Per una giusta comprensione del pensiero di Antonio Labriola

Palmiro Togliatti

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    Per una giusta comprensione del pensiero di Antonio Labriola



    Il seguente testo è composto da 4 articoli che compaiono nei numeri di Rinascita di Aprile, Maggio, Giugno e Luglio del 1954. Mi ci è voluto molto per copiare a mano il tutto, quindi apprezzate lo sforzo.

    1. — Premessa

    Per almeno quarant'anni, a partire dalla morte, di Antonio Labriola in Italia quasi non si è parlato. Dominava il fascismo, nella vita politica e sociale: dominava l’idealismo, nel campo della cultura, degli studi. Il libro di Luigi Dal Pane (1), che apparve nell’anno XIII della cosiddetta «era fascista», fa eccezione, ed è per questo da lodarsi senza riserve. Attraverso quest'opera, alla quale ancora oggi si deve risalire per essere esattamente, anche se ancora parzialmente, purtroppo, informati su quella parte e su quegli aspetti della produzione intellettuale del Labriola che non andò più in là della esposizione orale nei corsi universitari, degli appunti per le lezioni o di appunti per lavori non condotti a termine, il pensiero di Antonio Labriola potè essere nuovamente conosciuto e studiato. Ciò ebbe un grandissimo valore, allora, non solo perchè era il momento in cui si davano alle fiamme i testi tradizionali, classici, del socialismo, ma perché tanto il dominio politico del fascismo quanto il dominio culturale delle correnti idealistiche incominciavano a subire le prime scosse e verso il socialismo e il marxismo si stava orientando una nuova generazione, sia di militanti politici che di studiosi. Eguale efficacia non aveva potuto avere il lavoro del Diambrini Palazzi (2), pubblicato all’epoca della marcia su Roma, e non solo per questo motivo, ma per il suo carattere stesso di ricerca puramente dottrinale, e per di più condotta in modo assai ristretto, senza alcuna ampiezza di vedute circa il mondo intellettuale, culturale, sociale nel quale il pensiero del Labriola era sorto e si era manifestato.

    A distanza di tre anni dal libro di Luigi Dal Pane, nel 1938, venivano però ripubblicati, a cura di Benedetto Croce, i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia (3), opera fondamentale, allora da anni e anni esaurita e scomparsa anche dalle biblioteche, e di cui solo il primo era stato ristampato, nel 1934, in una collana scientifica (4). Questa nuova pubblicazione fu dovuta, dice il Croce in una sua Avvertenza, alla necessità di soddisfare «richieste» e «premure». Certamente però non soltanto a questo. Egli stesso riconosce, infatti, che richieste e pre.mure derivano dalla «rinnovata importanza politica del marxismo». Una caduta del regime fascista, nel corso della bufera che si stava oramai scatenando sull’Europa, era non difficilmente prevedibile. Nel movimento antifascista clandestino, che stava prendendo slancio in nuovi gruppi della popolazione e nelle file del quale i dibattiti erano vivacissimi per la ricerca di nuovi orientamenti ideali e politici, le correnti socialiste e comuniste già si presentavano come le più robuste, non si poteva non far conoscere di nuovo Antonio Labriola, anche perchè, ad ogni modo, era certo che presto o tardi l’opera sua sarebbe stata integralmente rimessa in circolazione dai seguaci stessi del marxismo. Poichè non si può credere che le iniziative del Croce nel campo della cultura e della politica — e anche di politica si trattava, in questo caso — siano mai state dovute a improvvisazione o a richiami di sentimento, si deve ammettere che l’ultimo argomento indicato abbia avuto un peso nello spingerlo alla nuova pubblicazione. Naturalmente, il pensiero potente di Antonio Labriola, una volta rimesso in circolazione, sarebbe andato avanti con i mezzi suoi; intanto però avrebbe potuto essere presa qualche piccola precauzione, non solo con le due Avvertenze, dove viene sommariamente ripetuta la svalutazione del marxismo come filosofia, secondo uno schema a tutti noto (ritorno alla metafisica in veste materialistica, impossibilità di sviluppo come corrente di pensiero), ma con l’aggiunta di tutto un racconto circa il modo come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia.

    Di alcuni elementi di questo racconto avremo occasione, probabilmente, di occuparci ancora nel corso del nostro studio, soprattutto perchè vi sono riportati alcuni importanti passi di quelle lettere del Labriola al Croce, certamente numerosissime, la cui pubblicazione integrale sarebbe stata per la cultura italiana un vero regalo, che il Croce non volle fare. Il racconto non può non indurre al sorriso chi lo legga ora. Il «marxismo teorico in Italia» vi ha come data di nascita una lettera ricevuta da Benedetto Croce e muore con la edizione in volume di alcuni suoi scritti. Lo scrittore napoletano era tanto penetrato, convinto della sua funzione egemonica nella cultura italiana che non poteva avvertire la immodestia, per lo meno, di queste determinazioni, ma non è questo che ora ci interessa. Ci interessa questo racconto perchè ci conduce direttamente alla questione che vogliamo porre e discutere qui, e che riguarda il modo come, in generale, e cioè anche in studiosi che aderiscono alle posizioni filosofiche e politiche del Labriola, si tende a considerare il Labriola stesso.

    Non vi è alcun richiamo serio, nel racconto del Croce, al posto che si debba assegnare al pensiero marxista di Antonio Labriola nello svolgimento complessivo del pensiero italiano di quel periodo.

