all'ora dell'ultima corsa della metropolitana, che andava a prendere sulla piazza della Lubianca presso la mia casa. Una sera comparve all'improvviso all'ora di cena. Terminata questa, ci mettemmo a giocare, e seguitammo per tutta la serata. Michail Ivanovic questa volta non si curava affatto di guardare l'orologio per vedere se fosse giunta l'ora di andarsene, e la mezzanotte passò senza che mostrasse di accorgersene. Gli domandai come avrebbe fatto a tornare a casa. Mi rispose che sarebbe andato a piedi e continuò a giocare. Si fecero così le quattro del mattino. Giunti ad una tale ora, non vi era altro da fare che aggiustargli alla meglio un letto; ciò che feci. La mattina dopo, giorno di vacanza, riprendemmo a giuocare. Una vera scorpacciata di scacchi da farne un'indigestione ! Ma nemmeno la sera, quando già ormai la visita durava da venti quattro ore, il mio ospite accennava a volersene andare.
    Alle otto il telefono squillò. Dall'altro capo della linea una voce femminile domandava: « Scusate, signor Nobile, Michail Ivanovic è da voi? ». Era la moglie del mio compagno di gioco, che, dopo aver ricercato dovunque suo marito, rivolgendosi perfino alla polizia, finalmente si era ricordata di me.
    Qualche giorno dopo il mio segretario mi informò che la sera in cui Michail Ivanovic era venuto da me, aveva litigato con la moglie. Pare che avesse preso l'abitudine di venirsene a casa mia a giocare a scacchi tutte le volte che succedeva una simile cosa.
    In un paese come l'Unione Sovietica, dove il gioco degli scacchi aveva un'importanza così grande da destare l'interessamento del governo, non può far meraviglia che vi fosse perfino chi ne avesse fatto oggetto di poesia. Conobbi uno di questi poeti. Era una signora della vecchia aristocrazia: una contessa o qualche cosa di simile, che, beninteso, non faceva sfoggio alcuno di tal titolo, anzi cercava di far dimenticare di averlo un giorno posseduto.
    Questa signora viveva di poesia scacchistica nel senso che da essa traeva i mezzi materiali per vivere. Pubblicava i suoi poemi nei giornali, che glieli pagavano. Quanto non so dire, ma è certo che glieli pagavano, il che prova che trovavano dei lettori.
    La signora venne a casa da me e mi concesse l'onore di fare una partita, che ad un certo punto, a sua richiesta, per ragioni di cavalleria, acconsentii a dichiarare patta. Manifestandole io la mia meraviglia che gli scacchi potessero ispirare della poesia, ella a sua volta si meravigliò della mia meraviglia. Mi parlò degli scacchi nella letteratura. Tra l'altro appresi che anche Leone Tolstoi era stato un appassionato, benchè mediocre giocatore di scacchi.
    Nell'Unione Sovietica le relazioni degli scacchi con le belle arti non si limitavano alla poesia. Nel Parco di Cultura e di Riposo, il bellissimo parco di Mosca, assistetti una volta ad una partita veramente singolare dove ogni pezzo era rappresentato da una donna o da un uomo, ciascuno in appropriati costumi. Lo spettacolo era per me veramente nuovo e piacevole. I due giocatori, dall'alto di due palchi, dirigevano le mosse di questi scacchi viventi. I movimenti venivano accompagnati da suoni e danze eseguite dal pezzo mosso. Così si vedeva, ad esempio, una pedina fare, a suon di musica, una danza nella sua casa prima di passare in un'altra, nella quale si arrestava dopo aver fatto un altro giro di ballo.
    Un pezzo che ne prendeva un altro accompagnava naturalmente la presa con canti di vittoria.


    Il leone ed il ladro

    NON è il titolo di una favola di Esopo, ma di un fatto realmente avvenuto a Mosca.
    In Russia non ho mai visto maltrattare un cavallo (non parlo di asini perchè di asini non ve ne sono) od altri animali. Gli isvoscik non erano nemmeno provvisti di frusta. Anche gli uccelli erano lasciati in pace dai fanciulli. Ma che l'amore per le bestie potesse spingersi al punto da tenersi in casa un giovane leone, questo non l'avrei creduto. Eppure il caso si diede a Mosca proprio al tempo mio. Ne parlarono i giornali.
    La padrona del leone era una giovane donna impiegata allo Zoo, dove probabilmente occupava una posizione importante, a giudicare dal fatto che le avevano permesso di portarsi a casa uno dei leoncini, che aveva essa stessa allevato, ed al quale si era particolarmente affezionata.
    Il leoncino col tempo era cresciuto. Non era più uno di quei cuccioloni, dal pelo morbido e fine, che fa tanto piacere prendere fra le braccia, quando si va a visitare un giardino zoologico, ma un vero e proprio leone che la signora portava a spasso al guinzaglio per le vie di Mosca, e lasciava libero di girare dall'una all'altra camera del piccolo appartamento che occupava insieme con suo marito.
    Ora, un giorno in cui marito e moglie si trovavano fuori casa per le loro faccende, un ladro penetrò nell'appartamento con l'intenzione di rubarvi. Il poveretto non poteva certo pensare che avrebbe trovato in casa un leone; si immagini, perciò, il suo spavento nel vedersi venire incontro la belva.
    Fu precisamente a questo punto che il ladro scoprì di possedere una agilità da scoiattolo. In un attimo si trovò, tremante di paura, sull'alto di un armadio che, fortunatamente per lui, si trovava nell'ingresso della casa. Ai piedi dell'armadio si mise di guardia il leone, risoluto a non lasciarsi sfuggire il ladro, se per caso si fosse deciso a discendere.
    Furono ore di attesa ansiosa, durante le quali il malcapitato non dovette, io penso, cessare un attimo dall'invocare il Cielo, perchè facesse tornare subito a casa gli inquilini dell'appartamento che era venuto a svaligiare. Egli non sapeva che un leone, per prendere lo slancio per un salto, ha bisogno di un certo spazio, che nell'angusto ingresso di quella casa mancava. Se l'avesse saputo, è probabile che si sarebbe alquanto rincorato.
    Alla fine i padroni di casa sopraggiunsero e lo sfortunato ladro, finalmente liberato, potette discendere dall'armadio ed andarsene per i fatti suoi.
    Ebbi la curiosità di conoscere il leone e la sua padrona e stavo sul punto di far loro visita, quando venni avvertito che era troppo tardi: le autorità sovietiche, saggiamente giudicando che tenere un leone in casa costituisce un pericolo eccessivo per i ladri, avevano ordinato di riportarlo al giardino zoologico.

    * * *


    Come si chiamasse quell'antico direttore di circo equestre al quale il Governo sovietico concedeva di tenere a casa molte delle sue bestie, non ricordo più, ma era uno assai famoso. Andai a visitarlo con mia figlia.
    Aveva fra l'altro, nella corte della casa, un elefante, ai piedi del quale giaceva accovacciato un grosso cane da pastore.
    Il direttore del circo mi disse: « Sono molto amici, elefante e cane. Stanno sempre insieme. Provi un po' a maltrattare il cane e vedrà come l'elefante si infuria ». E me ne diede la prova, fingendo di voler percuotere il cane con un bastone. L'elefante cominciò ad agitarsi, muovendo furiosamente la proboscide ed alzando ora l'una ora l'altra delle sue massiccie zampe. Alla fine, per non vederlo infuriato sul serio, dovemmo smettere di molestare il suo amico.


