Perché la Russia era socialista

Francesco Alarico della Scala

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    Perché la Russia era socialista


    di Francesco Alarico della Scala



    Il tema della natura del modo di produzione esistente nell'URSS è una delle questioni più dibattute all'interno del movimento comunista. Nel corso della storia, si sono avvicendate innumerevoli scuole di interpretazione, correnti di pensiero e teorie sulla società sovietica: dalla teoria leninista-staliniana sul carattere socialista dell'URSS, all'analisi trotskista della burocrazia, alla teoria del collettivismo burocratico di Bruno Rizzi, alle posizioni di chi scorge, volgendo lo sguardo al Paese dei Soviet, nientaltro che un capitalismo di Stato. E' proprio di una delle varie forme di quest'ultima teoria che ci occuperemo in questa sede. Nello specifico, analizzeremo lo scritto dal titolo "Perché la Russia non è socialista", uno dei più citati dagli esponenti della cosiddetta Sinistra comunista. La nostra trattazione si svilupperà, in primo luogo, come un momento negativo, di critica delle tesi contenute nel nostro oggetto d'analisi; ma, poiché «il negativo è sempre anche positivo» [1], esporremo anche alcuni fondamenti della teoria marxista-leninista del socialismo, in opposizione a quella dei nostri avversari ideologici. Prima di cominciare, dobbiamo però fare un'importante premessa. Le forze nemiche sono dislocate in un arco temporale che si estende dal 1923 al 1970, anno in cui fu pubblicato l'articolo. Noi, invece, daremo loro battaglia su un terreno più ristretto: fino al 1953; anno, quest'ultimo, nel quale abbiamo scorto l'alba del salto qualitativo che i nostri avversari anticipano di 33 anni. Sicché, non faremo riferimento alla «villa per Kossighin» o ai «missili sulla Luna». Affronteremo il nemico non a Narva, bensì a Poltava [2].
    Che cosa ci promettono gli autori dell'articolo? E' presto detto: «Noi marxisti rivoluzionari smascheriamo il falso comunismo russo non per disgustare gli operai con la realtà, ma per dimostrare il contrario, che cioè le tare dell'attuale società russa sono comuni a tutti i regimi politici e sociali oggi esistenti, perché tutti - Russia compresa - sono capitalisti». Vediamo ora che cosa mantengono.

    Scambio, denaro, retribuzione e socialismo

    Nel primo capitolo, dopo il consueto elenco degli elementi caratteristici del capitalismo (denaro, salario, accumulazione del capitale), si conclude: «È dunque una menzogna infame pretendere che una società meriti il nome di socialista quando nel suo seno esistono il denaro scambiabile contro forza lavoro e il salario grazie al quale gli operai si procurano i prodotti necessari al sostentamento proprio e delle loro famiglie, mentre l'accumulazione di valori resta proprietà delle imprese o dello Stato. Tale è appunto oggi la società russa». All'inizio del secondo capitolo, si afferma che il «mezzo previsto dal marxismo» per eliminare il lavoro salariato è «il sistema dei buoni di lavoro» e si annuncia una successiva spiegazione di esso nel prosieguo dell'articolo. Tuttavia, malgrado tale assicurazione, dobbiamo fare ai nostri lettori la spiacevole comunicazione che essa è rimasta lettera morta e che, fino alla fine dello scritto, non v'è più il minimo accenno al sistema dei buoni di lavoro. Questa inadempienza non è affatto casuale; infatti, un'ulteriore esposizione della teoria marxista della retribuzione nel socialismo, avrebbe inesorabilmente condotto i nostri avversari a tirarsi una tremenda zappata sui piedi, tanto violenta da spezzare l'apparentemente impenetrabile corazza del loro dogma fondamentale.
    La retribuzione nel socialismo viene teorizzata da Karl Marx, nella sua forma più compiuta, nella ”Critica del programma di Gotha”. Ivi è esposto il famoso sistema dei buoni di lavoro o scontrini: ogni lavoratore presta una data quantità (tempo) di lavoro alla società e ne riceve in cambio uno scontrino che gli dà il diritto di ottenere una parte del prodotto sociale proporzionale alla quantità di lavoro da lui erogata, astrazion fatta dalle varie detrazioni. Dopo aver illustrato questo meccanismo, Marx osserva: «Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali» [3]. Blasfemia!, strillerebbero i nostri avversari, se non conoscessero l'autore di una simile bestemmia. E' precisamente qui che si scorge il loro sottile stratagemma: passino pure lo scambio di valori uguali e le detrazioni, ma non il denaro; mantenete il «diritto borghese» [4] e le detrazioni, ma, per carità, sostituite il denaro con lo scontrino, e il socialismo funzionerà a meraviglia! E costoro hanno anche il coraggio di rimproverare Stalin per l'introduzione dello scambio in natura nei colcos! Si ha ora l'impressione di dialogare non con dei sedicenti marxisti rivoluzionari, ma con gli eredi del Marchese di Forlipopoli [5]. Ma andiamo avanti. Marx prosegue precisando: «Contenuto e forma sono mutati, perché nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali» [6]. L'operaio sovietico, erogata la sua quantità di lavoro, riceveva in cambio del denaro, con cui poteva ottenere unicamente dei beni di consumo, e non dei mezzi di produzione (si ricordi che stiamo combattendo a Poltava). Per conseguenza, i singoli possessori di forza-lavoro non potevano che realizzare la riproduzione semplice, contrariamente a quanto accade in regime capitalista. Poiché impieghiamo comunque il denaro, invece che lo scontrino, Stalin, nei ”Problemi economici del socialismo nell'U.R.S.S.”, precisa che i processi economici inerenti ai mezzi di produzione conservano la forma mercantile, ancorché essi non vengono venduti, ma allocati. Dei colcos e delle loro questioni particolari tratteremo in seguito.
    Avendo constatato che sostituendo la banconota con lo scontrino — fermo restando il diritto borghese — , secondo i nostri avversari, il capitalismo magicamente si trasforma in socialismo, e avendo dimostrato il carattere antidialettico di una simile impostazione, possiamo ora esaminare la questione della differenziazione dei "salari" nel socialismo. I nostri avversari dichiarano: «Il socialismo abolisce la gerarchia delle remunerazioni» e ripetono la stessa idea molte volte. Quindi, secondo loro, nel socialismo, «il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società», come stava scritto nel programma di Gotha criticato da Marx. Dunque, da quanto dicono, sembrerebbe che tra gli obbiettivi dei comunisti vi sia l'instaurazione della parificazione assoluta dei "salari". E' questo uno dei principali luoghi comuni sfruttati dalle classi dominanti per allontanare i proletari dalla dottrina comunista, agitando lo spettro del tremendo disincentivo all'istruzione e alla qualificazione che deriverebbe da questo assurdo provvedimento. Perciò, i «marxisti rivoluzionari», sostenendo di voler combattere le menzogne sul comunismo, non hanno niente di meglio da fare che appropriarsi avidamente di queste stesse falsità, diffuse dai nemici di classe, e scriverle a grandi caratteri sulle loro bandiere. Purtroppo per loro, noi marxisti-leninisti non accetteremo mai una simile revisione e storpiatura del marxismo, e abbiamo l'inderogabile dovere di difendere l'idea di socialismo, così come l'avevano teorizzata Marx ed Engels, come l'hanno messa in pratica Lenin e Stalin. Marx spiega: «Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro» [7], nel socialismo. E Lenin precisa che nel socialismo occorre stabilire «la ripartizione dei beni di consumo "secondo il lavoro" (e non secondo i bisogni)», secondo il principio «"a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti"» [8]. Questa è la teoria marxista della retribuzione nel socialismo. Alla luce di ciò, che bisogno avevano i nostri avversari di riesumare la vecchia e consunta formula di Dühring sulla "eguaglianza quantitativa, se non qualitativa, del consumo" e il suo "principio universale di giustizia", se Marx, oltre un secolo fa, li considerava già come irrimediabilmente superati? Ora i nostri lettori possono vedere chiaramente dove conduce la follia antistalinista: criticando Stalin, si calpestano — possibilmente di nascosto — i postulati della teoria rivoluzionaria di Marx, Engels e Lenin; si sostituiscono le conclusioni scientifiche del marxismo con i volgari luoghi comuni sul comunismo, messi in giro dal capitalismo, in modo da screditare la teoria rivoluzionaria agli occhi delle masse e dare così una mano alle classi dominanti nel perpetuare lo status quo. E non si tratta, come si potrebbe pensare, della pur onnipresente confusione tra socialismo e comunismo, ma di una vera revisione del marxismo, poiché nemmeno nel comunismo, la remunerazione viene livellata, ma regolata secondo i bisogni di ogni membro della società. Per cui, la misura proposta dai nostri avversari non corrisponde a nessun modo di produzione che il marxismo abbia mai teorizzato. Si tratta invece di un goffo tentativo di seppellire Marx e riesumare le teorie di Dühring e di Lassalle. Per dirla con l'espressione di Lenin, è lo stesso postulato, lo stesso vecchio rottame presentato sotto un’insegna un po’ ripulita e riverniciata.
    Ancora un'osservazione. L'ultima obiezione possibile, tipicamente trotskista [9], è quella secondo cui gli staliniani avrebbero ingannato i lavoratori sovietici, attribuendo un carattere socialista a ciò che Marx ed Engels riconoscevano come diritto borghese (remunerazione secondo il lavoro). Si tratta, ancora una volta, di un attacco a Stalin, in realtà diretto contro Lenin, il quale, riferendosi alla prima fase della società comunista, scriveva: «"Chi non lavora non mangia": questo principio socialista è già realizzato; "a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti": quest'altro principio socialista è anche esso già realizzato» [10]. Un gran ingannatore di operai, questo Vladimir Ilic, non c'è che dire! In realtà, Lenin e Stalin classificarono la remunerazione secondo il lavoro come principio socialista in quanto essa, pur essendo ancora diritto borghese, caratterizza la prima fase della società comunista, comunemente detta socialismo.