    Non vi è neanche un lontano tentativo di indicare una filiazione ideale nazionale, un terreno più ampio di adesione o contrasto che non sia quello delle conversazioni tra due studiosi. Un professore di filosofia curioso delle nuove correnti di pensiero il cui sviluppo accompagna quello del movimento socialista si informa del contenuto di esse, vi aderisce, lo espone in alcuni scritti sotto lo stimolo del Croce stesso e poi si ritira e tace (in realtà non si ritira e non tace, ma scompare, soltanto, dalla scena terrestre), mentre il Croce ritrae dall'esperienza fatta in questo modo qualche indicazione utile per la migliore sistemazione di alcuni suoi concetti. E’ tutto qui, e chi voglia rileggersi il racconto crociano vedrà che ls nostra non è una caricatura. È evidente, quindi, la intenzione. Si tratta di isolare la cosiddetta «nascita e morte del marxismo» dal corso e dalla lotta delle correnti ideali nella filosofia è nella cultura italiana nel secolo XIX. «Nascita e morte dei marxismo» devono considerarsi come un episodio a parte, una specie di masso erratico cascato dal di fuori, una novità e una esperienza interessanti, ma poco di più e destinate a lasciare scarsa traccia di sè. Nel lavoro fondamentale dedicato dal Croce alla Storie della storiografia italiana nel secolo decimonono non si giunge sino è questo punto estremo di svalutazione, ma al marxismo non viene egualmente attribuito che un valore indiretto e marginale, non in sè stesso, ma per la spinta che ne uscì a un rinnovamento della storiografia. Non parliamo di Giovanni Gentile, poi, che trattando, in une delle opere sue principali, delle Origini della filosofia contemporanea in Italia, di Antonio Labriola e di una corrente marxista nemmeno fa cenno. La cosa, però, non deve stupire. Tanto il Croce quanto il Gentile avevano tratto da Hegel, e conservano, l’abito di considerare il pensiero proprio come il punto di arrivo necessario di tutto il precedente sviluppo delle idee. Il giudizio sulle correnti di pensiero del passato viene quindi da entrambi sempre subordinato alla valutazione del contributo che queste correnti sembra loro che abbiano portato al raggiungimento di questo punto finale e niente più. Antonio Labriola è da tenere presente ed è valido solo perchè ha dato una spinta per la scoperta del concetto dell'utile, che fino ad allora mancava a perfezionare l’euritmia quadripartita della crociana «filosofia delo spirito», e quanto al Gentile, siccome nel suo verbalismo filosofico scompaiono anche le tracce di una preoccupazione e ricerca della effettiva realtà della vita sociale, è naturale, per lui, cancellare il marxismo persino dal ricordo. Come manca ad entrambi una visione complessiva e adeguata della lotta che in tutto il corso del pensiero umano si è combattuta tra la concezione materialistica e la concezione idealistica della realtà, così non poteva non mancare la capacità di valutare esattamente l'elemento nuovo che il marxismo porta in questa lotta e quindi di comprenderne l'importanza come rivolgimento decisivo negli orientamenti dei pensiero. Ma qui siamo già assai lontani dal punto che ora ci interessa. Ora ci interessa rilevare questa tendenza a collocare il marxismo ai margini dello svolgimento delle correnti di pensiero in Italia nel secolo decimomono, e persino a escluderlo del tutto da questo svolgimento, perchè da questa tendenza deriva una posizione iniziale errata nella considerazione e nei giudizi su Antonio Labriola, e perchè questa considerazione errata è ancora oggi, in sostanza, predominante, tanto che la si trova anche in studiosi che con l’idealismo filosofico non hanno niente a che fare, ma del Labriola sono ammiratori, seguaci del suo indirizzo di pensiero e politico.
    Si ripete a questo proposito, almeno in parte, ciò che avviene spesso nel campo degli studi sulle storia del movimento operaio.

    Anche i migliori tra coloro che vi si dedicano, non riescono a sfuggire alla impressione di muoversi non soltanto sopra un terreno particolare, riservato a specialisti, ma su un terreno che non riescono a tenere continuamente legato, come parte integrante, con la storia generale economica e politica del Paese. Di qui non possono derivare altro che incomprensioni ed anche errori, tanto nella impostazione generale quanto nel giudizi concreti. Dal momento in cui la classe operaia si presenta sulla scena della vita politica e sociale dell'Europa con una sua fisionomia e una sua forza, da quel momento in tutti i paesi europei, compresi quelli dove lo sviluppo industriale è meno avanzato, i problemi del movimento operaio sono problemi di tutta la nazione, e lo sono tanto oggettivamente, per il peso che hanno nel corso degli avvenimenti, quanto per gli aspetti soggettivi, dove anzi la paura forsennata del ceti dirigenti anticipa posizioni ed atti che solo assai più tardi potrebbero trovare una spiegazione nelle cose.

    Per quanto riguarda il campo del pensiero, nulla può far tanto comodo alla conservazione delle posizioni tradizionali e alla difesa delle correnti di pensiero prevalenti nei ceti dirigenti della società, quanto il considerare la dottrina del marxismo come qualcosa che sboccia, sì, in un certo momento, dalla crisi di determinati orientamenti filosofici, che ha avuto una parte, sì, nella storia, ma unicamente come «dottrina storiografica ed economica» atta a «dare impeto e consistenza al movimento operaio», «fatta apposta per esso» (5), ma priva di consistenza logica, incapace di decisiva efficacia nel campo del pensiero e quindi persino incapace di sviluppo.

    Gli scritti dedicati al Labriola negli anni immediatamente successivi alla morte sono tutti pieni di commossa simpatia per l'uomo e di profondo rispetto per il pensatore. In nessuno di questi scritti vi è però un tentativo di valutarne la grandezza in relazione con lo sforzo molteplice che il pensiero italiano compie, nel secolo decimonono, per aprirsi una strada nuova, che lo colleghi alle migliori conquiste sue del passato e gli apra un sicuro cammino. E' invece precisamente in questa luce che grandezza ed efficacia del nostro pensatore sì vedono e comprendono intere. Nella commemorazione pronunciate da Andrea Torre alla Università di Roma nel 1906 (6), e che non è cosa cattiva, del resto, è condotta con attenzione è non senza acutezza la ricerca delle possibili origini ideali del pensiero del Labriola, ma anche qui tutto viene racchiuso nell'ambito di una indagine quasi psicologica, per scoprire da quali impulsi fosse alimentato, nel suo sviluppo, questo pensiero, ma non per giungere a cogliere il contenuto e il ritmo di una grande circolazione o, se si vuole, di una grande battaglia ideale, nella quale esso assuma la parte di un protagonista, maestro del presente, maestro dell'avvenire. Non parliamo, poi, del Medaglione di Paolo Orano (7) dove le pretese sono molte, il fraseggiare è imponente, ma anche la superficialità è estrema e la sostanza ben poca; E' qui indicata, è vero, una discendenza ideate del Labriola dal suo «avo napoletano» Giovanni Battista Vico, ma da questo viene fatta incominciare niente di meno che «la dottrina positiva deterministica», e la esposizione mette capo, tra l'altro, a una dilettantesca rappresentazione della vita romana dopo Porta Pia (8) e a considerazioni sul Caffè del centro di Roma.

    Non c'è dubbio che in cinquant'anni grandi progressi si sono fatti, anche nella capacità di studiare e comprendere Antonio Labriola in modo completo. Gli stessi decisivi decisivi passi in avanti che sono stati compiuti nello sviluppo della dottrina marxista, sotto la spinta della pratica rivoluzionaria e con questa in strettissimo legame, forniscono a questo scopo il più grande degli aiuti. Decisiva è per esempio, come vedremo a suo tempo, la conoscenza di Lenin per valutare a fondo la tormentosa ricerca che agita il grande pensatore italiano negli ultimi anni della sua vita e si riflette negli ultimi scritti. Ma questa è già una questione particolare. La questione fondamentale, che per prima deve essere posta e alla luce della quale tutti questi problemi singoli devono essere esaminati e risolti, è quella del posto preminente che il Labriola occupa, nel secolo decimonono, in un momento di crisi, di decomposizione e di svolta del pensiero italiano. A lui è spettato tradurre in atto, nel nostro Paese e in relazione con la storia mostra, quel rivolgimento radicale di orientamenti ideali che il marxismo ha operato per tutta la cultura europea. Si moltiplichino quindi le ricerche particolari, gli studi sempre più approfonditi del suo pensiero nei singoli suoi aspetti. Tutto questo è necessario. Tutto questo è indispensabile e deve essere fatto in misura assai più grande che sino ad ora, seguendo le indicazioni preziose lasciateci da Antonio Gramsci. Si eviti però di ricadere nello sbaglio di fare del Labriola uno «specialista», se così si può dire, della introduzione in Italia delle ideologie socialistiche, per le necessità ideali e pratiche del movimento operaio, stimolato a quest'opera da questa o quella efficacia su di lui di correnti venute dall'una o dall'altra parte, e da lui tratte a unità. L'apparire del marxismo nel pensiero e nella cultura italiani è risposta e soluzione che doveva essere data a problemi che maturavano, da noi come altrove, ma da noi in forme particolari, rispondenti all'indole, al contenuto, alle correnti, alla tradizione ideale e culturale nostra, in quel secolo grande me tormentato che fu l'Ottocento. Quanto quella risposta e quella soluzione siano giuste hanno contribuito poi e tuttora contribuiscono a dimostrare gli sviluppi ulteriori.