    Le file a Mosca


    Le file in Russia, ai magazzini, ai botteghini dei teatri, alle edicole dei giornali, agli sportelli delle stazioni ferroviarie, alle porte dei musei, al mausoleo di Lenin, erano una delle cose che più mi impressionavano nei primi tempi che ero a Mosca.
    In pieno centro della città, al principio di Kusnictzki-most, dov'era una agenzia di viaggi, si vedeva nel 1931, ed ancora nel 1932, una fila lunghissima di persone che aspettavano per acquistare i biglietti ferroviari. In quel tempo un enorme numero di persone viaggiava in Russia, spostandosi da una città all'altra. Le stazioni ferroviarie erano gremite di viaggiatori di ogni razza, di ogni nazionalità.
    Caratteristiche erano le file ai teatri. I teatri in Russia erano affollatissimi, sempre. Per comprare un biglietto bisognava a volte andarsi a mettere in fila davanti al botteghino del teatro una settimana prima dello spettacolo. L'ho fatto io stesso tante volte, ma Ester Josefovna mi aveva detto: « Voi non avete bisogno di stare in fila; siete straniero; la gente vi lascerà passare avanti». Ed infatti mi lasciavano passare, non senza però aver bonariamente brontolato.
    Ci fu un tempo in cui il .petrolio a Mosca era assai scarso. Una sera, passando per l'Arbat, vidi ferma davanti ad un negozio una fila di persone, ma il negozio era chiuso. Domandai che facesse quella gente a quell'ora. Mi dissero che avrebbe passata la notte all'aperto per poter la mattina seguente comprare il petrolio. Non vi sono che i Russi a esser così pazienti.
    Uun giornalista americano, che incontrai a Mosca, raccontava che, essendosi messo una volta in viaggio, si era procurato una raccomandazione della G.P.U. che lo dispensava dal far la fila nelle stazioni per acquistare i biglietti di viaggio. Recatosi un giorno, per tale bisogna, alla stazione di Odessa, o non so quale altra città, venne da un agente della ferrovia, al quale aveva mostrato la lettera della G.P.U., diretto ad uno sportello davanti al quale sostava una lunga fila di persone. Avvalendosi del diritto che gli dava la dichiarazione, fece l'atto di passare davanti agli altri; ma questi protestarono: « Perchè volete passare avanti ? ». « Ne ho il diritto », rispose il giornalista mostrando la lettera.
    « Ma l'abbiamo anche noi una dichiarazione simile », fu la risposta.
    Era la fila di quelli che avevano il diritto di non fare la fila !
    Ma le file col passar degli anni si andarono diradando, ed in certi periodi scomparvero del tutto, specialmente davanti ai negozi alimentari.
    Dovevo rivederle in Italia, alcuni anni dopo, durante la nostra infelicissima guerra.

    * * *


    In fatto di file il colmo occorse in casa nostra stessa a Mosca, e si crederebbe ad uno scherzo se non aggiungessi che al fatterello che sto per raccontare erano presenti mia figlia Maria ed Amabile, una nostra familiare.
    Avevamo in casa tre gattini. Nessuna meraviglia di ciò, perchè mia figlia soleva raccogliere per istrada tutti i micini che credeva abbandonati.
    Orbene un giorno, mentre stavo lavorando, sentii grandi esclamazioni provenire dalla camera attigua, che era quella d'ingresso della casa. E mia figlia che chiamava: « Papà, vieni a vedere ». Accorsi.
    Nell'angolo, dove era un cestino pieno di segatura, si vedevano ì tre micini : l'uno di essi nel centro del cestino nell'atto di soddisfare ad un suo bisogno fisiologico e gli altri due ad aspettare in fila il loro turno !


    Storia di un vagone di burro e di un cesto di mele


    Da qualche giorno ero a letto ammalato d'influenza, e proprio quella mattina avevo chiesto un medico per farmi visitare.
    L'indisposizione non era così grave da impedirmi di lavorare, e profittavo perciò del riposo cui ero obbligato per terminare i calcoli, piuttosto laboriosi, di uno studio che avevo allora per le mani. Mi aiutava nella bisogna un giovane italiano a nome Roberto, disegnatore del Constructor Biurò della Dirigiablestroi.
    Nàstia (una delle mie donne di servizio) entrò ad avvertirmi che alla porta vi era un uomo che voleva visitarmi. Pensai che fosse il medico. « Lasciatelo passare», dissi. Si presentò un individuo alto, magro, vestito abbastanza bene. Mi salutò con effusione: « Sdrastuitie, Umberto Vikientievic. Kak vi sgiviote ?» (Salute, Umberto di Vincenzo, come state ?).
    Sorpreso da tanta cordialità, lo guardai. « Vi doctor ? », (Siete il medico ?) domandai.
    L'individuo parve lievemente offeso dalla mia domanda. Prontamente rispose: « Ja, doctor ? Niet. Ja professor ». (Io dottore ? no; son professore).
    Non replicai. Capii che non si trattava del medico che aspettavo. Ma chi mai era costui che si rivolgeva a me come se fossimo vecchie conoscenze ? Cercavo di ricordare dove e quando l'avessi conosciuto; ma non riuscivo ad identificare l'individuo.
    In casi come questi si è sempre un po' imbarazzati. Come si fa a domandare « Chi siete?» ad uno che vi saluta così cordialmente come se fosse un vostro amico ? Decisi di aspettare. Il mistero forse si sarebbe chiarito nel seguito della conversazione.
    « Umberto Vikientievic », riprese l'individuo, « giungo dalla Crimea e mi reco a Leningrado. Non ho voluto, passando per Mosca, mancare di venire a salutarvi. Vi ho portato in regalo un cesto di mele. Mele grandi così ». E con i pollici e gli indici delle due lunghe mani, riuniti a formare un cerchio, me ne indicava la grandezza.
    Vidi uno spiraglio di luce : Leningrado... professore... Costui probabilmente era qualcuno che avevo conosciuto in casa del professor Samoilovic a Leningrado; dove mi ero recato qualche tempo addietro. Feci un tentativo:
    « Conoscete a Leningrado il professor Samoilovic ? ».
    « Samoilovic ? » fece lo sconosciuto «Kak I Ja scevu v' tomsge samom domie » (E .come ! vivo nella stessa sua casa).
    Mi cominciai a sentire un po' più a mio agio. Era, dunque un professore amico di Samoilovic. Ora potevo proseguire nella conversazione con minor incertezza. Cominciavo ad orientarmi.
    Ma avevo un dubbio da chiarire.
    « E come avete fatto a trovare il mio indirizzo ? », domandai.
    « Semplicissimo », rispose l'interpellato. « Vi è un chiosco d'informazioni qui vicino, alla Mjasnitzkaja. Ho domandato di voi, e mi han detto subito dove abitavate ».
    Questo chiosco d'informazioni esisteva veramente, ma fino ad allora non ne avevo saputo nulla.
    La conversazione proseguì : senza entusiasmo da parte mia, perchè avevo fretta di tornare al mio lavoro, mentre l'individuo, da parte sua, non mostrava alcuna fretta di andarsene.
    «Umberto Vikientievic », riprese, «vengo, come vi ho detto, dalla Crimea. Sono stato incaricato di scortare un vagone di burro a Leningrado, destinato ad esser esportato in Finlandia ».
    Sostò un attimo. Poi, come colto da una improvvisa idea:
    « Ma, Umberto Vikientievic, certo voi avete bisogno di burro. Ne volete ?
    Posso darvene quanto ne volete ed a buon prezzo. Sono proprio felice di potervi esser utile. So bene quanto sia difficile procurarsene qui a Mosca ».
    Infatti, in quei tempi il burro era assai scarso. Se ne trovava a comprare soltanto al Torgsin; però bisognava pagare in valuta straniera.
    Ma di quelle faccende domestiche io non mi interessavo affatto; perciò accolsi l'offerta dello sconosciuto con una certa freddezza.
    Chi invece si entusiasmò fu Roberto, il mio giovane collaboratore, che già, al solo sentir parlare di vagoni di burro, aveva sgranato tanto di occhi. Ora, all'offerta del professore mi tirò per un braccio. « Accetti », mi disse sottovoce. «Ne prenderò anche io per casa».
    « Bene », dissi all'individuo, « datemene allora due chili ».
    « Due chili ? e che ve ne fate di così poco ? Ma prendetene di più, caro Umberto Vikientievic. Vi prego, non fate complimenti. Dite liberamente. Quanto ve ne occorre ? ».
    Così dicendo, cacciava fuori della tasca un taccuino ed un lapis, e se ne stava lì col lapis per aria aspettando che dicessi una cifra decente.
    Finalmente raddoppiai la richiesta precedente. Allora il professore decise lui per me. « No, è troppo poco. Faremo tredici chili, va bene?» e fece il conto dell'importo.
    Concluso, con grande soddisfazione di Roberto, l'affare, bisognava ora vedere se in casa vi fosse abbastanza denaro per pagare. Chiamai Nastia per domandarle quanti rubli avesse. A sentir tale richiesta il mio visitatore mi interruppe. « Ma, Umberto Vikientievic, non occorre pagare subito. Lo farete con vostro comodo. Anzi se vi occorre del denaro, ve ne posso dare io ». E così dicendo metteva fuori di tasca il portafogli, e taceva finta di metter mano al denaro.
    Come si vede, la mia mente era talmente ottenebrata dai troppi calcoli di quella mattina, che lì per lì non tui nemmeno colpito dalla strana prodigalità di questo sconosciuto che veniva ad offrirmi mele, burro e perfino danaro !
    Ringraziai, rifiutando cortesemente l'offerta.
    « Allora », concluse l'individuo, accomiatandosi, « dite alla vostra domestica di accompagnarmi all'albergo. Le consegnerò il cesto delle mele ed il burro ».
    E si avviò all'uscita insieme con Nastia. Riprendemmo i calcoli.
    Dopo mezz'ora Nastia tornò indietro infuriata.
    « Sapete che ha fatto quell'uomo ? Per la strada mi ha domandato quanto danaro avevo portato con me. Gli ho risposto che non ne avevo portato affatto. Allora, giunto all'angolo della strada, mi ha detto: "Aspettatemi qui. Vado a prendere le mele ed il burro, e ve lo porto subito,,. Ho aspettato finora, ma non è venuto ».
    Così avvenne che il tentativo di truffa del simpatico lestofante andasse a vuoto. Ma a dir la verità, la sola ragione per cui esso non riuscì fu che realmente danaro in casa quel giorno non ve ne era.