    Accumulazione e "salario" nel socialismo

    Sfondata la schiera nemica, non ci resta che disperdere le truppe in fuga. Partendo dalla stessa premessa di prima — dallo scontrino come amuleto capace di trasformare istantaneamente il capitalismo in socialismo, secondo i nostri avversari —, possiamo ora dedicarci all'analisi della riproduzione allargata nel socialismo. Gli autori dell'articolo ci raccontano quanto segue: «Il peggior crimine di Stalin nei confronti del proletariato, crimine anche più mostruoso dell'imposizione ai lavoratori russi di una schiavitù indescrivibile e dell'abbandono degli operai di Occidente alla mercé della loro borghesia "democratica", è di aver fatto del mezzo invocato da Lenin uno scopo e di aver trasformato una via storica in uno stadio finale, totalmente assimilando il socialismo al capitalismo, imbrogliando a tal punto le carte che, per gli imbecilli e i profittatori che incensano Lenin calpestandone l'insegnamento, il compito del socialismo è divenuto, punto per punto, l'accumulazione del capitale!». Tralasciando l'alterigia di coloro che ad un tempo accusano Stalin di «crimini contro il proletariato» e ingannano questo stesso proletariato con le loro formule eclettiche e modellate sulle esigenze della borghesia (delle questioni storiche ci occuperemo in seguito), tratteremo ora dell'interessante questione dell'accumulazione nel socialismo.
    «Qualunque forma sociale abbia — scrive Marx —, il processo di produzione deve essere continuo, cioè ripercorrere periodicamente sempre gli stessi stadi. Una società non può cessare di produrre, più che non possa cessar di consumare. Considerato in un nesso continuo, e nel flusso costante del suo rinnovarsi, ogni processo sociale di produzione è quindi, nello stesso tempo, processo di riproduzione» [11]. Marx si riferisce qui, con ogni evidenza, alla riproduzione in generale, sia a quella semplice che a quella allargata. La riproduzione allargata comprende al suo interno anche l'accumulazione; più specificamente, l'accumulazione si verifica quando il reddito (plusvalore, nel capitalismo) viene investito nella stessa attività produttiva da cui è scaturito. I nostri avversari, a questo punto, potrebbero obiettare che Marx non si riferiva qui all'accumulazione, ma alle altre forme della riproduzione allargata. Ma Marx li ha smentiti in anticipo, affermando che, prima della remunerazione dei lavoratori, dal prodotto sociale «si deve detrarre:

    «Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati». E qui siamo ancora al livello della riproduzione semplice; ma non è tutto:
    «Secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione». Cioè, riproduzione allargata in forma di accumulazione. Infine:
    «Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc». Ossia, le altre forme della riproduzione allargata.

    Questa è la teoria marxista. Tale è la sua messa in pratica da parte di Lenin e di Stalin. Che cosa ne pensano i nostri avversari? Essendo contrari alla accumulazione socialista, che vedono come un retaggio della vecchia società, sono altresì contrari alla sua fonte: il "plusvalore", ovvero le detrazioni di cui parla Marx. Qualora conferissimo validità totale alla nostra premessa, dovremmo, a questo punto, apportare delle correzioni alla immagine che avevamo del socialismo secondo i nostri avversari. In effetti, dopo le ultime dimostrazioni, questa immagine è divenuta assai più nitida e abbiamo dunque la possibilità di metterne a fuoco le caratteristiche essenziali. Nella società socialista dell'avvenire, teorizzata dagli autori dell'articolo, si useranno gli scontrini al posto di monete e banconote, tutti avranno la stessa remunerazione, che, tra l'altro, comprenderà anche ciò che nel capitalismo costituisce il plusvalore. Ma, come ha ampiamente dimostrato Engels [12], questo sistema conduce inevitabilmente alla restaurazione del capitalismo; perciò, gli epigoni dei «marxisti rivoluzionari» dovranno accontentarsi di eliminare soltanto l'accumulazione, per cui: nel socialismo, vi saranno comunque delle detrazioni dai "salari" dei lavoratori — tutti rigorosamente uguali e pagati tramite scontrini —, affinché la società possa mettere in atto la riproduzione semplice, ma la società non dovrà mai usarle per accumulare. Risultato? Il livello dello sviluppo delle forze produttive resterà sempre uguale, senza la minima possibilità di progresso. Ecco in quale aspetto, assai poco seducente, i nostri avversari rappresentano il socialismo, in modo da screditarne l'immagine agli occhi dei lavoratori. Per di più, queste non sono affatto idee originali. Bensì provengono dalle abituali fonti di riferimento dei «marxisti rivoluzionari»: a) Dühring: «Sulla determinazione del tasso di questo salario dell'avvenire Dühring ci dice solo che anche qui, come in tutti gli altri casi, si scambia "eguale lavoro con eguale lavoro". Per un lavoro di sei ore deve essere pagata una somma di denaro che incorpora in sé parimente sei ore lavorative» [13]; b) Lassalle: «“L’emancipazione del lavoro richiede [...] l’organizzazione collettiva del lavoro complessivo con giusta ripartizione del frutto del lavoro.”» [14]
    Siamo dunque daccapo: per criticare Stalin, si rinnegano i postulati fondamentali della teoria rivoluzionaria di Marx, Engels e Lenin e si ripescano, dalla palude dell'idealismo, le vecchie formule contro cui il socialismo scientifico ha sempre lottato. Ancora una precisazione riguardo alla definizione scientifica del "salario" nel socialismo. N. Bucharin scrisse giustamente: «Nel sistema della dittatura del proletariato, gli operai ricevono la loro parte del prodotto sociale, e non un salario» [15]. Lenin, a sua volta, annotò il seguente commento accanto a questa proposizione: «Esatto. Assai ben detto e senza ambiguità» [16]. Tale è la definizione più precisa del tipo di remunerazione esistente nel socialismo, mutata nella forma e nel contenuto, rispetto al salario percepito dagli operai in regime capitalista.

    Stalin era un gran copiatore?