    Seguiremo quindi nel nostro lavoro una linea che può qui essere indicata solo a grandi tratti. L'indagine sulla derivazione filosofica del pensiero del Labriola dovrà essere condotta in modo che chiaramente ne risulti come, sin dall'inizio, egli lavori attorno ad alcune questioni fondamentali, non piovute dal cielo ma presenti in tutto il dibattito ideale del tempo, e che solo nei marxismo potevano trovare una organica, giusta soluzione. Di qui discende il modo come il Labriola stesso si muove tra le grandi correnti che allora si contendevano il campo e discende allo stesso tempo, ed è questo forse il punto più importante — lo sforzo per intendere il marxismo ed elaborarlo come una filosofia completa e efficiente a sè stessa, e non quindi come solo metodo di indagine e ausilio per la propaganda. Era inevitabile, giunti a questo punto, la fiera ribellione contro tentativi revisionistici, la cui origine ideale del resto, anche se qualche filosofo idealista non se ne accorse, stava proprio in quella degenerazione positivistica che con tanta asprezza e giustamente era stata combattuta. Altre conseguenze erano inevitabili, ma si dovevano manifestare in sviluppi successivi della nostra indagine economica e politica del nostro pensiero, cui il Labriola non giunse.

    2. — Le fonti di un pensiero originale

    E' inevitabile, ed è anche giusto, che dell’opera di un pensatore quale fu Antonio Labriola si ricerchino quelle che i dotti chiamano le «fonti», e cioè i punti di contatto che si possano rilevare con l’opera di altri uomini di pensiero, con correnti ideali del tempo o di tempi passati, e quindi si tenti di stabilire una derivazione di posizioni mentali. La ricerca è tanto più importante, in questo caso, perchè lo sviluppo del pensiero del Labriola ha luogo in quella seconda metà dell’Ottocento che fu, anche per l’Italia, un periodo di intensa circolazione e lotta delle idee. Vennero a maturazione e si compirono in questo periodo svolte radicali nell’orientamento del pensiero, causate, tra l’altro, dalla crisi interna e dalla decomposizione dei sistemi filosofici sino ad allora prevalenti, dai tentativi molteplici che vennero fatti per trovare strade nuove, dall’apparire e dal rapido scomparire, come risultato di questi tentativi, ma insieme della loro vanità, di nuove pretese sintesi organiche dell'umana speculazione e del sapere umano. La concezione marxista del mondo, alla metà del secolo già elaborata almeno nei fondamentali principi che la informano (il primo volume del Capitale si pubblicò però soltanto nel 1857), si forma e sviluppa nel cuore di questa grande battaglia ideale. Coloro che ne furono i corifei, e Antonio Labriola tra i primi, non potevano non muoversi tra il richiamo, lo stimolo, il confronto e il contrasto continuo di idee e sistemi diversi, e ciò tanto più quanto più la loro ricerca era profonda e anche, come fu per il Labriola, condotta da soli.

    Antonio Labriola fu socialista e marxista, ma chi richiami alla mente in quale modo socialismo e marxismo vennero in Italia intesi, esposti, difesi oppure combattuti da pensatori, scrittori, uomini politici di quel periodo e faccia il confronto con l’opera del Nostro, ha la visione non solo di una insuperabile distanza, ma di una tale differenza di qualità che persino sorprende. I più noti dei socialisti, e non parliamo soltanto di coloro che già il tempo loro giudicò essere demagoghi privi di consistenza o politicanti meschini, ma anche di quelli che svolsero una seria azione politica e non rifuggirono dallo studio dei problemi generali, non possono neanche essere presi in considerazione quali esponenti di una corrente di pensiero che abbia un minimo di profondità. I migliori, consapevoli forse della loro organica debolezza, sfuggono, quasi, al dibattito delle idee, si rifugiano nella pratica, cedono il campo senza combattere ad avversari anche di scarsa levatura, oppure tentano con questi conciliazioni impossibili, assurde. Anche degli avversari però, sì può dire cosa analoga e varrà la pena, a un certo punto della nostra esposizione, di darne la prova.

    La polemica degli uomini di scienza e di pensiero, degli economisti, degli scrittori politici contro la nuova concezione del mondo conquistata dal marxismo, si svolge per lo più a un livello miserevole. Fanno eccezione i promotori delle nuove correnti di pensiero idealistiche, ma fanno eccezione soltanto in parte e agli inizi, perchè alla fine ricascano anch'essi nella corrente banalità della pubblicistica reazionaria, e questo mette in luce la origine pratica delle loro critiche al marxismo, cioè la origine da intuizioni e preoccupazioni di conservazione politica e sociale. Il Labriola veramente occupa, in questo quadro, un posto a parte, sia per la severità e la coerenza interiore della sua ricerca ideale, sia per la novità stessa di questa ricerca e delle conclusioni cui arriva. Lo sdegno quasi superbo col quale, in tante sue lettere, in alcuni degli scritti e soprattutto, a quanto viene riferito, nelle conversazioni egli dava così aspro giudizio negativo di uomini e circostanze del suo tempo, ha quindi una evidente giustificazione. Egli apparteneva e sentiva, certamente, di appartenere ad altra cerchia di pensatori e attori della storia. Una ricerca anche superficiale dei punti di partenza del suo pensiero immediatamente lo pone in contatto, in polemica, in contrasto, e sin dai primi passi ch'egli muove, con le menti più grandi, più originali, più profonde. Le questioni ch'egli affronta e che lo tormentano, non sono mai marginali, mai di valore secondario; sempre sono tra quelle che decidono di tutto un indirizzo.

    La nozione di questa originalità di pensiero si perde, però, talora, per il modo stesso come questa questione delle «fonti» viene superficialmente trattata. Si tende a stabilire una derivazione di temi e di soluzioni da pensatori diversi, spesso lontani assai l'uno dall’altro e anche di scarso valore; non si ha più una visione unitaria nè della ricerca nè dei risultati.