    LETTERE DALLA RUSSIA

    Quale testimonianza viva ed immediata delle impressioni riportate sulla vita sovietica, mi è parso interessante raccogliere qui alcuni brani di lettere da me scritte a casa dalla Russia, lasciandoli nella forma originaria. Altri brani sono tolti da lettere di mia figlia Maria,- altri da lettere di una nostra familiare, a nome Amabile.


    Notti bianche

    Leningrado, r4 luglio 1931. — Queste notti bianche di Leningrado, ora che il tempo è sereno, sono di una grande bellezza.
    Vado spesso la sera tardi a passeggiare lungo la Neva, dove sono quei bei palazzi costruiti da architetti italiani. In quel punto il fiume è molto largo ed assume un andamento maestoso. Dalla quiete della notte scende nell'animo una grande serenità.
    Leningrado, 22 agosto 1932. — Qui l'estate è finita, e la campagna ingiallisce. A Mosca il caldo non si sente più; e a Leningrado fa freddo, tanto che sono pentito di non aver portato un cappotto pesante.
    Oggi sono stato a Gkcina. La campagna, pure un po' triste per il giallo del grano, è sempre assai bella. Vorrei proprio che tu vedessi.


    Autunno


    Mosca, 21 ottobre 123 2. — Il tempo cattivo non ci impedisce di andar fuori di Mosca, lontano, nei giorni di vacanza. La campagna è così bella qui, anche ora che l'autunno ha ingiallito molti alberi. Non sono colori vivi, ma vi è tanta armonia di luci, ed il verde cupo dei pini fa risaltare il giallo oro degli alberi che il freddo ha intristito.