    Abbiamo così esaurito le questioni economiche. Passiamo ad occuparci di quelle storiche. I nostri avversari hanno evidentemente un'opinione molto bassa di Stalin, lo reputano addirittura incapace di una produzione teorica "propria" ed indipendente (tralasciamo qui il fatto che, da un punto di vista dialettico, simili produzioni, propriamente, non esistono). In particolare ci raccontano di come il "centro" staliniano, a differenza delle opposizioni, negli anni Venti «ha già rotto con la rivoluzione internazionale e ha quindi, dal punto di vista politico, un solo scopo: schiacciare coloro che le sono rimasti fedeli», utilizzando «alternativamente questa o quella misura ispirata dalla "sinistra" o dalla "destra"», poiché «non ha una sua posizione, limitandosi ad attingere a destra o a sinistra quanto più gli conviene per la sua permanenza al timone dello Stato» e «ben poco si curava della giustezza delle tesi in contrasto», ecc. ecc. La tesi di fondo, presa da Trotskij (perlomeno esplicitamente, questa volta), è quella secondo cui Stalin non avrebbe mai avuto un proprio programma, ma si fosse dedicato a copiare da Bucharin nel periodo della Nep e da Trotskij stesso durante il primo piano quinquennale.
    Trotskij propose l'industrializzazione nel 1924 e Stalin adottò sotto banco questa tesi nel 1928-29: questa è la dura sentenza. L'avversario ideologico qui, evidentemente, «lavora con puro materiale intellettivo che, senza accorgersene, egli crede prodotto dal pensiero, non preoccupandosi di andare in cerca di un'origine più remota, indipendente dal pensiero» [17], non tiene conto, cioè, delle diverse circostanze del 1924 e del 1928-29. Quali erano queste condizioni materiali? «Nella primavera del 1926 — scrive il trotskista Ted Grant — oltre il 60% del grano in vendita era nelle mani del 6% dei kulak» [18]. Se si presta fede a questo dato, considerando che dal 1924 al 1927 vi fu una ripresa dell'agricoltura, nel 1924 la situazione doveva essere ancora peggiore, con l'economia dominata dai kulak e con una scarsissima diffusione delle organizzazioni di partito tra i contadini. Un attacco frontale contro i kulak sarebbe stato, in simili condizioni, il più pernicioso avventurismo. Tuttavia: «Negli anni 1926-1927 l'opposizione trotzkista-zinovievista impose con forza al partito una politica di immediata offensiva contro i kulaki. Il partito però non si avviò verso questa pericolosa avventura, poiché esso sapeva che le persone serie non possono permettersi di giocare all'offensiva» [19].
    Nel 1929 la situazione era ben diversa: «Oggi da noi si ha una sufficiente base materiale per colpire i kulaki, per piegare la loro resistenza, per liquidarli come classe e per sostituire la loro produzione con la produzione dei colcos e dei sovcos. È noto che nel 1929 la produzione di grano, nei colcos e nei sovcos, costituiva non meno di 400 milioni di pudy (200 milioni di pudy in meno della produzione complessiva dell'economia kulak nel 1927). È noto - poi che nel 1929 i colcos e i sovcos hanno prodotto grano commerciale per più di 130 milioni di pudy (cioè più che il kulak nel 1927). È noto infine che nel 1930 la produzione complessiva di grano dei colcos e dei sovcos sarà non meno di 900 milioni di pudy (cioè più che la produzione complessiva del kulak nel 1927), mentre essi produrranno grano commerciale per non meno di 400 milioni di pudy (cioè incomparabilmente più che il kulak nel 1927)» [20]. Dunque, Trotskij ha proposto una misura avventurista in condizioni inadeguate; Stalin ha messo in atto una politica simile in condizioni più confacenti. Il giudizio del nostro avversario ideologico è comunque spietato: Stalin copiava da Trotskij. Questo avversario non tiene conto delle mutate condizioni materiali, «egli sembra assolutamente ignorare il noto postulato del marxismo secondo cui la medesima idea, in diverse condizioni storiche concrete, può essere ora reazionaria, ora progressiva» [21]. Si trova quindi ad operare unicamente con delle ombre ideologiche, scollegate dalla vita reale. Ben diversa è l'analisi marxista: «La linea seguita da Stalin assomigliava, sotto molti aspetti, a quella preconizzata da Trotski nel 1924. Questo comunque non dava ragione retrospettivamente a Trotski, come sostengono i suoi seguaci, il cui pensiero è altrettanto atemporale di quello del loro maestro, perché le condizioni del 1929 non erano per nulla simili a quelle del 1924. Nel constatare che Stalin “plagiava” il suo programma (Lenin avrebbe fatto lo stesso nei confronti di quello dei socialisti-rivoluzionari) (...) Trotski decise di rivedere completamente le proprie concezioni. (...) Egli condannò la liquidazione dei kulaki e affermò che i kolcos (…) si sarebbero sfaldati da sé per il fatto che non possedevano macchine moderne» [22].
    A causa del viscerale antistalinismo, si degenera, per l'ennesima volta, nell'antimarxismo, omettendo di applicare il materialismo storico nell'analisi delle teorie e delle idee. L'analisi degli autori dell'articolo sarà pure dialettica, ma si tratta di dialettica calata dall'alto sulla materia, che non parte, cioè, dalle circostanze storiche materiali, che si trovano invero piegate alle esigenze della ideologia dei nostri avversari. Questa non è dialettica materialistica, bensì dialettica hegeliana, apriorismo. Ancora una volta, il livore antisovietico conduce i nostri avversari (che, come abbiamo mostrato nei paragrafi precedenti, si sono dimostrati dei copiatori d'eccezione) nella palude dell'idealismo, irrevocabilmente superato da Marx ed Engels.
    In stretta connessione con l'immagine di uno Stalin copiatore, è la rappresentazione di uno Stalin empirista e sprovveduto, che si spaventa per la resistenza dei kulak nel 1928 e inverte completamente la propria linea politica. In particolare, gli autori dell'articolo ci riferiscono che, durante il 1928, «il Comitato centrale agisce sotto l'effetto del panico e del più grossolano empirismo». Anche qui, ci si richiama apertamente a Trotskij. Si cerca inoltre di dare una base «materialistica» alle proprie tesi, chiedendosi lapidariamente se«si può dire, come fanno in tutte le lingue i catechismi con l'imprimatur staliniano, che [la campagna di rifornimento di grano del 1928] si tratti di una linea di condotta saggiamente elaborata?». Purtroppo per i nostri avversari, i documenti disponibili confutano le loro tesi. Alla fine del 1925, Stalin diceva: «Due parole sulla sottovalutazione del pericolo dei kulak... Da noi si sviluppa l'industria socialista e si svolge una lotta fra questa industria e il capitale privato. Chi avrà il sopravvento? Attualmente prevalgono gli elementi socialisti. Noi sottometteremo sia il kulak che il capitalista privato della città. Ma per ora è un fatto che il kulak si sviluppa e siamo ancora lontani dall'averlo battuto sul terreno economico. È incontestabile che il kulak raccoglie le sue forze, e chi non si accorge di questo, chi dice che queste sono sciocchezze, che il kulak è uno spauracchio, mette il partito di fronte al pericolo di venir meno alla vigilanza e di restare disarmato nella lotta contro il kulak, nella lotta contro il capitalismo, poiché il kulak è l'agente del capitalismo nelle campagne... Questa deviazione è una deviazione che impedisce di tenere il partito permanentemente pronto alla lotta, che disarma il partito nella sua lotta contro gli elementi capitalistici; questa deviazione, com'è noto, è stata condannata da una decisione del Comitato Centrale del partito» [23].
    Vediamo qui uno Stalin tutt'altro che empirista, che aveva perfettamente previsto le difficoltà del 1928, derivate dalla diminuzione relativa della potenza dei kulak e dal suo accrescimento in termini assoluti. Su questa base, come dicono gli stessi autori dell'articolo, in pochi mesi «le riserve di grano bene o male sono ricostituite». Dunque, sì, si trattava proprio «di una linea di condotta saggiamente elaborata». Le supposizioni dei nostri avversari, pur ammantate d'un apparente materialismo, risultano così materialisticamente sconfessate, tramite un documento del dirigente sovietico che essi insultano così rumorosamente, ma che, a quanto pare, non conoscono affatto. Il meccanismo che rende socialmente attive, in funzione di interessi di classe, queste loro supposizioni è identico a quello degli stereotipi borghesi_: nella loro inesattezza, queste ipotesi influenzano la coscienza degli uomini, in quanto più conosciute rispetto ai documenti che le smentiscono.