    Prendiamo, non solo per fare un esempio, ma anche perchè la posizione che qui viene presentata è stata ed è tuttora accolta da molti lo studio di Andrea Torre che già abbiamo ricordato. Dopo la consueta presentazione, in termini rispettosi e ammirati, del Labriola come uomo di pensiero, critico permanente delle idee altrui e proprie, maestro e dicitore di insuperabile efficacia, mi dice che «l’orientazione dello spirito del Labriola e la forma della sua mente hanno subito tre principali influenze diverse: di Hegel, di Herbart e di Marx» (1). Sorprende quel «diverse», soprattutto perchè riferito a termini così generali come l’«orientazione» e la «forma della mente». Hegel, Herbart e Marx sono senza dubbio pensatori tra di loro assai differenti. Si potrebbe dire che sono tre distinti e l’un dall’altro ben lontani punti dell’orizzonte intellettuale dell'Ottocento. Assai tempestosa avrebbe dovuto essere la corsa della mente combattuta da venti sì contrari. Ma a queste «influenze» il Torre vorrebbe aggiungere anche quella del Renouvier, da cui sarebbero derivate, nei Labriola, la critica dell'idea di un processo storico continuo, di una unità e continuità della storia, e l’affermazione della esistenza di centri molteplici di civiltà primitiva. Il Labriola steso, a dire il vero, interrogato su questo punto aveva negato la derivazione e non c'è che da prenderne atto, dopo aver rilevato la pedantesca ingenuità della osservazione, Il tema della unità della storia viene infatti dibattuto dal principio alla fine del. l'opera labrioliana e non poteva non essere così, L'unità è posta nel momento in cui viene affermato che dire uomo vuol dire storia, che «se togli la soddisfazione dei primitivi bisogni animali, tutta la rimanente attività umana è frutto di questa vita sociale che l'uomo si è fatta nel processo della storia» (2); la molteplicità sorge quando si riconosce che l'individuo «è somma di molteplici stati interni e punto d'incontro di molteplici rapporti nella vita» (3), che «la reale maniera di essere dell'uomo» è costituita da una «varietà e moltitudine di elementi naturali, sociali e storici» (4). Il Renouvier non c'entra e non ci può entrare se non per occasionale coincidenza di formulazioni. Quello di cui si tratta è di elaborare una concezione generale del mondo nella quale la unità razionale del processo storico, che fu tra le grandi conquiste del pensiero di Hegel, non si riduca a una pura e vuota astrazione logica, ma si attui nella concretezza della realtà, quale conosciamo e possiamo conoscere con l'indagine della scienza. Il marxismo fu la conquista di questa concezione, e a questa conquista lavorò Antonio Labriola tutta la sua vita, per questo ha sì un certo valore, ma non decisivo, la osservazione, sempre del Torre, secondo la quale il distacco dalla filosofia hegeliana sarebbe consistito nel rifiuto di accogliere questa filosofia come sistema definitivo della realtà. Questo rifiuto senza dubbio vi fu, ma il valore di esso deriva da una critica che investiva le fondamenta della dottrina hegeliana, e non soltanto le esagerazioni del sistema.

    Il metodo seguito dal Torre è da criticare e respingere, insomma, perchè non consente più di scorgere una unità di sviluppo ideale là dove questa, invece, esiste. Non solo l’analisi diventa frammentaria; ma, quel ch'è peggio, a una congerie di frammenti viene ridotto il pensiero stesso ch'è oggetto di studio. A questa conclusione, profondamente sbagliata, era condotto, seguendo lo stesso metodo da noi criticato, lo stesso Benedetto Croce. Lo svolgimento mentale del Labriola, egli affermava, «ebbe più del movimento sussultorio che del cammino progressivo». E ne dava la documentazione in questo modo: «Da giovane fu hegeliano; ma poi abbandonò Hegel per parare ad Herbart; ma di Herbart non riuncì ad assorbire nè la metafisica nè la logica: e si dette infine all'hegelismo, alquanto spurio, del Marx, e più ancora, di Federico Engels. Del suo passaggio attraverso Herbart non nerbò segno alcuno, perchè ciò solo che un hegeliano può imparare da Herbart è l’importanza somma della distinzione; e il Labriola, almeno nel suo ultimo periodo, non proseguì di troppo amore i concetti distinti, che chiamava la scolastica tradizionale» (3). Qui, come si vede, si incomincia col presentare la evoluzione di un grande pensatore in termini veramente «sussultori» e si conclude col fargli rimprovero di non aver saputo ricavare da Herbart quella dottrina dei distinti, che lo stesso Croce ne ebbe a ricavare. Il Labriola, però, non si deve credere si rivolgesse allo Herbart per impararne qualcosa di nuovo, da conciliare o combinare con la dottrina hegeliana. Sin dall’inizio, invece, è palese in lui la tendenza non a superare o correggere questa o quella parte dello hegelismo, ma a superarlo tutto, compiendo quella operazione che Carlo Marx e Federico Engels chiamarono di arrovesciamento del sistema hegeliano. L'accostamento a Herbert fu un elemento di questa operazione e se alla fine non ne rimase seguo, o ben poco, la cosa non può stupire. Erano state però risolte le questioni fondamentali, per chiarire e approfondire le quali determinate posizioni herbartiane avevano potuto servire.

    Si ricerchino dunque pure le relazioni di idee tra il Labriola e i più grandi pensatori dell’epoca sua e del passato, ma non ci si limiti alla serie del nomi e agli accostamenti esteriori. Ci si degni accostarsi al contenuto effettivo di queste relazioni di pensiero e l’immagine del movimento «sussulturio» e della frammentarietà non potrà non scomparire, per dar luogo alla visione di un processo unitario.

    Antonio Labriola stesso, del resto, uomo di pensiero onesto e serio, non nascose mai quali fossero stati i punti di partenza e i contatti ideali della sua speculazione. Li espose, ansi, con modestia, ma con la prudenza, in pari tempo, di chi aveva coscienza del proprio valore. Nella prima delle sue lettere a Federico Engels che a noi sia nota egli così presenta sè stesso:

    «Poichè voi nel vostro spirito non soltanto padroneggiate tutta la cultura moderna, ma avete contribuito direttamente e in modo tanto meritevole allo sviluppo delle nuove idee sociali, non troverete strano che un dotto dalle altezze della filosofia morale di Kant e passando attraverso alla filosofia della storia di Hegel e alla psicologia dei popoli di Herbart, sia pervenuto alla convinzione di professare pubblicamente il socialismo come propria vocazione» (6).

    Segue l’affermazione di avere «assistito» al rifiorire napoletano dello hegelismo e tutto il passo ha un valore prima di tutto come richiamo alla attività filosofica dello scrivente, affinchè ne riceva un contenuto la presentazione di sè stesso al lontano Engels. Fa ostacolo, però, alla interpretazione del passo come indicazione delia adevione successiva all'una e all’altra dottrina, lo accenno alla «filosofia morale di Kant», perchè un periodo, anteriore a quello cosiddetto hegeliano, che possa essere indicato come «kantiano», non esiste nell'opera del Labriola fino ad oggi nota.