    Mosca d'inverno

    Dolgaprudnaja, 3 dicembre 1934. — Qui il freddo è venuto. Ieri erano venti gradi sotto zero. Dolgaprudnaja, tutta coperta di neve, si è come per incanto trasformata da quella sudicia pozzanghera che era in un accampamento pittoresco, tutto candido di neve. L'ultimo giorno di vacanza siamo andati con Amabile ed i cani fino al laghetto. Il cielo era tutto azzurro, ed i boschi avevano una colorazione straordinaria fra blu, rosa e bianco. Una cosa magnifica, che si può vedere soltanto in questi paesi nordici, quando fa freddo e l'aria è limpida ed il cielo sereno.
    Mosca, 14 dicembre 1933 (da Amabile). -- Come son belle le nostre finestre I Tutti i giorni il ghiaccio disegna dei fiori sui vetri, e quelli di una camera sono diversi da quelli dell'altra. Oggi, ad esempio, i vetri della stanza da pranzo sembrano di damasco, con tante foglie grandi messe alla stessa distanza l'una dall'altra. Nessun pittore le potrebbe fare così. Nello studio tutte stelline e ramoscelli di stelline. Se Lei, signora, potesse vedere, che bellezza!
    Mosca, I gennaio 1936. — Quest'anno in Russia il capodanno è stata festa grande. Il giorno di vacanza del 3o dicembre è stato soppresso, e si è ufficialmente riconosciuto come giorno di festa il primo dell'anno. Questo è stato un bene, perchè gli altri anni la gente festeggiava ugualmente l'arrivo del nuovo anno, ed avendo passato tutta la notte in bagordi, la mattina dopo in ufficio non si reggeva in piedi dal sonno. Ora invece tutto è in regola. La notte scorsa si è mangiato, bevuto e danzato fino alle quattro o cinque di mattina, e quest'oggi i miei ingegneri possono tranquillamente rimanersene a casa a dormire.
    Abbiamo un tempo stranissimo quest'inverno: il più caldo che abbia osservato qui. La temperatura non è mai scesa al disotto di una dozzina di gradi, mentre l'anno scorso a novembre già avevamo trenta gradi. Qualche settimana fa vi fu una grande nevicata: non avevo mai visto tanta neve nelle strade di Mosca, ed era uno spettacolo molto piacevole. Ma stamattina, all'improvviso, la temperatura si è elevata tanto che si è messo a piovere, e tutta la neve si è disciolta.
    Mosca, 4 gennaio 1932. — D'inverno, le finestre a doppie vetrate vengono all'interno chiuse ermeticamente e suggellate con mastice, salvo una piccola portella, in alto, anche essa a doppi vetri, che serve a ricambiare l'aria. La neve si accumula avanti, sui davanzali, ed il gelo forma sui vetri disegni ad arabeschi, assai belli.
    Mi piace la notte fermarmi in istrada a contemplare gli uomini che lavorano a spazzar via il grosso della neve, affinchè non si accumuli eccessivamente. L'ammonticchiano qua e là, e dopo la squagliano in una specie di forno a carbone. Più bello ancora quando, per liberare i binari del tram, vi accendono sopra un bel fuoco di legna. La bella fiamma rossa sullo sfondo della neve, nelle strade tutte bianche e nel freddo pungente della notte, è una cosa gradevolissima. Ieri sera sarei rimasto ore ed ore a guardare.
    Mosca, 21 gennaio 1932. — La mattina in cui arrivai, durante il viaggio dal confine russo a Mosca, mentre ero nella mia cabina intento a leggere, sentii canticchiare un'aria che somigliava vagamente a « O' sole mio ». Credetti di aver frainteso, e seguitai a leggere. Ma, dopo alcuni minuti, ecco affacciarsi alla porta del compartimento un giovanotto bruno, che dopo avermi salutato mi disse di essere portoghese. « Ma », aggiunse, «il mio cuore è italiano, perchè vi è tanto sole in Italia». Capii che si era messo a canticchiare per richiamare la mia attenzione, e non essendoci riuscito, si era fatto coraggio e si era presentato alla porta del mio compartimento.
    Il bravo giovane non aveva torto a pensare al sole. Qui da molti giorni non lo si vede più. Peggio ancora, fa caldo (zero gradi) e la neve è tutta disciolta, sicchè le strade sono ricoperte da una fanghiglia nerastra.
    Mosca, 26 gennaio 1932. — Il tempo è sempre cattivo. La temperatura è attorno allo zero, ma fa umido, e sembra che faccia freddo. Stasera il cielo pareva volesse rasserenarsi, e sulla grande piazza Sverdlov volteggiavano in alto stormi immensi di uccelli. Erano migliaia.
    Mosca, 2 febbraio 1932. — Continua il freddo e con il freddo la neve. Ormai tutte le strade sono bianche, e miriadi di aghi di ghiaccio brillano sotto la luce delle lampade elettriche. Così Mosca è vera mente bella.
    Mosca, 3 febbraio 1932. — ... stamattina, quando mi son levato, il sole inondava di luce le strade avanti alle finestre, e faceva allegria nelle mie camere. Mi sono sentito sollevato. Il cattivo umore dei giorni scorsi è scomparso d'incanto. Fa freddo: diciotto gradi sotto zero.
    Mosca, 3 febbraio 1932. — Alcune settimane di pieno inverno qui a Mosca sarebbero divertenti anche per te. Gli isvoscik imbacuccati nelle loro pelliccie, con le slitte trainate da questi buoni e massicci cavalli, le strade ghiacciate, la neve accumulata qua e là, l'aria frizzante, tutto questo è molto piacevole. Nei tram i vetri sono tutti ricoperti di ghiaccio, fino come polvere, prodotto dalla condensazione del vapor d'acqua emesso con la respirazione delle persone, sicchè non si riesce a veder fuori.
    A proposito di cavalli, ieri per istrada, mentre parlavo con Ester Josefovna di animali, le osservavo che gli asini sono molto intelligenti. Essa mi guardò tutta meravigliata (qui asini non se ne vedono), e mi disse: «Ma allora perchè li chiamano asini ? ». Risposi che sempre gli uomini chiamano asini quelli che sono buoni.
    Mosca, 6 febbraio 1932. — Il freddo aumenta sempre più. Questa notte alle due era di ventisette gradi sotto zero.
    Stamattina di diciannove gradi. Ma è molto piacevole. Naturalmente ho dovuto mettere un abito pesante; ma finchè non tira vento non si sente la mancanza di una pelliccia. 11 cappotto è più che sufficiente.
    Oggi si vede perfino un po' di sole. Ma se vedessi che specie di sole ! Si potrebbe anche farne a meno. Mi diceva stamani Leteisen che vi è un proverbio russo che dice: il sole d'inverno riscalda male, così come una matrigna riscalda male il figliastro.
    Dolgaprudnaja, 9 febbraio 1936. — Oggi il cielo era sereno. L'aria limpidissima e fredda. Nel pomeriggio siamo andati a sciare. Di lontano i campi di neve apparivano lievemente tinti di azzurro. Nel cielo strisce di verde...
    Mosca, 12 febbraio 1933— Qui nevica che è una bellezza da molti giorni, ma non fa freddo. La neve è tanta che è difficile giungere con l'automobile fino a Dolgaprudnaja. Ieri fui obbligato ad abbandonarla presso il lago, e continuare a piedi. Poi sopraggiunse una slitta, sulla quale montai, e Titina con me. Marianna restò a piedi, ma, seccata, correva avanti al cavallo, abbaiandogli per farlo fermare.
    Il prof. Kaniceff sta bene; soltanto ha una mano un po' bruciacchiata. Ha insistito molto per farmi conoscere uno scultore che da tempo desiderava fare il mio busto. Alla fine l'ho accontentato, ed oggi sono andato nel suo studio. Come puoi immaginare, esso non è così grande e luminoso come quello del nostro Hendrik a Roma (*). In compenso, però vi sono cose divertenti. Ogni tanto il pavimento, che è di catrame, si screpola, ed attraverso il pezzo che si stacca viene fuori un fungo. E sono Lunghi buoni a mangiare ! Avresti mai pensato che un fungo potesse riuscire a rompere un pavimento solido, spesso due o tre centimetri ? Eppure l'ho visto con i miei occhi questa mattina.
    Mosca, 21 febbraio 1933. — Di tanto in tanto compare un bel cielo azzurro ed il sole, ed allora è una festa, specialmente se ci si trova in campagna. Dovresti vedere questi bei boschi inargentati, su un piano uguale di neve indorata dal sole, che bellezza che sono.

    (*) Lo scultore americano Hendrik Cristian Andersen, di origine norvegese, uno dei precursori dell'idea di unificazione del mondo, che dedicò la sua vita ed i suoi averi ad un nobile progetto per la fondazione di un centro di coltura mondiale, A World centre, come egli lo chiamò.



    Bambini russi

    Mosca, 21 gennaio 1932. --- Ieri sera visitai una piccola famiglia russa: marito, moglie e due bambini, uno di sette anni,l'altro di nove o dieci. I bambini erano nella stanza attigua, già a letto, ma quando han saputo che io ero là, si son messi a far chiasso perchè volevano conoscermi. Aperta la porta, il più piccolo, in maniche di camicia, mi è venuto attorno a sgambettare. Il secondo, magro ed alto, con i capelli rossi, ha pregato la mamma di domandarmi « quale tipo di maschera contro i gas asfissianti si adopera in Italia ». Sono rimasto a bocca aperta, e gli ho detto di non saperlo; chè anzi, per quello che ne so io, non se ne adopera nessuna, perchè non ve ne è bisogno, grazie a Dio. Allora, trionfante, è andato a prendere in qualche posto due maschere e me le ha mostrate. Come vedi, qui i ragazzi si occupano di cose molto serie...
    Mosca, 24 gennaio 1932. — Ieri sera fui ad un concerto. Dopo, tornai in casa di quella piccola famiglia russa dove ero già stato due sere prima: un ingegnere ebreo, la moglie russa e due bambini. La signora, che la volta precedente era rimasta un po' mortificata per non aver avuto nulla da offrirmi, aveva preparato il tè con biscotti, paste, marmellate, ecc. Sulla tavola la porcellana più fine che aveva.
    Nell'insieme una serata piacevole. Il ragazzo maggiore, di dieci anni, stava a guardarmi con grande attenzione, e si faceva tradurre tutto ciò che andavo dicendo. Quando, in seguito alle esortazioni della madre, si decise ad andare a letto, volle prima mostrarmi la sua stanzetta, cioè la piccola porzione di stanza che egli chiamava la sua stanza. Le pareti erano tutte ricoperte di fogli, illustrati con soldati e maschere contro i gas asfissianti.