    Il concetto di capitalismo di Stato in Lenin

    Nel quinto capitolo del loro articolo, i nostri avversari si dilungano in una trattazione del concetto di capitalismo di Stato, citando anche Lenin. Come viene inteso da loro il capitalismo di Stato? Essenzialmente, lo considerano come proprietà statale di tutti i mezzi di produzione e gestione capitalistica dell'economia (con il mantenimento del lavoro salariato, dell'estrazione di plusvalore, ecc.). Ci siamo già occupati, i classici del marxismo alla mano, dell'erroneità di questo concetto e intendiamo ora esaminare il modo in cui esso veniva inteso da Lenin, al quale i nostri avversari si richiamano. Al III Congresso del Comintern, Lenin disse: «Ci troviamo qui di fronte al problema più difficile. L'imposta in natura significa, s'intende, libertà di commercio. Il contadino, dopo aver pagato l'imposta in natura, ha il diritto di scambiare liberamente quel che gli rimane del suo grano. Questa libertà di scambio significa libertà per il capitalismo. Noi lo diciamo francamente e lo sottolineiamo. Non lo nascondiamo affatto. Le nostre cose andrebbero male se pensassimo di nasconderlo. Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato» [24]. Vladimir Ilic parla qui del capitalismo di Stato riferendosi non alle imprese nazionalizzate, bensì alla libertà di commercio garantita ai contadini nel periodo della Nep.
    I nostri avversari basano la loro tesi sulle parole di Lenin, da loro citate, nella Imposta in natura: «In Russia oggi predomina proprio il capitalismo piccolo borghese, che conduce sia al grande capitalismo di Stato sia al socialismo attraverso la stessa strada, una strada che passa per la stessa stazione intermedia e che si chiama "inventario e controllo da parte di tutto il popolo sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti"». Sembrerebbe, quindi, che Lenin intendesse il capitalismo di Stato come inerente alle imprese nazionalizzate, contrariamente a quanto disse al Congresso del Comintern. Questa parvenza viene usata dagli autori dell'articolo per legittimare la propria interpretazione del concetto di capitalismo di Stato. Tuttavia, sempre di fronte al III Congresso dell'I.C., Lenin disse ancora: «Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero. Pur non snazionalizzando nulla, cederemo ai capitalisti stranieri miniere, boschi, pozzi petroliferi, per ottenere in cambio prodotti industriali, macchine, ecc, per ricostruire in tal modo la nostra industria» [25]. Oltre alla fondamentale distinzione tra capitalismo di Stato borghese e capitalismo di Stato sotto il controllo del proletariato, Lenin non parla del capitalismo di Stato in senso bordighista. Egli precisa che le concessioni al capitale straniero non vengono snazionalizzate e rientrano dunque nell'"inventario e controllo da parte di tutto il popolo sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti", che, proprio per questo, è comune sia al capitalismo di Stato (proletario) che al socialismo. Nel capitalismo di Stato viene consentita la ripresa delle classi borghesi e si elargiscono concessioni al capitale straniero, ma la proprietà dei mezzi di produzione rimane statale; nel socialismo vengono invece modificati i rapporti di produzione.
    Un'ulteriore precisazione, riguardo al concetto leninista di capitalismo di Stato, è presente in uno degli ultimi scritti di Lenin, Sulla cooperazione, in cui Vladimir Ilic sostiene che le concessioni sono «indubbiamente nelle nostre condizioni un puro tipo di capitalismo di Stato» [26] e che, prescindendo da esse, «nelle nostre condizioni la cooperazione coincide di regola completamente col socialismo». Egli è ancora più esplicito quando asserisce: «Ora abbiamo il diritto di dire che il semplice sviluppo della cooperazione s'identifica per noi (salvo la "piccola" riserva sopra indicata) con lo sviluppo del socialismo». La "riserva" riguarda ancora una volta le concessioni al capitale straniero. Lenin è preciso nello spiegare i motivi di questo suo punto di vista sulle cooperative: «Nel nostro regime attuale le aziende cooperative si distinguono dalle aziende capitaliste private in quanto sono aziende collettive, ma non si distinguono dalle aziende socialiste, perché sono fondate sulla terra e sui mezzi di produzione che appartengono allo Stato, cioè alla classe operaia». Le cooperative, a meno che non siano date in concessione o siano gestite da kulak, sono da considerarsi come imprese socialiste, in quanto rientrano nell'"inventario e controllo da parte di tutto il popolo sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti". Su questa base, Lenin può legittimamente affermare: «Nelle condizioni di un massimo raggruppamento della popolazione nelle cooperative, si arriva automaticamente a quel socialismo, che prima aveva suscitato un'ironia legittima, dei sorrisi, del disprezzo fra le persone convinte a giusta ragione della necessità della lotta di classe, della lotta per il potere politico, ecc». Avanzando nel solco scavato da Marx, con l'ammissione del diritto borghese nel socialismo e con un approccio materialistico, che parte dalla realtà concreta della transizione, Lenin introduce l'idea che la cooperazione, nelle condizioni dei paesi arretrati, sotto il regime di dittatura del proletariato, con la proprietà statale della terra e dei mezzi di produzione fondamentali, sia un elemento dell'economia socialista.
    Concludendo il capitolo dedicato ai colcos, i nostri avversari proclamano solennemente: «Il "collettivismo" rurale della Russia non è dunque socialista, ma cooperativo». A dispetto di tutta l'evidenza sopra illustrata, essi si allontanano a gambe levate dai postulati del leninismo. «...siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale», scrive Lenin. E' proprio questo cambiamento che i nostri avversari non hanno saputo cogliere, assorti dal disprezzo verso il marxismo creativo di Lenin e di Stalin.
    Riguardo al concetto leninista di capitalismo di Stato, anche Trotskij spiegò giustamente che “Lenin ha effettivamente applicato il termine «capitalismo di stato», non all'economia sovietica nel suo insieme, ma soltanto ad un certo settore di essa: alle concessioni straniere, alle società miste industriali e commerciali e, in parte, alle cooperative contadine, formate in larga misura dai kulaki, controllate dallo stato. Tutti questi elementi sono indiscutibilmente capitalistici, ma dal momento che sono sottoposti al controllo dello stato e funzionano addirittura come società miste con la sua partecipazione diretta, Lenin definì condizionalmente o, secondo la sua espressione, «tra virgolette», tali forme economiche come «capitalismo di stato». La valenza condizionale di questo termine dipendeva dal fatto che si trattava di uno stato proletario e non borghese; le virgolette dovevano sottolineare proprio questa differenza di non poco conto. Ma nella misura in cui lo stato proletario tollerava il capitale privato e gli permetteva, entro limiti ben precisi, di sfruttare gli operai, esso proteggeva sotto una delle sue ali dei rapporti borghesi. In questo senso strettamente circoscritto si poteva parlare di «capitalismo di stato»” [27]. Questa esposizione del concetto leninista di capitalismo di Stato coincide interamente con quella di Stalin, risalente al 1925: «Vorrei dire due parole sul capitalismo di stato e sull'industria di stato, la quale è di tipo socialista, allo scopo di dissipare i malintesi e la confusione che si sono creati nel partito attorno a questa questione. Può la nostra industria di stato essere definita capitalismo di stato? No. Perché? Perché il capitalismo di stato, nelle condizioni della dittatura del proletariato, è un'organizzazione della produzione nella quale sono rappresentate due classi: la classe sfruttatrice, che detiene i mezzi di produzione, e la classe sfruttata, che non detiene i mezzi di produzione. Il capitalismo di stato, qualsiasi forma particolare esso rivesta, dev'essere sempre capitalistico per la sua essenza. Quando Ilic analizzava il capitalismo di stato, si riferiva innanzi tutto alle concessioni. Prendiamo le concessioni e vediamo se in esse sono rappresentate due classi. Sì, sono rappresentate due classi. Abbiamo quella dei capitalisti, cioè dei concessionari che sfruttano e detengono temporaneamente i mezzi di produzione, e quella dei proletari che è sfruttata dai concessionari. Che qui non esistano elementi di socialismo risulta chiaro anche solo dal fatto che in un'impresa concessionaria nessuno oserebbe andare a lanciare una campagna per l'aumento della produttività del lavoro, perché tutti sanno che l'impresa concessionaria non è socialista, è estranea al socialismo. Prendiamo un altro tipo d'impresa, l'impresa statale. È un'impresa del capitalismo di stato? No. Perché? Perché non vi sono rappresentate due classi, ma una sola, la classe degli operai che mediante il suo stato detiene gli strumenti e i mezzi di produzione e che non è sfruttata, poiché il massimo possibile di ciò che si ottiene nell'azienda oltre la somma destinata ai salari, è impiegato per sviluppare ulteriormente l'industria, cioè per migliorare la situazione di tutta la classe operaia nel suo insieme. Si potrebbe dire che questo non è ancora socialismo integrale, se si tengono presenti le sopravvivenze di burocratismo che sussistono negli organismi che amministrano le nostre imprese. Questa osservazione è giusta. Ma essa non infirma il fatto che l'industria di stato è un tipo di produzione socialista. Esistono due tipi di produzione: quello capitalistico - compreso il capitalismo di stato - in cui vi sono due classi e nel quale la produzione si svolge per il profitto del capitalista; e un altro tipo, il tipo socialista di produzione, nel quale non esiste sfruttamento, i mezzi di produzione appartengono alla classe operaia e le aziende non lavorano per il profitto di un'altra classe, ma per estendere l'industria nell'interesse degli operai nel loro insieme...» [28]. E' chiaro che Lenin considerava come aziende capitalistiche di Stato non già quelle imprese gestite dallo Stato proletario, ma quelle gestite da membri delle classi reazionarie oppure date in concessione al capitale straniero. E' chiaro che il capitalismo di Stato, inteso in questo modo, è un fenomeno inerente soltanto al periodo della Nep, che non trova riscontro nell'economia sovietica dopo il primo piano quinquennale. Al contrario, i nostri avversari intendono come imprese capitalistiche di Stato, anche quelle sotto il pieno controllo dello Stato proletario; si richiamano a Lenin, ma hanno frainteso il suo punto di vista su questa faccenda, non hanno compreso che «il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico» [29].