    Più preciso, ma non differente nella sostanza è il contenuto del passo del discorso "L'Università e la libertà della acienza" dove esplicitamente il Labriola stesso parla degli inizi della sua attività filosofica :

    «Quando ventitré anni fa, in questa stessa Aula Magna, io sostenni la prova pubblica del concorso.. io non c'ero venuto qual rappresentante di una ortodossia filosofica, nè da escogitatore di novello sistema. Per le fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatto la mia educazione sotto l'influsso diretto e genuino dei due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo tutta la filosofia, che oramai possiamo chiamare classica; è ossia, dei sistemi di Herbart e di Hegel, nei quali era arrivata all'estremo delle conseguenze l'antitesi tra realismo e idealismo, tra pluralismo a monismo, tra psicologia scientifica e fenomemologia dello spirito, tra specificazione dei metodi ed anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica» (7).

    Si noterà come anche qui non tanto si parli di derivazione o filiazione ideale ma in generale di «educazione». I due sistemi di Hegel o di Herbart sono posti inoltre l'uno accanto all’altro, in un confronto che da rilievo proprio a quel dibattito tra «idealismo» e «realismo», che il marxismo doveva affrontare e risolvere per giungere all’arrovesciamento dell’hegelismo.

    Del tutto esplicito, invece, nel senso che parla non solo di una «educazione», ma di una quasi necessaria derivazione ideale, è invece un altro passo di una lettera a Engels, del 14 marzo 1891:

    «Forse — anzi senza forse — io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo aver passato attraverso la psicologia di Herbart e la Volker-psyochologie di Steinthal e altro» (8).

    È da questa affermazione e da questa posizione che bisogna partire. Dalla educazione rigorosamente hegeliana al comunismo. Da Hegel a Marx. È il cammino classico, e il compito sta nel ricercare come sia stato percorso e in particolare se il punto di arrivo fosse veramente già contenuto nelle prime valutazioni critiche della dottrina hegeliana e quindi i successivi «passaggi» non siano stati proprio nulla di «sussultorio», ma soltanto momenti necessari per rendere esplicito un orientamento già originariamente intuito e ricercato come nuovo. E’ necessario quindi a questo punto vedere con maggiore attenzione che cosa significhi il passaggio da Hegel a Marx, anzi, che cosa abbia significato e in che modo si sia compiuto nei fondatori stessi della dottrina marxista.

    Ci sia solo consentito ricordare, di sfuggita e per chiudere questa parte, che la «educazione hegeliana» incominciò, assai probabilmente, anche prima dell'avvicinamento ai circoli hegeliani e alla scuola hegeliana di Napoli, dove insegnavano lo Spaventa, il Vera e gli altri. Già Carlo Fiorilli, in uno scritto del 1906 (9), riferiva come la prima educazione al filosofare fosse data ad Antonio Labriola, e proprio nel Convento di Monte Cassino, da un abate Pappalettere, il quale, perseguitato dai Borboni per le idee liberali, sarebbe stato un seguace delle dottrine del Cusano. Difficile precisare, oggi, se sia esatta quest’ultima affermazione, ma del Rev.mo p. d. Simplicio Pappalettere di Barletta sì può stabilire non solo che fu «di pronto e svelto ingegno, di naturale facondia fornito e di attività febbrile», non solo che «un poco tinto delle dottrine liberali fu calunniato alla polizia napoletana e carcerato qualche mese a S. Francesco e poi dimesso» e in seguito, dopo un intervento presso il papa Pio IX, «promosso dal priorato alla cancelleria» e ammesso a insegnar filosofia, ma si può anche stabilire che le sue simpatie mentali, se non l’adesione aperta, andavano al pensiero filosofico tedesco. Egli è presentato «fidente in tutti e tutto, massime l’elemento tedesco, cui uccella con avidità». Le amicizie tedesche «aprirono al P. Abbate l’adito pericoloso all'amicizia di alcuni gunteriani» e in una udienza presso il S. Padre egli dovette prostrarsi ai piedi di questo «domandando perdono di ogni suo errore, dichiarandosi contrario specialmente alle dottrine del professor Gunther di Vienna, che allora disertava il campo della teologia cattolica e offerendosi per richiamarlo a più miti consigli. Quindi pianse, commosse il tenero cuore di Pio IX, trionfò infine». Il reverendo padre che così fa il racconto di questa «commovente» udienza papale aggiunge però subito che «in tutto ciò vi era qualche cosa di vero, e qualche poco di commedia: come ji fatti hanno poscia dimostrato esserne in tutti gli atti e parole del Pappalettere» (10). Un «guntheriano», dunque, cioè un seguace o simpatizzante di un indirizzo teologico condannato dalla chiesa, prima con Breve di Pio IX del 1867 e poi dal Concilio Vaticano, perchè fondato «sugli errori di Cartesio, di Kant e di Hegel», Che cosa fosse la teologia guntheriana ora non ci interessa. Ci interessa sapere che il «facondo», «franco, espansivo e fidente» abate, che fu senza dubbio il primo maestro di filosofia del Labriola e che anche dopo la udienza pontificia continuò a coltivare relazioni con eminenti ecclesiastici tedeschi, anche seguaci del Gunther, non potè non dare al suo allievo la prima energica spinta verso quegli orientamenti filosofici da cui doveva scaturire, poi, anche il suo marxismo. Anche in convento, in quei tempestosi decenni del secolo decimomono, il diavolo hegeliano era riuscito a cacciar la sua coda.

    3. — Da Hegel al marxismo

    Il marxismo è, nella storia del pensiero umano, un rivolgimento radicale, una rivoluzione. È il punto di arrivo di una lotta combattuta per secoli e secoli, attraverso la formazione, la critica, il superamento e la dissoluzione di numerosissimi sistemi e metodi del pensiero, tra la concezione materialistica del mondo e le differenti concezioni non materialistiche. Il materialismo filosofico si fa strada lentamente, conquista con difficoltà le proprie posizioni, le estende e sembra trionfare, di solito, nel momento in cui si affacciano alla storia classi nuove, rivoluzionarie, le perde nei periodi di sopravvento reazionario e di decadenza, le riacquista con una polemica che non si perde mai, nemmeno nelle epoche del più esaltato spiritualismo e del più grande disprezzo per la ragione umana. Il suo progresso si compie quindi sì in antitesi con le concezioni, quasi sempre prevalenti, che lo respingono e lo condannano, ma le sue manifestazioni e le sue conquiste si attuano spesso nel campo stesso del nemico aperto e ad opera di pensatori che d’essere considerati materialisti o anche solo inclini al materialismo avrebbero ripugnanza e alle volte persino paura. Posizioni che contribuiscono a una concezione materialistica sono scoperte, elaborate, difese da correnti del pensiero scolastico medioevale, dai creatori dei grandi sistemi metafisici del Rinascimento, da pensatori e scienziati per altra parte ossequenti ai tradizionali insegnamenti della religione. Il marxismo è una rivoluzione nella storia del pensiero prima di tutto perchè rende totalmente esplicite le posizioni del materialismo e liquida, quindi, i mezzi termini, ma soprattutto perchè dà al materialismo un contenuto e un metodo del tutto nuovi, lo fa uscir dalle secche in cui era arenato, non solo gli dà la capacità di intendere razionalmente l’uomo, la natura e la storia, ma fonda una nuova dottrina dell’azione. Questo avviene perché i creatori del marxismo, avendo seguito lo sviluppo del pensiero filosofico fino ai punti più alti da questo toccati nel periodo critico del trionfo delle rivoluzioni borghesi e del successivo nostalgico ripiegare verso il passato, hanno saputo ricavarne elementi sostanziali, da cui la concezione del mondo del materialismo è stata completamente rinnovata, e rinnovata in modo tale che le dà su tutti gli altri sistemi filosofici una superiorità definitiva. La lotta tra le opposte concezioni del mondo, anche dopo la rivoluzione operata dal marxismo, continua e continuerà, non vi è dubbio. Il marxismo è però già superiore, in questa lotta, per il fatto che il suo stesso metodo gli consente di spiegarne tutti i momenti, mentre l'avversario può soltanto negarci, non può comprendere la necessità che noi esprimiamo. Per sopprimerci, bisognerebbe chiudere il corso della storia. La stessa concezione marxista, poi, non può nè potrà mai ritenersi chiusa nelle proposizioni elaborate dai suoi creatori e maestri più grandi. Lo sviluppo delle cose reali e delle relazioni tra gli uomini, il progresso del pensiero scientifico, della indagine filosofica e dell’azione concreta non possono non porre problemi nuovi, la cui soluzione non poteva, precedentemente, essere conosciuta. Non ha detto esplicitamente lo stesso Federico Engels, e non ha confermato Lenin, che la concezione materialistica del mondo deve «cambiare la sua forma ad ogni scoperta che fa epoca nelle scienze naturali» (1), e cioè a seconda che progredisce la nostra conoscenza del mondo?