    Chiese

    Mosca, i o agosto 1933 (da Maria). — Ti dirò subito perchè il giorno 3o non sono andata a messa. La messa comincia alle undici ed un quarto, ma prima vi è la predica, la confessione, ecc., sicchè la gente va in chiesa un'ora prima. Quando arrivo io, è già piena zeppa, e devo rimanere in piedi per un'ora, in un'aria che spesso è irrespirabile. Dopo cinque minuti la testa mi comincia a girare e devo uscir fuori.
    Mosca, 11 agosto 1933 (da Amabile). Maria è rimasta molto addolorata a leggere il rimprovero che Lei le ha fatto. Lei ha ragione a dire che non bisogna mancare ai propri doveri di cristiano, ma non è stato per poltroneria se essa per due domeniche non è andata in chiesa. Una volta faceva un caldo tremendo, ed approfittammo che era giorno di vacanza per il signore, per andare tutti insieme, di buon mattino, a Nuova Gerusalemme, una chiesa bellissima, che ora è un museo. L'altra volta fu a causa di un raffreddore che la tenne a letto.
    « Deve anche tenere conto, cara Signora, che in quella chiesa, se non si va un paio di ore prima, non si trova posto, e bisogna starsene in piedi. E col caldo che fa e gli odori che vi sono non è un piacere ».
    Mosca, 17 agosto 1933 (da Maria). L'altro ieri, Madonna dell'Assunta, andammo in chiesa. Vi fu anche la processione. Seguivano il Santissimo tante bambine vestite di bianco con un mantello rosso ed un nastrino in testa pure rosso. Ognuna portava tra le mani un cuscinetto, e su questo o la colonna sulla quale fu flagellato Gesù, o la corona di spine, o la croce, o i chiodi ed il martello. Tutte queste cose erano di legno. Altre bambine gettavano continuamente fiori al Santissimo.
    La chiesa era piena nonostante che fosse giorno di lavoro.
    Teberdà, 2 settembre 1933 (da Maria). --- Qui di chiese non vi è nemmeno l'ombra. Tutti mi guardano come una bestia rara, perchè porto una crocetta al collo.
    Mosca, 26 ottobre 1933 (da Amabile). — Passando vicino ad una chiesa ortodossa vi sono entrata. Era molto piccola, ma bella. Accanto ad un tavolino stava un prete, che pregava ad alta voce, anzi cantava. Quattro o cinque donne gli stavano vicino, facendosi continuamente il segno della croce.
    Qui i preti portano un lungo cappotto nero, con maniche molto larghe, che somigliano a quelle di un kimono giapponese. I capelli sono assai lunghi e scendono giù per le spalle, ed hanno una gran barba. Al collo portano una catena d'oro, con una gran croce anche d'oro.


    Teatri

    Leningrado, 3 settembre 1931. — Sono a Leningrado da ieri mattina. Il piacere di tornarvi non è stato così grande come avevo immaginato. Ormai mi sono abituato a Mosca, e desidero tornarvi presto, anche per poter avere notizie tue.
    Ieri fui all'inaugurazione del Congresso sismologico, e naturalmente vi incontrai la signora Tolmaceff, la figliuola del vecchio Karpinski, il presidente dell'Accademia delle Scienze. Sempre chiacchierona e piena di vita. Era felice di vedermi. Mi portò in giro proclamando a destra e sinistra che ero il « suo ragazzo », che mi trovavo sotto la sua protezione materna, ecc., ecc.
    Al Congresso sismologico ho trovato tedeschi e francesi, ma nemmeno un italiano: cosa strana, trattandosi di vulcani e terremoti.
    Ieri sera fui a teatro, all'Opera. Spesso vi ero stato invitato, ma ero talmente occupato che avevo dovuto sempre rifiutare. Ieri sera mi decisi ad accettare e ne fui contento, perchè lo spettacolo era veramente bello. Si rappresentava il « Principe Igor ». Artisti, orchestra, messa in scena, tutto era eccellente, ed un pubblico di facce intelligenti. Qui l'Opera non è fatta solo per i ricchi: un operaio ottiene uno dei migliori posti pagando un rublo o poco più. Noi ne abbiamo pagati sei.
    Mosca, II novembre 1932 (da Maria). — E un po' di tempo che non andiamo a teatro, perchè verso la fine di ottobre quando papà andò a comprare i biglietti, gli dissero che erano stati venduti tutti, fino al 12 novembre, ed in tutti i teatri di Mosca!
    Mosca, 14 novembre 1933 (da Maria).
    ..abbiamo un nuovo chauffeur; si chiama Sascia. E’ molto servizievole, ma anche un tipo curioso. Spesso mangia a casa, e quando ha finito va da Amabile in cucina, e comincia : « Amabile, pascaluista, daite mniè papirosu. Amabile, pasciàluista, daite mniè ciaiu ». (Amabile,per piacere,datemi delle sigarette.Amabile, per piacere, datemi del tè). Non ci pensa su due volte quando vuol chiedere qualche cosa.
    ... In questi giorni vado a teatro molto spesso. Sabato andai ad una rappresentazione di « Madame Butterfly ». Mi piacque moltissimo. Ho già visto due volte il «Barbiere di Siviglia », una volta «Faust », « Borls Godunof», e tante altre opere.


    Cortei

    Mosca, 9 novembre 1933. — Da ieri abbiamo neve e una temperatura di parecchi gradi sotto zero. Della neve sono contento; essa cade giù tanto fitta da coprire tutte le immondizie che si sono andate accumulando nel cortile. Per una casa che è proprio nel centro di Mosca, non si dovrebbe tollerare un cortile così sudicio.
    Vi sono stati tre giorni di festa, 6, 7 e 8, per celebrare l'anniversario della rivoluzione di ottobre. La mattinata del 6, sino alle tre del pomeriggio, fui occupato in una conferenza tecnica, a prepararmi alla quale avevo dovuto lavorare tutta la notte precedente fino alle cinque del mattino. Il giorno 7 trascorremmo quasi tutta la giornata in casa perchè circolare per le strade era difficilissimo. La parata che in queste occasioni ha luogo sulla Piazza Rossa richiama sempre interminabili cortei di persone. Senza esagerare,credo che per le strade vi fossero almeno due milioni di persone. Dalle nostre finestre si vedeva passare il corteo: uno spettacolo unico al mondo. Abbondavano i cartelloni con scritte, e poi grandi ritratti di Lenin, Stalin, Kaganovic ed altri capi. La gente era allegra, gaia, soprattutto i giovani che approfittavano delle soste del corteo per mettersi a danzare.
    La sera in automobile siamo andati in giro a vedere le luminarie, ma queste non avevano nulla di straordinario per uno che fin da fanciullo ne ha viste tante nel mezzogiorno d'Italia.
    Mosca, 7 novembre 1933 (da Maria). Oggi gran festa: l'anniversario della rivoluzione. Nelle strade fino alle sei di sera non si può nè camminare, nè andare in giro in automobile. Dalla finestra si vedono passare migliaia e migliaia di persone, con bandiere, stendardi, ecc. Ognuno vuol avere qualche cosa di rosso in mano, qualunque essa sia. Proprio in questo momento è passato un gruppo di gente che portava dei palloncini rossi.


    Mense collettive


    Mosca, 22 maggio 1932. — Ieri sera tenni una conferenza alla Casa degli scienziati. Mi avevano avvertito soltanto il giorno prima, e perciò non avevo avuto molto tempo per prepararla. Si protrasse fino a dopo le undici. Come al solito fu servito il tè, con sandwiches di caviale e siòmga.
    Questa degli scienziati è veramente una bella casa, con sale magnifiche, eleganti, tutte messe a nuovo. Vi è anche una gran sala da pranzo, dove i soci possono avere un buon pasto per due rubli. Mi sono iscritto anche io. La quota annua è di venticinque rubli.
    Nastia si dà gran pena per prepararmi bene da mangiare, e se non fa meglio è perchè nessuno glielo ha insegnato (prima lavorava in una fabbrica). Non è certo la roba che manca: nel magazzino vi è tanto da comprare. Del resto per evitarmi il fastidio di portare da casa la colazione, finirò col decidermi a prendere il pasto di mezzogiorno alla mensa comune degli operai ed ingegneri che è nel cortile dell'ufficio. Ogni pasto costa appena sessanta copeki, cioè presso a poco la nona parte di quello che è qui il salario medio giornaliero di un operaio. E vi è ancora chi si ostina a dire che qui la vita è carissima !