    L'agricoltura sovietica

    Nell'articolo dei nostri avversari è dedicato ampio spazio alle questioni dell'agricoltura sovietica, dei colcos e dei sovcos, delle forme superiori della cooperazione. Abbiamo già parlato del punto di vista di Lenin sulla cooperativa agricola quale alfiere del socialismo nelle campagne ed abbiamo altresì mostrato come lo sviluppo di una solida base di colcos entro il 1929 costituisse la base, il punto di partenza, la premessa della collettivizzazione agricola. Se perfino Trotskij aveva sostenuto che «non si troverà verosimilmente nessuno disposto a ripetere il guazzabuglio liberale, secondo cui la collettivizzazione sarebbe stata interamente frutto della sola violenza» [39], per i nostri avversari le cose non stanno in questa maniera. Secondo loro, la collettivizzazione fu la soluzione «più spaventosa, barbara e reazionaria che si possa concepire», «nata da violenze quasi apocalittiche», avvenne «in un indescrivibile marasma di confusione, arbitrio e violenza»; e così via, in perfetto accordo con ogni interpretazione borghese che si rispetti. I nostri avversari si dogliono per la scarsità di macchine agricole e concludono così che, per la collettivizzazione, «nulla è pronto», al momento in cui fu lanciata. Le macchine agricole moderne sono, senza dubbio, un fattore molto importante per la collettivizzazione, ma non ne costituiscono una condizione imprescindibile. Come spiega Marx: «Come la forza d'attacco di uno squadrone di cavalleria, o la forza di resistenza di un reggimento di fanteria, è essenzialmente diversa dalla somma delle forze di attacco e resistenza sviluppate isolatamente da ogni singolo cavaliere o fante, così la somma delle forze meccaniche di operai isolati è diversa dalla potenza sociale che si sviluppa allorché molte braccia cooperano nello stesso tempo allo stesso lavoro indiviso: per esempio, allorché si tratta di sollevare un peso, di girare un argano, o di rimuovere un ostacolo dal proprio cammino. Qui l'effetto del lavoro combinato non potrebb'essere prodotto dal lavoro di un singolo; o lo potrebbe solo in un tempo molto più lungo o su scala infinitesima. Siamo qui di fronte non solo all'aumento della forza produttiva individuale mediante la cooperazione, ma alla creazione di una forza produttiva che, in sé e per sé, dev'essere forza di massa» [31].
    Questo principio di base dell'economia dimostrò la sua validità anche nell'agricoltura sovietica: «Prendiamo, per esempio, i colcos della regione di Chopr nell'ex territorio del Don. A un primo sguardo questi colcos a quanto pare non si distinguono dal punto di vista tecnico dalla piccola azienda contadina (pochi macchinari, pochi trattori). Nel frattempo però la semplice struttura degli strumenti contadini nelle viscere dei colcos hanno sortito un tale effetto quale non si sognavano nemmeno i nostri pratici. In che cosa si è espresso questo effetto? Nel fatto che il passaggio sui binari dei colcos ha prodotto un ampliamento della superficie a semina del 30, 40 e 50%. Con che cosa spiegare questo effetto "da capogiro"? Col fatto che i contadini, essendo impotenti nelle condizioni del lavoro individuale, si sono trasformati nella più grande forza riunendo i propri strumenti e unificandosi nei colcos. Col fatto che i contadini hanno acquisito la possibilità di lavorare anche le terre abbandonate e dissodate, lavorate con difficoltà nelle condizioni del lavoro individuale. Con il fatto che i contadini hanno avuto la possibilità di prendere nelle proprie mani le terre da dissodare. Col fatto che si è avuta la possibilità di adoperare i terreni abbandonati, piccoli pezzetti di proda, ecc.» [32].
    Un altro dei punti salienti della critica, interamente copiato dal trotskismo (analogamente al punto precedente), riguarda i «funzionari che "collettivizzano" perfino le scarpe e gli occhiali». Ebbene, questi funzionari violavano le direttive del partito e dello Stato; per questo furono duramente stigmatizzati negli articoli di Stalin ”Vertigine dei successi” e ”Risposte ai compagni colcosiani”. Ma, con ogni probabilità, secondo gli autori dell'articolo, si tratta di un caso analogo a quello del 1928: «il Comitato centrale fa macchina indietro, condannando gli "eccessi" che esso stesso ha ordinato». Di fronte a cotanto spessore di critica, non possiamo che provare compassione per i nostri avversari, e rispondere loro con le celebri parole d'Euclide: «Quod gratis adfirmatur, gratis negatur».
    La critica prosegue con l'ennesima tesi di pura marca trotskista: Stalin avrebbe fatto marcia indietro, tollerando la persistenza della piccola produzione all'interno dei colcos, per evitarne lo sfaldarsi. La realtà è ben diversa: come si evince dagli articoli di Stalin poc'anzi citati, gli appezzamenti individuali dei colcosiani erano previsti fin dall'inizio nello Statuto dell'artel agricolo, con il residuo di piccola produzione che ne consegue. Riguardo a quest'ultimo fattore, i nostri avversari architettano una parte consistente della loro critica. Essi vedono il colcosiano come «un proprietario di mezzi di produzione, anche se limitati a 2 o 3 ettari di terreno, a qualche capo di bestiame e alla sua casetta». Bisogna dire, a titolo di specificazione, che l'appezzamento personale del colcosiano non è una sua proprietà, ma gli è dato in usufrutto o godimento; nemmeno i colcos erano proprietari della propria terra, poichè la proprietà della terra era solo statale. Tale distinzione è fondamentale per la comprensione della teoria marxista della rendita fondiaria. I nostri avversari si lamentano perché, a loro dire, la Costituzione del 1936 avrebbe significato «un compromesso perpetuo concluso fra lo Stato ex-proletario e la piccola produzione», garantendo ai colcosiani l'usufrutto del proprio appezzamento personale, senza richiedere nessun canone d'affitto. Ma qual è la posizione dei fondatori del marxismo, riguardo a questo problema? In Marx leggiamo: “La nazionalizzazione del suolo e la sua cessione in affitto, in piccoli appezzamenti, a persone singole o a cooperative di lavoratori non avrebbe, sotto un governo borghese, che l'effetto di scatenare fra loro una concorrenza spietata e, portando con sé un certo aumento della «rendita», di offrire agli accaparratori nuove possibilità di vivere a spese dei produttori” [33]. Fin qui Marx. La riscossione della rendita fondiaria, pur essendo una delle misure di transizione attuabili da parte dello Stato proletario, è incompatibile con il socialismo. Questo perché, come spiega bene Lenin, le cooperative sono un elemento dell'economia socialista, e non delle erbacce reazionarie da estirpare. Perciò, l'unica soluzione socialista, per i paesi arretrati come la Russia, è la concessione delle terre in usufrutto perpetuo alle cooperative e ai loro membri. Ma la piccola produzione è qualcosa di veramente terribile, che non lascia dormire gli autori dell'articolo, spingendoli addirittura a dichiarare reazionari i colcos. Ma come si pone, in realtà, la questione? Pure i nostri avversari notano di passaggio che, «nelle "comuni agrarie"», «i bolscevichi si sforzarono di raggruppare i contadini sulla base di una gestione e di una distribuzione collettiva, senza proprietà individuale, senza lavoro salariato, ecc»; ma poi essi concludono che i bolscevichi «non vi riuscirono».
    Ad onor del vero, la storia dello sviluppo delle comuni agricole è molto più complessa e notevole di com'è raffigurata nell'articolo. Le comuni non erano affatto estinte all'epoca della collettivizzazione e anche in seguito continuarono il loro sviluppo. Nel 1952, Stalin osservava: «In molte fattorie collettive le colcosiane (kolkhoznitsi) non vogliono ancora essere liberate dall'onere del lavoro domestico, o consegnare il bestiame al kolkhoz per ottenerne carne e latte; non rifiutano, invece, di farlo per il pollame. Sono soltanto i primi germi dell'avvenire. Attualmente l'artel agricolo non è un ostacolo allo sviluppo dell'economia. Nella prima fase del comunismo l'artel si svilupperà gradualmente in una comune» [34]. Ecco dunque la verità su questa questione: la comune, a differenza dell'artel, non ammette la proprietà privata del bestiame da cortile e dell'attrezzamento agricolo minuto, ed elimina dunque le imprese ausiliarie dei colcosiani e con esse la piccola produzione. Inoltre, nella comune era possibile introdurre su vasta scala lo scambio di prodotti prima e la distribuzione diretta (secondo i bisogni) poi. Tutti questi progetti non rimasero solo sulla carta; nel dopoguerra, furono raggiunti dei risultati notevoli: l'esistenza di 8.939 Stazioni di macchine e trattori (SMT), l'aumento del 59% della potenza da trazione meccanica rispetto al livello anteguerra, l'attuazione di progetti di irrigazione e bonifica durante il periodo della ricostruzione post-bellica, i progressi ottenuti dalla fusione dei kolkhoz in altri più grandi durante il periodo 1950-1952 (97.000 kolkhoz nel 1952 rispetto ai 254.000 del 1950), ecc. Per di più, nel corso del 1952, numerosi colcos adottarono lo scambio di prodotti, nei loro rapporti economici con lo Stato, incedendo così verso la comune [35]. Ben si comprende, quindi, quanto valgono le parole di fuoco dei nostri avversari, sul preteso carattere controrivoluzionario dei colcos.
    Il graduale passaggio dall'artel alla comune, da realizzarsi mediante l'incremento della produzione sociale e il miglioramento delle condizioni di vita dei colcosiani, fu interrotto dall'avvento dei kruscioviani al potere, soprattutto dopo lo smantellamento delle SMT, nel 1958. Del resto, questo fatto traspare dallo stesso articolo, laddove si parla «della famosa riforma di Krusciov», che, «vendendo ai cholchos i trattori», ha invertito e capovolto la linea stabilita da Stalin per la costruzione del comunismo. Questa linea prevedeva anche la formazione di un organo economico unitario, che riunisse sia l'industria che l'agricoltura, in vista della futura estinzione dello Stato. Ciò avrebbe posto fine anche a ciò che i nostri avversari chiamano industrialismo di Stato e che noi, seguendo le orme di Lenin, chiamiamo socialismo. D'altronde, non v'è minimamente da stupirsi che essi carichino di ingiurie l'ordinamento colcosiano, vista la così bassa considerazione che hanno della teoria di Lenin sul carattere socialista della cooperativa agricola, che vedono come «una "soluzione" che non ha nulla di comune col socialismo». Essi si richiamano a Lenin, riportando una frase (probabilmente tratta dal suo articolo ”Sul significato del materialismo militante”) che si riferisce ad un argomento totalmente diverso da quello da loro supposto: «Costruire la società comunista con le mani dei comunisti è una idea puerile che non abbiamo mai espresso; i comunisti sono solo una goccia d'acqua nell'oceano popolare». Vladimir Ilic si riferiva qui al fatto che i comunisti devono tener presente di non essere che una piccola minoranza tra le masse popolari, e che non possono edificare il socialismo ed il comunismo da soli, ma occorre che si mettano alla guida delle masse senza partito, dotandole gradualmente dell'arme teorica del marxismo. Ma non basta. Questa è una delle più evidenti tra le numerose e tremende zappate sui piedi, che i nostri avversari si infliggono così violentemente, considerando che la collettivizzazione fu possibile solo grazie all'azione delle masse senza partito, guidate dai comunisti. E' la dialettica: la citazione di Lenin, pensata per mettere in dubbio il carattere leninista della prassi staliniana, ne risulta invece essere la più brillante conferma, trasformandosi così nel suo opposto. E' sempre la solita storia; nelle parole di Mao Tse-Tung: “Un proverbio cinese definisce l'azione di certi sciocchi dicendo che essi sollevano una pietra per lasciarsela cascare sui piedi. I reazionari di tutti i paesi sono precisamente degli sciocchi di questo genere.” (Intervento alla riunione del Soviet supremo dell'URSS per la celebrazione del 40° anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, 6 novembre 1957).