    Queste osservazioni di indole generale hanno per noi, qui, una duplice importanza. Ci importa prima di tutto sottolineare fin d’ora questa necessità dello sviluppo continuo del pensiero marxista in relazione con lo sviluppo del mondo reale, perchè questa esigenza fu senza dubbio da Antonio Labriola profondamente sentita quando, fatta sua la concezione marxista, si accostò al complesso dei fatti di ordine nazionale e internazionale, cercò di comprenderne tutto il significato e adeguare ad essi una azione. Ci interessa d’altra parte saggiare il pensiero stesso del Labriola per scoprire in qual modo, attraverso a quale processo di critica del pensiero altrui e di originale ricerca egli ria arrivato al materialismo marxista e quindi se una particolare impronta, derivante da questo processo, il suo pensiero abbia conservato, e quale.

    E qui è inevitabile debba essere preso come punto di partenza e confronto lo sviluppo stesso che si compié, partendo dalla filosofia hegeliana, nel pensiero del creatore del marxismo, cioè di Carlo Marx. Orbene, di questa ricerca, che tende a stabilire la relazione che passa tra il sistema filosofico hegeliano e la dottrina marxista, sono chiari, noti e fuori discussione, per noi, i risultati generali, ma non altrettanto chiari sono i momenti particolari concreti della relazione, che invece sono quelli che per la nostra indagine banno un valore.

    Lo stesso Marx, in un Poscritto (del 1873) alla terza edizione del Capitale (2) si è sbrigato della questione molto rapidamente:

    «Fondamentalmente. — egli dice — il mio metodo è non solo differente da quello hegeliano ma ne è anche direttamente l'opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente col nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell'idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che l'elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello (3) degli uomini».

    Qui troviamo soltanto la contrapposizione generale dei due metodi di pensiero, ma, dopo avere ricordato come circa trent'anni prima fosse diventato quasi una moda, in Germania, considerare Hegel come «un cane morto», Marx così prosegue:

    «Per questo mi professai apertamente scolaro di quel grande pensatore, e nel capitolo sulla teoria del valore civettai persino qua e la col modo di espressione che gli è proprio (4). La mistificazione che la dialettica subisce nelle mani di Hegel non impedisce in nessun modo che egli per primo abbia esposto in modo ampio e consapevole le forme generali del suo movimento. In lui essa sta dritta sulla testa. Bisogna rovesciarla, per scoprire il nocciolo razionale entro alla scorza mistica».

    In termini analoghi le due opposte concezioni filosofiche sono definite in altri luoghi delle opere posteriori al periodo giovanile, dallo stesso Marx e da Federico Engels. Questi ha dedicato, nel 1886, alla esposizione delle relazioni tra il materialismo filosofico marxista e la filosofia classica tedesca uno dei suoi scritti più noti (5), nel quale balenano come lampi geniali alcune verità che altri pensatori dovranno sbandierare come loro scoperta, parecchi anni più tardi, come quella, ad esempio, della riduzione della filosofia a metodologia della storia e delle scienze naturali. In questo scritto, però, l’attenzione è particolarmente concentrata sulla parte avuta da Ludovico Feuerbach nel superare la concezione idealistica hegeliana e fare ritorno a una concezione materialistica, e la concezione materialistica del Feuerbach viene ampiamente criticata, pur dopo avere riconosciuto come essa abbia avuto una parte importante, anzi decisiva, nel favorire la crisi e la decomposizione dell’idealismo filosofico tedesco. Manca invece anche in questo scritto ciò che più interessa noi in questo momento, e cioè una particolareggiata esposizione del processo critico attraverso il quale Marx ha determinato la sua posizione verso la filosofia hegeliana, e occorre riconoscere che questo tema non è stato sinora studiato come merita di esserlo da parte di chi intenda mettere in luce che cosa è il marxismo nei confronti del precedente filosofare.

    E’ dedicato a questo tema, col titolo di Evoluzione filosofica di Marx, uno scritto di Plechanov (6), che però non soddisfa e le cui conclusioni sono in gran parte da respingere, Plechanov distingue tre «diversi fasi» nelle relazioni di Marx verso Hegel, In un primo periodo Marx sarebbe stato seguace incondizionato di Hegel. E' il periodo degli studi universitari e dei primi scritti originali; giunge fin verso il 1840 e lo scritto più notevole che vi si riferisce è la Dissertazione di laurea sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro. Questa si muoverebbe tutta nell'ambito del pensiero hegeliano. Il secondo periodo, che incomincerebbe verso il 1840, e in particolare con la pubblicazione della Sacra famiglia (febbraio 1845), sarebbe quello della lotta decisa contro l’hegelismo tradizionale. In questo periodo la relazione verso la filosofia di Hegel sarebbe esclusivamente negativa e si esprimerebbe nel modo più radicale, attraverso le critiche distruttive rivolte al gruppo dei seguaci di Hegel appartenenti alla cosiddetta «sinistra». Non si troverebbe negli scritti di questo periodo nessuna traccia di un giudizio positivo, nemmeno per quanto riguarda la elaborazione del metodo dialettico. Successivamente invece, in un terzo periodo, essendo giunti i creatori del marxismo alla piena elaborazione delle dottrine del socialismo scientifico, essendosi totalmente posti su un terreno del tutto loro, essi sarebbero stati in grado di fare alcune riserve alle loro vecchie critiche della filosofia hegeliana, e così sarebbero giunti ad apprezzare in modo positivo la scoperta ella dialettica, fatta dal grande filosofo di Stoccarda.