    Banchetti


    Mosca, 20 ottobre 1932 (da Maria). — Ho trascorso molto piacevolmente il giorno del mio compleanno. Papà da parecchio tempo desiderava invitare a casa gli ingegneri del suo ufficio, e così ha scelto questa occasione per farli venire. Immagina che ne ha invitati trenta, ma, per maggior consolazione di noi che dovevamo fare i preparativi per riceverli, ne sono venuti quaranta. Abbiamo dovuto comprare posate e bicchieri, perchè quelli che erano in casa non potevano bastare. Per fortuna costavano assai poco.
    Ester Josefovna ha avuto da fare tutto il giorno per preparare da mangiare a tanta gente. Devi sapere che in Russia, a una persona che inviti a prendere una tazza di tè (lo prendono dalla mattina alla sera), si intende che darai un mezzo pranzo: prosciutto, salame, caviale, formaggio, storione, aringhe, pasticcini, frutta e tè. Naturalmente tutta questa roba deve essere abbondantemente innaffiata da vino e vodka.
    Tutti i nostri invitati, appena arrivati, avevano un po' di soggezione, ma la voga e il vino la fecero presto passare. Mentre si mangiava, ogni cinque minuti si alzava qualcuno a fare un brindisi. Credo che ne abbiano fatto una cinquantina. Il più bello è che quando si è invitati a bere, bisogna farlo per forza, altrimenti si offendono. Dopo il pranzo (si può ben chiamarlo così) cominciarono a cantare e fare balletti russi molto divertenti. Poi presero papà e gli fecero fare « kacciat », cioè dieci o dodici persone lo sollevarono sulle braccia e lo buttarono parecchie volte in alto (così in alto che papà toccava il lume sospeso al soffitto), gridando « urrah ». Toccò anche a me ed a Ester Josefovna, che strillava come un'aquila. Anche De Martino ebbe la sua parte, ma da principio non riuscivano a sollevarlo…
    I russi sono molto allegri, soprattutto dopo aver bevuto vodka. Diedero fondo a tutte le nostre provviste di vermut, rum, ecc. E così passammo allegramente la serata.
    Mi dimenticavo di dirti che mi portarono un grandissimo mazzo di fiori, molto belli.
    Mosca, 18 luglio 1933 (da Amabile). Ieri abbiamo preso parte, in Dolgaprudnaja, ad una piccola festa tenuta dal personale della «Dirigiablestroi». Saranno stati in tutto una ottantina, fra ingegneri ed impiegati. Il pranzo non finiva mai. Prima caviale e burro, poi prosciutto, pesce, insalata russa (ma qui la chiamano insalata italiana 1); poi ancora pesce con balsamella. E, quando sembrava che fosse finito, si è cominciato da capo con brodo, carne di maiale, dolci, biscotti e fragole. A tavola vi erano moltissime bottiglie di vino, ma presto furono vuotate. Alle undici ed un quarto si pose termine al pranzo, perchè era l'ora del treno che doveva ricondurci a Mosca. La strada per giungere alla stazione era così infangata che bisognava farsi aiutare per camminare. Io ero accompagnata da un generale così brillo che non si reggeva bene in piedi. Parlava alquanto tedesco, e lungo la strada non fece che cantare e ridere, e faceva ridere anche gli altri.
    Mosca, 3 O luglio 1933. — Giorno di vacanza oggi, ed è tornato il sole, dopo due o tre giornate di pioggia, quasi fredde. Abbiamo perciò deciso di passare la giornata fuori, in campagna. Amabile, fin dal mattino presto, ha preparato da mangiare; ma Maria fa la poltrona a letto, ed Elisabetta ed il marito saranno pronti solo fra un'ora e mezzo. Ho quindi il tempo di scriverti.
    Amabile mi ha detto di averti già raccontato della festa a Dolgaprudnaja, ma certamente avrà omesso alcuni particolari, ad esempio che anch'essa bevve. In sostanza trascorremmo la serata molto allegramente, e Maria potette avere un'idea di ciò che è un pranzo tipico russo, che, preceduto com'è da una interminabile serie di antipasti di ogni genere, dura quattro o cinque ore almeno. La sola cosa che mancava era la vodka, ma in compenso vi erano vini di ogni sorta. Alcuni miei vicini, mentre mangiavano, bevevano cognac a guisa di vino !
    Durante tutto il pranzo vi furono, naturalmente, molti discorsi, e fui costretto a parlare anch'io. Cominciai in russo, ma mi accorsi che era troppo difficile andare avanti e proseguii in francese, incoraggiato dal commensale che mi sedeva di fronte e che, mentre parlavo, faceva grandi segni di consenso, come se capisse tutto ciò che andavo dicendo. Ma dopo, tornando insieme a Mosca, mi accorsi che di francese non intendeva nulla, e che i segni di approvazione gli erano inspirati soltanto dalla affettuosa disposizione verso di me suscitata dal vino che aveva bevuto.


    Nozze

    Mosca, 18 giugno 1934. — Stamattina abbiamo avuto in casa una coppia di sposi. Il fratello di Barbara è venuto a Mosca da Cascira con la fidanzata per sposarsi. Dopo la chiesa sono venuti a casa. La sposa vestita di bianco ed inghirlandata; lo sposo con l'abito di festa ed una grande coccarda all'occhiello della giacca. Li ho trovati nello studio, a sedere sul divano, impalati, seri seri. Quando li ho salutati, mi hanno appena risposto per la vergogna. Poi Amabile ha preparato la colezione: sprotti, silodka, della carne avanzata di ieri, vino, tè e biscotti. Li abbiamo lasciati soli con la madre, con Barbara e la piccola Lina. Dopo il vino hanno cominciato a parlare. Frattanto si suonava il grammofono, e così ci è stata un po' di allegria. Poi è cominciata la conversazione con Amabile, e ricordando il
    paese, i nonni ed altro, gli sposi si sono commossi fino alle lagrime. Finito di mangiare, gli sposi hanno ringraziato e, accompagnati da Amabile, si son messi in automobile per andare dal fotografo, e di là al giardino zoologico, che sembra li attragga molto. Alle quattro ripartiranno per Cascira.
    Mosca, í luglio 1936 (da Amabile). Ieri ci fu lo sposalizio di Barbara (*).
    Quando uscii nel pomeriggio, domandai a Margherita se sarebbe andata a festeggiare le nozze della figlia. Mi rispose di sì. Però, la sera, quando rientrai, trovai che era già a casa. Non mi disse nulla.
    Nell'atto di entrare nella piccola stanza sentii chiamarmi: « Tante, tante » (Zia, zia!).
    Accesi la luce e mi guardai attorno, ma non vidi nulla. « Chi è ?» domandai ad alta voce.
    « Tante, sono io, Barbara, sotto il letto ». « Ma che fai là sotto ? », chiesi. « Alzati ». « Mi vergogno di uscire ».
    Alla fine, cedendo alle mie insistenze, si decise a venir fuori, e mi spiegò l'accaduto.
    La mattina insieme col marito si era recata all'ufficio dove si registrano i matrimoni. Avevano fatto iscrivere i loro nomi,

    (*) Barbara era stata una nostra domestica ; al suo posto più tardi venne la madre, Margherita. Provenivano da Cascira nel Volga. Parlavano, oltre il russo, anche una specie di dialetto tedesco.

    poi si eran separati; e Barbara si era recata al lavoro.
    Nel pomeriggio, tornata a casa dall'officina aveva trovato il marito a gozzovigliare insieme con gli amici, per festeggiare le nozze. Erano tutti ubriachi, a tal punto che Barbara, spaventata, era fuggita e venuta a rifugiarsi a casa, da noi.
    Le dissi che doveva tornare dal marito; ma non voleva. Infine, a furia di insistere, riuscii a persuaderla, e se ne andò, accompagnata dalla madre.