    La falsa base dell'"internazionalismo"

    In tutto lo scritto, con stupefacente ripetitività, viene espressa l'idea di una contrapposizione totale e irreversibile tra la rivoluzione internazionale e il socialismo in un solo paese, così da caratterizzare meglio la pretesa cesura storica del 1923. «...per Lenin, per tutti i bolscevichi - Stalin compreso, prima che teorizzasse il "socialismo in un paese solo" - il traguardo della rivoluzione d'Ottobre non era affatto la trasformazione immediata dell'economia russa in senso socialista». «Rinunciare alla rivoluzione europea, come fece Stalin, era... dar libero corso allo sviluppo dei rapporti capitalistici, era dare alle classi che ne erano le immediate beneficiarie la supremazia sul proletariato». «Dobbiamo ripetere che la politica economica bolscevica è minata, fin dai primi anni della rivoluzione, da una contraddizione che alla lunga le sarà fatale, e che tutti i comunisti di Russia e del mondo - fino alla svolta di Stalin - non sperano di superare se non con la vittoria internazionale del socialismo»; e così via. La contrapposizione appare insormontabile; in termini matematici, A ≠ B. Questo assioma deriva da un'altra equazione: A = A. E' questa la proposizione fondamentale della logica aristotelica o logica formale. Tale concezione ha avuto lungo corso nella storia della filosofia, ma è stata irrimediabilmente superata non dal marxismo, ma già dall'idealismo hegeliano. La filosofia marxista ha fatto proprio questo superamento, ponendo a proprio fondamento la logica dialettica, secondo cui l'assioma A = A è solamente un'astrazione matematica. Il bolscevismo ha saputo magistralmente applicare questa conclusione filosofica al nostro problema, alla dicotomia tra rivoluzione internazionale e socialismo in un solo paese. Già nel 1915 Lenin scriveva: «L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all'inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, spingendole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici ed i loro Stati» [36].
    A ben vedere, Lenin smentisce in pieno il dogma principale dell'"internazionalismo". Egli risolve inoltre il problema che stiamo trattando: la vittoria della rivoluzione e l'edificazione del socialismo nei singoli paesi sono parti della rivoluzione proletaria mondiale. Contrapporre le due cose è uno sproposito, completamente scevro d'ogni senso. Lenin è chiarissimo a questo riguardo; e ancor più chiaro e preciso è Stalin, al quale, alla fine del 1924, la difesa della teoria del socialismo in un solo paese non impediva minimamente di riferirsi alla rivoluzione d'Ottobre come inizio e premessa della rivoluzione mondiale [37]. Com'è chiaro, il marxismo-leninismo ha da tempo risolto in modo magistrale il problema del rapporto tra la rivoluzione internazionale e la vittoria del socialismo in singoli paesi. Al contrario, gli autori dell'articolo hanno ridicolmente ingarbugliato e mistificato una questione risolta oltre cinquant'anni addietro. Un'antinomia kantiana tra il socialismo in un solo paese e la rivoluzione internazionale, elaborata nel più totale spregio della tradizione filosofica del marxismo: questa è la «base» su cui erigono il loro "internazionalismo", il mefitico minestrone che, con tanta disinvoltura, propinano ai propri lettori.
    Si fa inoltre un gran baccano sulla dipendenza della rivoluzione russa dalla rivoluzione internazionale, citando Lenin a sostegno. Le ragioni di questa dipendenza, come del resto si desume dall'articolo stesso, sono da ricercare nell'arretratezza economica e culturale della Russia, rispetto ai paesi occidentali. Come Lenin ha più volte sottolineato, l'estensione della rivoluzione alla Germania avrebbe consentito, sulla base del potere proletario in Russia e della superiorità dell'economia tedesca, di edificare il socialismo in modo molto più rapido e facile di quanto non avvenne storicamente in URSS. Anche Marx aveva intuito il legame vigente tra una possibile rivoluzione in Russia e l'Europa occidentale, soffermando la sua attenzione anche sul mir (proprietà comune della terra), che avrebbe potuto, nel caso di una rivoluzione in Occidente ed in Russia, costituire la base per l'edificazione del socialismo e del comunismo [38]. Ai tempi della rivoluzione d'Ottobre, il mir si era ormai dissolto, a causa della riforma Stolypin. Tuttavia, la questione non era affatto esaurita, poiché una rivoluzione vittoriosa in Germania avrebbe enormemente facilitato il lavoro dei comunisti russi. Purtroppo, però, la rivoluzione in Germania fu schiacciata dalla reazione e l'Esercito rosso non riuscì a sconfiggere i reazionari polacchi; la rivoluzione russa si trovò così isolata e il potere sovietico fece delle concessioni al capitale straniero. A questo punto, i nostri avversari vorrebbero farci credere che, in assenza della rivoluzione in Germania, i bolscevichi avrebbero rinunciato all'edificazione del socialismo. Al contrario, già nel 1920, Lenin disse: «Tendendo tutte le forze per ricostruire la vita economica del paese devastato, prima dalla guerra tra i capitalisti per i Dardanelli, per le colonie, poi dalla guerra dei capitalisti dell'Intesa e della Russia contro gli operai della Russia, noi elaboriamo ora, tra l'altro, con l'aiuto di una serie di scienziati e di tecnici, un piano di elettrificazione di tutta la Russia. Questo piano è concepito per molti anni. L'elettrificazione rigenererà la Russia. L'elettrificazione, sulla base del regime sovietico, assicurerà la vittoria definitiva dei principi del comunismo nel nostro paese, delle basi di una vita civile senza sfruttatori, senza capitalisti, senza grandi proprietari fondiari, senza commercianti» [39]. Dunque, terminato l'intervento militare dei paesi dell'Intesa, i bolscevichi potevano concentrarsi sull'edificazione pacifica. Negli anni successivi, quando le speranze di una vittoria della rivoluzione in Occidente venivano sempre più dissipate dalla reazione, Lenin divenne ancora più esplicito nelle sue indicazioni per l'edificazione del socialismo; così, nel già ricordato articolo Sulla cooperazione, affermava di disporre di «tutto ciò che è necessario e sufficiente per condurre a termine la costruzione» della società socialista integrale. Nel 1923, Vladimir Ilic scriveva inoltre: «Se per creare il socialismo occorre un certo grado di cultura (...), perché non dovremmo allora cominciare con la conquista, per via rivoluzionaria, delle premesse necessarie per questo certo grado, in modo da potere in seguito - sulla base del potere operaio e contadino e del regime sovietico - metterci in marcia per raggiungere gli altri popoli?» [40]. Alla fine dell'anno precedente, Lenin dichiarava: “Il socialismo ormai non è più un problema del lontano futuro (...). Abbiamo portato il socialismo sul terreno della vita quotidiana e qui ci dobbiamo districare”. Occorreva, secondo Lenin, mettersi al lavoro “per far sì che la Russia della NEP si trasformi nella Russia socialista” [41].
    Come si vede, emerge un immagine ben diversa da quella del Lenin capitolazionista, celebrata così ditirambicamente dai nostri avversari. Ciò che aveva teorizzato nel 1915, ora Lenin lo applicava alle circostanze concrete della Russia. A fronte di queste incontrovertibili tesi leniniste, i nostri avversari obiettano che «mille testi e discorsi testimoniano il contrario», ma, in modo nient'affatto casuale, non citano mai nessuno di questi «mille testi e discorsi». Per concludere con questa questione, rileviamo che le condizioni indispensabili ad edificare il socialismo, stabilite da Lenin — l'acculturamento del popolo e l'introduzione della grande produzione industriale moderna —, furono soddisfatte dal potere sovietico, malgrado la sconfitta delle rivoluzioni in Europa occidentale.