    Le cose però non stanno così e l’errore di Plechanov si può solo spiegare, oltre che con la sua tendenza a generalizzazioni schematiche e superficiali, con la imperfetta conoscenza di importanti documenti dell’attività mentale di Marx e di Engels, che solo più tardi vennero scoperti.

    La dissertazione (che è del 1841) è senza dubbio un lavoro che palesa una influenza profonda, decisiva della filosofia di Hegel (7), Hegeliana è la terminologia, hegeliano il metodo di dedurre una posizione dall'altra, di definire le differenti dottrine filosofiche come differenti manifestazioni dell’autocoscienza, ecc. Non si può però fare a meno di notare subito che lo studio, il quale vorrebbe dimostrare come Epicuro abbia superato il carattere meccanico del materialismo di Democrito (Epicuro è considerato fondatore di una «scienza naturale dell’autocoscienza»), si risolve in sostanza in un primo tentativo di trovare una filosofia materialistica alla quale non sia alieno il concetto del movimento, dello sviluppo, della libertà. Se si esamina il lavoro con attenzione, si deve infine concludere che questa è l’opera di un allievo di Hegel il quale però è già insofferente della ortodossia hegeliana e cerca una via nuova, pur non essendo ancora riuscito a trovarla. La stessa scelta del tema ha un certo contenuto polemico. Il giovane Marx attribuisce ai pensatori del più tardo periodo della filosofia greca (stoici, cinici, epicurei, scettici) una posizione particolarmente importante nella storia del pensiero, ed è evidente il suo proposito di darne la dimostrazione in contrasto e in nascosta polemica precisamente con il modo come Hegel aveva trattato questi filosofi nella sua Storia della Filosofia. Quindi egli incomincia, in una breve prefazione, con l’affermare che solo dall'opera di Hegel si può datare l’inizio di una storia della filosofia in generale, ed è affermazione che anche oggi si può sottoscrivere perchè è vera, ma quindi aggiunge che la stessa meravigliosa arditezza e grandezza dei piani hanno reso impossibile a Hegel riconoscere l’alto significato che i pensatori, che la Dissertazione si propone di studiare, hanno per la storia della filosofia greca e dello spirito greco. Quale fosse questo alto significato risulta, più che da quei capitoli della Dissertazione che ci sono stati conservati, da alcune osservazioni al testo e da frammenti molto interessanti dei lavori preparatori. Il periodo alessandrino viene indicato come uno di quei punti nodali in cui la filosofia essendosi «chiusa in un mondo completo, totale», trova il suo sviluppo in un «rapporto pratico con la realtà», nel quale la totalità si spezza («tramontato il sole di tutti — dice Marx con immagine affascinante — la farfalla notturna cerca la luce della lampada del privato»). Vi è qui uno spunto originale di storia della filosofia, e sì comprende come Marx coltivasse per lungo tempo l’idea di ritornare su di esso e svilupparlo. Ciò che più interessa è però che lo stato di crisi additato nella filosofia greca viene in un altro frammento riferito direttamente al pensiero filosofico tedesco. E' finito il periodo in cui l'hegelismo era una scienza in divenire (werdende). Ora è una scienza ricevuta (empfangene). E’ giunto il momento del «passaggio dalla disciplina alla libertà» ed è una legge psicologica che «lo spirito teoretico divenuto libero diventi energia pratica», si rivolga alla realtà del mondo, che preesisteva senza di lui. Così la filosofia entra in un processo contraddittorio; l’autocoscienza filosofica si divide in due indirizzi di cui uno tiene fermo il momento e principio della filosofia, l’altro il momento della realtà. La prima è «il partito liberale», l’altra «la filosofia positiva» e dalla loro contrapposizione escono alla fine due opposte correnti filosofiche.

    Qui è espressa chiaramente la consapevolezza che la ortodossia hegeliana deve essere e sta per essere superata, ed è chiaro che si pensa che la strada nuova debba essere trovata passando dal puro pensiero alla pratica, dalla filosofia alla politica. Subito dopo, però, gli epigoni dì Hegel, i pensatori che emergono dopo che si è spenta la sua voce e cui spetterebbe il compito di aprire la nuova strada, sono con giovanile insolenza, benchè si collochino dietro una colossale figura del passato, qualificati «asini sotto una pelle di leone». Il compito è dunque posto. Manca però ancora chi sia in grado di risolverlo.

    In questo primo lavoro, nel quale certamente non sono giunti a unità, nè sono adeguatamente espressi i diversi motivi che facevano tumulto nella mente dell’Autore, come, in generale, facevano tumulto nell'ambiente filosofico del tempo, il giovane Marx si colloca però già in modo molto esplicito su una posizione che preannuncia i punti di partenza del suo lungo cammino ulteriore. Non è più un seguace della ortodossia filosofica del tempo ed è già critico verso gli epigoni del grande Maestro, appartengano essi all’uno o all’altro indirizzo. Partecipa però, con impeto giovanile, alla polemica antireligiosa degli hegeliani di sinistra. Scaglia frecciate contro i Padri della Chiesa e il Medio Evo, che hanno posto l’interdetto contro Epicuro. Rivolge una polemica vivace contro Hegel a proposito delle prove dell’esistenza di Dio, che chiama pure tautologie («la prova ontologica non significa altro che questo: ciò che io veramente (realiter) mi rappresento, è per me una rappresentazione vera», ecc.), oppure prove che Dio non esiste. Parla, in termini di filosofica miscredenza, della immortalità individuale. Dappertutto dove, nella esposizione critica del pensiero dei greci, affiora un tema attuale, lo tratta con spregiudicata libertà.

    Anche a costo di allontanarci alquanto dal nostro cammino, abbiamo voluto indugiare su questo primo scritto filosofico di Marx non solo perchè di solito di esso non ci si occupa, ma soprattutto per indicare che una adesione supina alla filosofia di Hegel in Marx non si trova mai, nemmeno nei lavori che a questa filosofia giustamente sono considerati i più vicini. Marx non è mai stato un hegeliano ortodosso, se non forse in abbozzi di scritti di scuola che a noi non sono giunti. Sempre vi è in lui una forte spinta critica. Sempre viene fuori, in un modo o nell'altro, la tendenza non solo a respingere, ma a capovolgere del tutto l’una o l'altra delle proposizioni hegeliane, e sempre si deve riconoscere che la critica e i tentativi di capovolgimento sono fatti nella stessa direzione. Ciò che Marx cerca è, da un lato, di mettere in valore e sviluppare il contenuto rivoluzionario del pensiero di Hegel, volgendosi alla critica non tanto della religione, quanto dell'ordine civile e politico esistente ai suoi tempi. Dall'altro lato è pure continua ed evidente la tendenza a servirsi delle forme di pensiero elaborate da Hegel per avvicinarsi alla realtà e comprenderne lo sviluppo, buttando da parte le deduzioni e conclusioni puramente concettuali astratte. Quando Marx giungerà, tra il 1843 e il 1845, a prendere coscienza di queste aspirazioni presenti in lui sin dall’inizio, la sua critica del pensiero di Hegel prenderà forma definitiva, verrà esposta in modo completo, e saranno gettate le basi della nuova concezione del mondo.