    Vodka


    Mosca, 14 ottobre 1933 — Di vodka questi russi ne bevono tanta. L'altro ieri, a pranzo del professore di storia (il marito della cantante del Balsciói Tedtr, di cui ti scrissi) davanti ad ogni commensale era posta una piccola bottiglia di vodka, di forse un quarto di litro.
    La cosa più divertente è quando invitano uno dei commensali a berne. Mettono su un piatto un gran bicchiere colmo della bevanda, e poi uno di essi, che fa come da presidente (da noi a casa è sempre il professore Kaniceff a disimpegnare questa parte), intona una canzone :
    Cidruska majd seriébrennaja,
    na sólotom blúdie postddennaja, kamg cidru pit ? kamú ?
    (Calice mio d'argento, posto su un piatto d'oro, chi berrà la coppa ? chi la tracannerà ?)
    E designata per nome la vittima, la si fa alzare in piedi, mettendole in mano il piatto, mentre il coro di tutti i commensali intona il ritornello :
    Pèj do dna' Pèj do dna' !
    (Bevi fino in fondo, bevi fino in fondo !)
    Nè ristanno, fintantochè non si sia vuotato di un fiato tutto il bicchiere. E toccato anche me...


    Tempo di carestia a Mosca

    Mosca, 3 aprile 1934 (da Amabile). Se lei vedesse, Signora, il mercato ! Non posso tenere in mano per due minuti il pesce appena comprato, che subito dieci persone mi si affollano attorno a domandare come lo vendo o se voglio fare a cambio con pane. Certe donne vengono a vendere pezzi di carne, che fanno vedere sulla mano; è ormai verde, nera, eppure tutti la vogliono comprare. Qualcuno vende una cipolla, un altro un bicchiere di riso, un altro un piccolo pesce salato, un altro una pasta dolce. Qualche volta vien da ridere a vedere tanta gente mettersi attorno a quella pasta.
    Il più divertente sono le file che fa la gente. Per comprare la carne stanno talvolta in fila fino a quattrocento persone, due o trecento per il pane, quaranta o cinquanta per i giornali. Bisogna a volte stare ad aspettare quattro o cinque ore per comprare le patate. Per fortuna a me non occorre fare la fila; se no, si mangerebbe un giorno sì e tre no.
    Mosca, 4 marzo 1934 (da Amabile.) Ho comprato all'Insnab una bella tovaglia di lino, a colori, ricamata a mano, con sei salviettine, per centoquattordici rubli, che è come se fossero cinquantacinque lire. Ho comprato pure una gonna pieghettata per Barbara. L'ho pagata diciassette rubli.
    Mosca, 10 maggio 1934 (da Amabile). — Vi sono case dove alloggiano due o tre famiglie.
    Gli operai hanno ottocento grammi di pane al giorno, quelli che lavorano pesante; gli altri quattrocento grammi. Il sopravanzo lo vendono.
    Ogni operaio ha dodici chili di patate al mese, più un chilo di gruppi, che è una specie di farina gialla, e seicento grammi di zucchero. Barbara ha la metà di tutte queste cose.
    Si può comprare al mercato libero; ma chi ha il danaro per farlo ? Un operaio guadagna cento o centocinquanta rubli al mese, e stamattina ho comprato venti uova (fresche, però, bisogna dire) per sedici rubli, ed un chilo di carne per lo stesso prezzo. Un litro dí latte costa tre rubli, un po' di agli due rubli, le cipolle cinque rubli al chilo.
    Si vedono nella strada molti poveri e storpi. Bambini abbandonati, stracciati, sporchi, si attaccano ai tram e tante volte cadono sotto. Pochi giorni fa ne ho visto uno morto sotto il tram. Mi ha fatto piangere, ma d'altra parte pensavo: ha finito di soffrire.
    I tram sono sempre tanto affollati. A volte mi schiacciano talmente che mi sembra dover morire, specialmente adesso col caldo che fa e la puzza del sudore.
    Gli uomini bevono vodka con lo stomaco vuoto, e si ubriacano. Li si trova distesi sui marciapiedi come se fossero morti, e la gente ci sputa sopra.

    Una casa di riposo nel Caucaso

    Teberdà, 3 i agosto 1933 (da Maria). Partimmo da Mosca il giorno 24. Abbiamo viaggiato bene. I nostri posti nella vettura letto erano in alto. In basso era un giovanotto, che si è comportato molto educatamente. Ha aspettato di fuori che Elisabetta ed io fossimo a letto; poi ha chiesto permesso di entrare e si è messo a dormire. La mattina si è alzato per tempo, assai prima di noi, per lasciarci libere.
    Il viaggio è durato due giorni e mezzo. Abbiamo dovuto cambiar treno due volte. Nelle stazioni dove il treno si fermava avresti dovuto vedere le centinaia di persone, che aspettavano di trovare un posto ! Ci han detto che vi eran di quelli che stavano là da due o tre giorni !
    A Batalpashinsk prendemmo l'autobus per Teberdà che fa servizio quasi tutti i giorni. Partimmo alle tre e mezzo. In principio la veduta non era molto bella, ma due ore prima che giungessimo qui divenne interessante e piacevole : rassomiglia molto alla Svizzera ; solo che questi posti sono assai selvatici in confronto.
    Siamo arrivati ieri sera alle nove. Appena giunte ci condussero in un padiglione isolato a farci prendere una doccia e cambiare i panni che avevamo addosso. Poi ci accompagnarono in una camera all'ultimo piano, dove siamo come relegate. Tra poco dovremo recarci dal medico per la visita. Solo dopo che avranno constatato che siamo sane, l'isolamento cesserà e saremo ammesse nella Casa.
    Teberdà, 4 settembre 1933 (da Maria).
    Il posto è molto bello. Siamo a 1300 metri. Nei dintorni molte escursioni: un laghetto a quattro chilometri, poi una cascata. Siamo nel mezzo dei boschi.
    Nelle vicinanze vi sono altri edifizi, adibiti a sanatori. Nel bosco, proprio in mezzo agli alberi, ho visto dei lettini, con coperte rosse, con qualcuno a riposare e godere dell'aria e del sole.
    I medici e le altre persone sono con noi molto gentili. Quando arriva una lettera vengono subito a portarcela. Uno dei medici (il capo, credo) quando arrivammo non si mostrò affatto premuroso con noi; ma ora non sa più che fare per renderci gradevole il soggiorno. Mi domanda sempre se il vitto mi piace o no. Stamattina mi ha detto che, quando vi è il gelato, posso prenderlo anche due volte ed anche marmellata, se voglio, e le altre cose.
    Teberdà, 9 settembre 1933 (da Maria). Vuoi sapere come passiamo la giornata ? Alle sette suona la campana e bisogna alzarsi. Poi vi è la ginnastica. Alle otto colazione con carne, cetrioli, caffè, ecc.; ma di mattina non mi riesce proprio mangiare queste cose, ed allora mi danno due uova. All'una il pranzo, alle quattro e mezzo tè, ed alle otto cena. In conclusione si mangia troppo.
    Dopo cena vi sono talvolta concerti di musica e canto, e sono gli stessi ospiti ad organizzarli ed eseguirli, perchè devi sapere che le centocinquanta persone, che sono qui, quasi tutte sono artisti. Fra essi i cantanti ed i musicisti abbondano, e ve ne è di famosi, di quelli che in Russia vengono decorati col titolo di « Artista del popolo ». Uno di essi mi ha detto di conoscere personalmente Toscanini.
    Vi è anche un professore di geografia.