    «Se nella Russia zarista tre persone su quattro erano analfabete, nel 1939 le persone in grado di leggere e scrivere di età compresa fra i 9 e i 49 anni erano già l’87,4% del totale. La popolazione scolastica nella scuola dell’obbligo era passata dai 9,6 milioni del 1914 ai 35,5 milioni del 1940. Nello stesso periodo il numero degli studenti universitari aumentò di 6 volte».
    «L’industrializzazione in URSS fu condotta in termini estremamente veloci: in poco più di dieci anni essa superò traguardi per raggiungere i quali Paesi come Inghilterra, Francia e Germania, impiegarono molti decenni. Di conseguenza la produzione industriale sovietica del 1940 era già 7,7 volte quella del 1913, con la creazione di nuovi settori come l’automobilistico, il chimico e l’aeronautico. Furono fondati circa 11 mila nuovi grandi complessi industriali» [42].

    Così, debellata la dipendenza dalla tecnica straniera (anche il trotskista Ted Grant ammette che, nel 1937, «tutta l’attrezzatura fondamentale per l’industrializzazione e la produzione di armi era di costruzione sovietica» [43]), con 730 studenti ogni 10.000 abitanti nel 1940 (più di Germania, Stati Uniti e Giappone messi insieme), l'Unione Sovietica si avviò alla vittoriosa edificazione del socialismo, guidata dalla teoria rivoluzionaria di Lenin e di Stalin.

    Conclusione

    Abbiamo esaurito le questioni principali e l'esposizione della nostra critica all'articolo ”Perché la Russia non è socialista”. Dopo tutto questo, noi la scientifica dimostrazione della natura capitalista dell’Unione Sovietica staliniana che ci era stata annunciata, la stiamo ancora aspettando; i nostri avversari non hanno mantenuto nulla di ciò che avevano promesso. In compenso, hanno profuso le loro forze in una revisione del marxismo dopo l'altra, si sono alacremente prodigati in un clamoroso travisamento del leninismo ed hanno fatto bella mostra di una copiosa massa d'ingiuriosi appellativi, rivolti non solo a Stalin, ma all'Unione Sovietica tutta, a quel paese che, più di tutti, ha seminato il terrore tra i capitalisti di tutti i paesi. La nostra analisi può essere sinteticamente riassunta nelle seguenti tesi:

    1.La differenza tra il capitalismo e il socialismo, così come viene posta dai nostri avversari, si riduce alla sostituzione del denaro con il buono di lavoro, dimenticando che entrambi funzionano nell'ambito del diritto borghese, dello scambio di equivalenti e dei rapporti "mercantili". Essi guardano gli alberi e non vedono la foresta, laddove essi vedono un rapporto tra cose, i marxisti devono scorgere un rapporto tra uomini. Trasformando il denaro e lo scontrino in un feticcio, analogamente a quanto facevano i luddisti con le macchine, i nostri avversari si precludono la via dell'analisi scientifica delle differenze tra capitalismo e socialismo. Questo è il loro errore fondamentale, da cui discendono tutti gli altri.
    2. Per conseguenza del loro primo errore, i nostri avversari respingono, in quanto capitalistici, i rapporti economici come l'accumulazione, il salariato, la gerarchia salariale e l'estrazione di plusvalore, che in URSS avevano acquisito un nuovo contenuto ma mantenevano la vecchia forma, a causa delle particolari condizioni storiche del paese. Secondo la teoria marxista, questi rapporti economici, nel socialismo (prima fase della società comunista), mutano sia la forma che il contenuto; Lenin e Stalin, ispirandosi al metodo di Marx, svilupparono creativamente il marxismo in direzione delle condizioni materiali della Russia, diverse da quelle del capitalismo inglese, preso in esame da Marx ed Engels; di qui proviene la teoria di Lenin sul carattere socialista della cooperativa agricola, da cui discende, a sua volta, quella sul ruolo della produzione mercantile nel socialismo, sistematicamente elaborata da Stalin. I nostri avversari, non capendo il rapporto dialettico che intercorre tra forma e contenuto, rinnegano questi postulati del marxismo-leninismo.
    3. In conseguenza di ciò, gli autori dell'articolo giungono a respingere, in quanto caratteristiche del capitalismo, quelle che, secondo Marx, sono leggi generali dell'economia, inerenti ad ogni modo di produzione, quali la riproduzione e i rapporti economici necessari a porla in atto. La medesima sorte è riservata alla teoria marxista della retribuzione nel socialismo e nel comunismo. Essi abbracciano, per conseguenza, alcune idee del socialismo vago e piccolo-borghese, propinato da Dühring e da Lassalle, da tempo demolito da Marx ed Engels.
    4. I nostri avversari tentano di appoggiarsi a Lenin, trattando la questione del capitalismo di Stato, ma non hanno capito il modo in cui Lenin caratterizzava questo tipo particolare di capitalismo. Essi non notano che, parlando del capitalismo di Stato, Lenin analizza un oggetto diverso da ciò che loro hanno in mente.
    5. A dispetto dell'apparentemente solida base materialistica dell'articolo, questa corretta impostazione viene totalmente vanificata dalla confusione dei concetti derivante dagli errori di teoria economica, commessi dagli autori. Inoltre, in alcune occasioni, il materialismo storico viene apertamente abbandonato, in favore di una dialettica calata sulla materia, in modo da piegare la realtà all'ideologia e allo schema interpretativo degli autori.
    6. Gli autori si allontanano a passi di sette leghe dalla dialettica materialistica e abbracciano la logica formale, quando trattano del rapporto tra la rivoluzione internazionale e il socialismo in un solo paese, creando una contrapposizione insuperabile tra queste due "alternative" ed ingabbiando il marxismo in schemi metafisici. Il marxismo-leninismo, per bocca di Lenin e di Stalin, ha già risolto da tempo questo problema; riproporlo oggi, per di più senza utilizzare il metodo dialettico, può solo confondere le cose.
    7. Le tesi degli autori, foraggiando l'odio della borghesia contro un capitolo fondamentale della storia del movimento comunista, quale l'edificazione del socialismo nell'URSS, e mostrando i contorni fondamentali della società socialista in maniera deformata, favoriscono oggettivamente il perpetuarsi dello status quo ed allontanano i potenziali rivoluzionari dalla prospettiva comunista.