    Voli

    Mosca, 9 novembre 1934.— E' molto tempo che non ti scrivo; ma devi credere che non ho avuto un minuto di , calma per farlo, in mezzo a tanti pensieri per portare a termine la costruzione del dirigibile, e farlo volare. Tutto è andato bene nei primi due voli, sebbene le condizioni del tempo non fossero favorevoli. Dopo quattro mesi di lavoro intenso, ci siamo ora concesse due giornate di riposo. Domani si riprenderà il lavoro per portare a termine le esperienze. Sono sicuro che tutto andrà bene.
    Il dirigibile, di forma, è venuto più bello dell'Italia e credo che sarà altrettanto buono. I Russi sono molto contenti, ed io più di loro avendo visto alla fine il risultato di due anni di lavoro. Abbiamo fatto anche abbastanza presto. Tolti i mesi durante i quali l'anno scorso non si potè far nulla, fra progetto, costruzione e montaggio abbiamo impiegato quattordici mesi, meno di quanto impiegammo in Italia a progettare e costruire l'N1.

    A comandare il dirigibile ero io stesso, con un equipaggio del tutto nuovo, che per giunta si trovava impacciato nei movimenti dai paracadute che, secondo le regole di qui, tutti han dovuto indossare (ma indossare non è la parola giusta, perchè li portavano sul davanti). Ma tutto andò benissimo. Volammo per un'ora e quaranta minuti. Quando scendemmo a terra, era già buio, e sul campo non vi erano proiettori.
    L'altro ieri compimmo il secondo volo. Vi era vento forte, ma in compenso anche un bel sole che rallegrava lo spirito. Questa volta mi sentivo sicuro e tranquillo, anche perchè i paracadute erano scomparsi (naturalmente nel primo volo io l'avevo categoricamente rifiutato). Volammo bassi su Mosca, a duecentocinquanta o trecento metri di altezza. La piazza Rossa, il Kremlino, il fiume, la piazza Sverdlov, la piazza della Lubianca erano magnifiche. Mi apparvero subito le novità edilizie preparate durante la mia assenza. La piazza della Lubianca si è enormemente ingrandita, e la piccola strada che a sinistra della nostra casa portava al giardino è divenuta un viale larghissimo. Mosca dall'alto, sotto il sole, era molto bella, assai più bella di come la vedemmo insieme, quando la sorvolammo in aeroplano, in quella giornata così grigia di estate.
    Mosca, 19 maggio 1935. — Abbiamo fatto un altro bel volo : questa volta lontano, fino ad Arcangelo sul Mar Bianco dove, come sai, mi imbarcai, quattro anni fa, per il viaggio alla Terra di Francesco Giuseppe. Arcangelo dall'alto è molto meno brutta che vista da terra. Direi, anzi, che è bella.
    Partimmo da Dolgaprudnaja la sera del giorno 16, alle dieci. Il vento contrario, da quaranta a cinquanta chilometri all'ora, ci ostacolò il cammino, tanto che arrivammo ad Arcangelo, distante in linea d'aria da Mosca mille chilometri, soltanto il giorno dopo alle quattordici.
    Era ragionevole aspettarsi che al ritorno il vento ci sarebbe stato favorevole, ma manco a farlo apposta cambiò direzione e ce lo trovammo di nuovo contro. A Dolgaprudnaja giungemmo ieri alle due del pomeriggio, dopo quaranta ore di volo. Al suolo imperversava un vento a raffiche da dieci a dodici metri al secondo. Ma all'atterraggio tutto andò perfettamente bene.
    Un'ora più tardi ero a casa a Dolgaprudnaja. Amabile aveva preparato da mangiare. Ero stanco morto (durante il volo avevo potuto chiudere gli occhi solo per una ventina di minuti). Dopo pranzo mi misi a letto e dormii profondamente.


    Il naufragio del « Celiuskin »


    Mosca, 17 marzo 1934.— I giornali continuano ad annoiarmi con le interviste per il Celiuskin; ma io ho ben poco da dir loro. Fortunatamente le condizioni dei novanta naufraghi del Celiuskin sono molto migliori di quelle in cui ci trovavamo noi. Noi non avevamo quasi nulla. Essi, invece, riuscirono a sbarcare sui ghiacci tutte le provviste che avevano a bordo, e tutti gli attrezzi. Perciò non mancano di nulla.
    Qui fanno tutto ciò che possono per affrettare il salvataggio. Si son mossi rompighiacci, aeroplani e perfino dirigibili. Sono perciò convinto che fra un paio di mesi tutti saranno stati salvati. L'essenziale è di evitare l'errore, tante volte commesso nel caso nostro, di far volare sul pack, a soccorrere i naufraghi, un aeroplano per volta. Dovrebbero sempre mandarne due di conserva, di modo che, se l'uno è costretto a discendere, l'altro possa subito informare in qual luogo è disceso, perchè si vada in suo aiuto.
    Mosca, 12 aprile 1934. — Da ieri sono sotto l'impressione delle grandi notizie giunte circa il salvataggio del Celiusckin: sessanta persone, o presso a poco, salvate in pochissimi giorni, compreso Schmidt, il capo della spedizione. Sono rimaste sul pack, ancora ventotto persone, ma saranno presto salvate anch'esse, e così quest'altro grande dramma artico sarà chiuso.
    Gli aviatori russi si sono comportati da bravi, come sempre. E gente di fegato e generosa, che non sta a misurare i rischi. Bisogna anche dire che il Governo sovietico non ha risparmiato alcun mezzo per soccorrere le novanta persone rimaste sul pack. Diecine di aeroplani, un rompighiacci come il Krassin, e perfino due piccoli dirigibili sono stati messi in moto. Questi probabilmente arriveranno tardi, ma non importa: era giusto mobilitare tutti i mezzi disponibili, anche quelli che hanno poche probabilità di riuscire. L'aver mandato anche il Krassin prova come si sia pensato a tutto, perfino al caso che gli aeroplani falliscano o, per circostanze avverse, giungano troppo tardi.
    Ti dissi già come, appena giunto a Mosca, fui assalito dai giornalisti, che domandavano le mie impressioni, specialmente riguardo all'impiego dei dirigibili. Risposi che questi sarebbero giunti sul posto troppo tardi, quando già i naufraghi sarebbero stati portati a' salvamento dagli aeroplani. La previsione era facile, ed i fatti son venuti a darmi ragione.
    Come puoi immaginarti, in questi giorni rivivo il dramma della spedizione dell'Italia. La bravura di cui fanno mostra gli aviatori sovietici nel caso del Celiuskin, mi richiama alla mente quella di Penzo e di Maddalena. Penso con amarezza che se essi avessero avuto attorno un'atmosfera diversa da quella creata dalla preconcetta ostilità di Balbo, non vi sarebbe stato bisogno di aviatori stranieri e nemmeno del Krassin. Essi avrebbero portato a termine, da soli, l'impresa di salvare i nove italiani sperduti fra i ghiacci.
    Più specialmente rivivo gli orribili giorni vissuti sulla Città di Milano, dopo che, con una gamba ed un braccio rotti, vi fui portato dagli aviatori svedesi ad assumervi la direzione delle opere di soccorso. Schmidt, 1 capo della spedizione del Celiuskin, aveva annunziato che avrebbe lasciato per ultimo il campo, e qualche giornale scandinavo aveva già pubblicato la notizia, quasi per richiamare indirettamente alla memoria la mia partenza dal pack. Ma che cosa diranno ora che il Governo sovietico ha dato ordine di trasportare Schmidt, ammalato, mentre ancora ventotto persone sono sul pack ?
    Mosca, 18 giugno 1934. — Domani arriverannò quelli del Celiuskin, e tutta Mosca è in agitazione. Vi sarà una folla enorme. Oggi hanno insistito perchè dicessi qualche cosa alla radio.
    Mosca, 19 giugno 1934. — I naufraghi del Celiuskin sono giunti. Schmidt è stato accolto in trionfo, come un eroe.

    Edited by JDietzgen - 18/11/2013, 21:49
     
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