    Queste sono le conclusioni fondamentali che abbiamo tratto dall'analisi dell'articolo ”Perché la Russia non è socialista”. Il nostro giudizio finale è il seguente: deviazione dal marxismo dovuta ad antistalinismo viscerale. Ci scusiamo con i lettori per il forse eccessivo numero di citazioni dai classici, resosi necessario al fine di evidenziare in modo netto le contraddizioni esistenti tra la teoria del capitalismo di Stato e il marxismo-leninismo. In luogo di concludere, desideriamo offrire ai lettori un breve saggio degli assai poco lusinghieri epiteti riservati dai nostri avversari all'indirizzo di Giuseppe Vissarionovic Stalin:

    «...etichetta menzognera... la più grande impostura della storia moderna... Stalin fu l'artefice di una vera controrivoluzione... l'atroce terrore di un despota assoluto... la più triviale demagogia... senza scrupoli... Stalin - di fronte al quale gli intellettuali progressisti più raffinati d'occidente si inchinarono come prostitute di infimo grado... disponibile ai fini della liquidazione delle prospettive e delle ragioni d'essere del bolscevismo... falsificazioni politiche e dottrinali... falsi politici... immonde calunnie... accuse grottesche... il vero nemico della rivoluzione... politica di liquidazione della rivoluzione internazionale... controrivoluzionari... bordate di ingiurie... peggior crimine di Stalin, crimine anche più mostruoso... falsificazioni spudorate dello stalinismo... abbandono di ogni prospettiva di un socialismo sia pure lontano... spacconata... snaturamento totale di ogni criterio marxista... La peggiore delle falsificazioni staliniane... furfanteria... i servili adulatori di Stalin... formula liquidatrice... grossolano empirismo... formula spaccona... una valanga di insulti, calunnie e minacce del più puro stile staliniano... spudorata contraffazione... mostruosità medievale... bluff staliniano...».

    Questa è una goccia di quel veleno antistaliniano di cui trabocca l'articolo che abbiamo sottoposto a critica, e col quale si sono visibilmente ubriacati i nostri avversari, per giungere a storpiare in modo così evidente la teoria rivoluzionaria di Marx e di Lenin, in nome di una velleitaria lotta contro chi diresse il primo Stato socialista della storia nell'epoca delle sue maggiori vittorie. Una vera e propria spacconata, in effetti; ma quale? “[...] in politica le ingiurie nascondono frequentemente l’assenza di idee e l’impotenza totale, l’impotenza rabbiosa degli insolenti”. (Lenin)

    Note

    1 G.W.F. Hegel, Fenomenologia delo spirito, Prefazione.
    2 Riferimento alla Grande guerra del Nord (1700-21), durante la quale gli Svedesi dapprima sconfissero i Russi presso Narva (Estonia), in un territorio favorevole e vicino al loro paese, ma ne furono poi disfatti a Poltava (Ucraina), su un campo di battaglia molto lontano dalle loro basi, in cui era difficile ottenere rifornimenti.
    3 K. Marx, Critica del programma di Gotha.
    4 K. Marx, Op. cit.
    5 Personaggio della commedia di Carlo Goldoni La locandiera; nobile decaduto, affetto da odio verso il denaro.
    6 K. Marx, Op. cit.
    7 K. Marx, Op. cit.
    8 V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, in Opere Scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1949, p. 44.
    9 Cfr. L. Trotskij, La rivoluzione tradita, pagg. 242-3.
    10 V.I. Lenin, Ivi.
    11 K. Marx, Il capitale, Libro primo, Libreria Utet, p. 727. Sottolineatura nostra.
    12 Cfr. F. Engels, Anti-Dühring, Terza Sezione, Cap. IV.
    13 F. Engels, Op. cit.
    14 Citato in K. Marx, Critica del programma di Gotha.
    15 N. Bukharin, L'economia del periodo di transizione. Parte Prima. Teoria generale del processo di trasformazione, p. 135.
    16 Ibidem, p. 389.
    17 F. Engels, Lettera a Franz Mehring (14/7/1893).
    18 T. Grant, RUSSIA: dalla rivoluzione alla controrivoluzione, Cap. 2.
    19 G. Stalin, Questioni di politica agraria nell'U.R.S.S., in Opere scelte, pp. 680-699.
    20 G. Stalin, Op. cit.
    21 A. Zdanov, Intervento nella discussione sulla storia della filosofia dell’Europa occidentale di G. F. Alexandrov, in Politica e ideologia, pp. 85-115.
    22 K. Mavrakis, Trotskismo: teoria e storia, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1972, p. 82.
    23 G. Stalin, XIV Congresso del PC(b) dell'URSS, in Opere complete, Ed. Rinascita, Vol. VII.
    24 V.I. Lenin, La tattica del Partito comunista russo, in Opere Complete, vol. 32, Editori Riuniti, Roma, 1967.
    25 V.I. Lenin, Op. cit.
    26 V.I. Lenin, Sulla cooperazione, in Opere Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 428-435. Tutte le citazioni seguenti da questo articolo provengono dalla medesima fonte.
    27 L. Trotskij, La natura di classe dello Stato Sovietico, Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso, Serie: “Dagli archivi del bolscevismo”, n. 13, novembre 1989.
    28 G. Stalin, Op. cit.
    29 V.I. Lenin, La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, in Opere Complete, vol. 25, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 339 e ss.
    30 L. Trotskij, La rivoluzione tradita, p. 59 e s.
    31 K. Marx, Il capitale, Libro primo, cit., pp. 449-450.
    32 G. Stalin, Questioni di politica agraria nell'U.R.S.S., cit.
    33 K. Marx, Sulla nazionalizzazione del suolo, in Il capitale, Libro terzo, cit., Appendice, p. 1175.
    34 G. Stalin, Discussione sui problemi dell'economia politica (15 febbraio 1952), pubblicato da Teoria e prassi.
    35 Cfr. Stalin, Malenkov, Molotov, Verso il comunismo. Resoconto del XIX Congresso del P.C. (b.) dell'U.R.S.S., Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1952; G. Stalin, Problemi economici del socialismo nell'URSS, Roma, Rinascita, 1952-1953.
    36 V.I. Lenin, Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, in Opere Complete, vol. 21, Editori Riuniti, Roma, 1966.
    37 Cfr. G. Stalin, La Rivoluzione d'Ottobre e la tattica dei comunisti russi, in Opere Complete, vol 6, Edizioni Rinascita, Roma, 1952.
    38 Cfr. K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Prefazione all’edizione russa del 1882.
    39 V.I. Lenin, Risposta alle domande del corrispondente del giornale inglese «Daily Express», in Opere Complete, vol. 30, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 331.
    40 V.I. Lenin, Sulla nostra Rivoluzione, in Opere Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967. Il corsivo è di Lenin.
    41 Lenin. Opere. Editori Riuniti, Roma 1967, Vol. 33, p. 407.
    42 Economia politica ПОЛИТИЧЕСКАЯ ЭКОНОМИЯ. Traduzione dal russo e note di Paolo Selmi, pp. 158-161.
    43 T. Grant, Op. cit., Cap. 3.

    Edited by Sojuz Koba 1961 - 17/7/2020, 14:36
     
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