    Allo stesso modo si deve dire che, nel periodo del distacco dalla filosofia hegeliana, Marx non aderì mai pienamente a nessuna delle correnti di pensiero che stavano scaturendo dalla disgregazione della scuola hegeliana. Appartenne al circolo dei giovani hegeliani di sinistra e diede la sua collaborazione all’opera di alcuni di loro, trasse ispirazione e spunti dalla loro vivacissima polemica antireligiosa, cui prese parte, ma non si trova nessun suo lavoro che permetta di classificare il suo pensiero come appartenente a questa corrente. Al contrario, la battaglia contro la retorica filosofica e sociale e contro il misticismo pseudorazionalistico a cui questa corrente mise capo venne da lui impegnata anche prima della definitiva «resa dei conti» con la filosofia di Hegel e condotta non solo con vivacità, ma con violenza e pubblicamente, quasi per sbarazzare il campo da un pugno di ingombranti marionette e potersi misurare con calma con l'avversario serio. Anche per Feuerbach, che pure fu pensatore di ben altra tempra dei Bauer, Stirner e compagni, sarebbe errato dire che Marx sia stato semplicemente un suo seguace. La ricerca non interessa noi in questo momento, ma quando sia condotta seriamente crediamo debba concludersi con la costatazione che l'influenza e l’entusiasmo per l’opera di Feuerbach (ti ricordi il «per un momento diventammo tutti feuerbacchiani» di Federico Engels?) (8) abbiano avuto un decisivo valore soprattutto perchè accelerarono un processo di liberazione che già era in corso, perchè contribuirono alla maturazione di un pensiero da tempo in via di elaborazione. Negli unni dal 1812 al 1815, hanmo scritto gli stessi creatori della dottrina marxista, si assistette in Germania a un «rivolgimento senza uguali». Questo fu, essi dicono, «una rivoluzione, in confronto con la quale la rivoluzione francese fu un giuoco di bambini, una lotta mondiale, di fronte alla quale le lotte dei Diadochi appaiono piccine. I principi sì demolivano, gli eroi del pensiero si abbattevano l’un l'altro con febbre inaudita, e nei tre anni dal 1842 al 1845 venne fatta in Germania piazza pulita più che in tre secoli... Si tratta in verità di un avvenimento interessante: del processo di decomposizione dello spirito assoluto» (9). Si deve riconoscere, giudicando le corse con l’odierno distacco, che la maggior parte di quegli «eroi del pensiero» scomparvero senza lasciar grandi tracce. La loro parte, peraltro, consistette nel dare aiuto a un grande rinnovamento, abbattendo luna o l’altra delle barriere che facevano ostacolo alla rivoluzione filosofica di cui fu autore Carlo Marx.

    Che il punto di partenza di questa rivoluzione sia stato e dovesse essere la filosofia hegeliana è cosa che non ha bisogno di lunghe spiegazioni, se non allo scopo di precisare la portata storica del sistema hegeliano. La storiografia filosofica idealistica sottolinea, di solito, la importanza di questa filosofia come punto di arrivo di uno sviluppo di pensiero che parte dal criticismo kantiano e, attraverso di questo, dall’empirismo e dallo scetticismo dei filosofi inglesi del ’700. Si ostina, cioè, a spiegare Hegel con Kant e quasi solo con Kant e perciò ne nasconde il vero significato. A noi interessa invece mettere in luce un altro elemento. I sistema filosofico hegeliano deve essere soprattutto considerato come il punto di arrivo di una profondissima crisi che investe prima di ogni altra corsa e in modo più evidente non tanto le vecchie dottrine gnoseologiche e metafisiche, quanto la vita reale degli nomini, la economia, la società civile e la società politica, e i vecchi modi di essere e di pensare in tutti i campi. Dell’esistenza si questa crisi il filosofo idealista aveva piena coscienza. Non per nulla nel 1806, nel chiudere le sue lezioni sulla Fenomenologia, egli affermava trovarsi «il mondo in un importante momento, di un fermento in cui lo spirito ha dato una scossa, ha abbandonato la sua precedente figura e ne acquista un’altra». Nella fenomenologia stessa, il concetto è sviluppato nella prefazione:

    «Non è del resto difficile vedere, che il tempo nostro è tempo della nascita e del passaggio a un nuovo periodo. Lo Spirito ha rotto col mondo della sua precedente esistenza e rappresentazione e si dispone a rettarlo nel passato e a lavorare alla sua trasformazione» (10).

    Non era certamente stata la scoperta kantiana della «sintesi a priori» e dell’imperativo categorico a determinare questa «nascita di un nuovo periodo». Era stata prima di tutto la rivoluzione francese, che scosse tutta la società europea e spinse le menti audaci a vedere nuove vie aperte dello sviluppo della umanità. Il crollo dell’ordinamento feudale non poteva non tradursi in una catastrofe delle vecchie dottrine dello Stato e qualsiasi nuova dottrina non poteva non tener conto della prova, data coi fatti, del carattere storico, transitorio, relativo delle istituzioni politiche. In Inghilterra intanto si compiva quella rivoluzione industriale da cui uscì rinnovata una scienza, la economia, che Hegel negli anni giovanili aveva studiato, e da cui fu gettata una luce nuova, ignota ai filosofi politici dell’illuminismo, sulle relazioni che si stringono tra gli uomini nella società. Anche le scienze naturali affrontavano un periodo di crisi. Venivano avanzate (e dallo stesso Kant!) le prime ipotesi evoluzionistiche, cioè si introduceva nello studio della natura la nozione del tempo, proprio mentre del tempo si voleva fare una semplice forma della sensibilità. La vecchia filosofia non era più adeguata alla realtà. I vecchi sistemi materialistici non resistevano alla prova. Alle questioni che sorgono in questo momento di generale crisi, il sistema hegeliano dà risposte di carattere speculativo, astratto. Esso però, mentre è un sistema coerente, benchè puramente speculativo e astratto, della ragione, non solo sbarazza il terreno dagli equivoci kantiani, ma elabora un metodo di pensiero che traduce in termini di filosofia la nuova coscienza rivoluzionaria, la coscienza che non vi è nulla, nella realtà delle cose e della vita sociale, che non sia soggetto a mutamento, che non possa essere trasformato.

    Marx ed Engels lavorarono con acutezza (e furono i primi a farlo) attorno alla distinzione tra il sistema e il metodo della filosofia hegeliana.

    Sulle stranezze ed esagerazioni del sistema, col suo enorme edificio di concetti abbraccianti in ordine rigoroso tutta la realtà, la loro critica non indugiò eccessivamente. Più tardi, Federico Engels non esitò a dire che la filosofia hegeliana della natura, pur essendo piena di sciocchezze e fantasticherie, non ne conteneva più che le dottrine dei naturalisti empirici del tempo, mentre vi era in essa, d'altra parte, molta ragionevolezza (11).

    La capacità del sistema hegeliano di disporre tutta la realtà in un ordinamento strettamente razionale era del resto ed è tuttora uno dei motivi della forza di questo sistema e non può esservi dubbio che il giovane Marx, subendo il fascino di questa forza, fosse dominato dall’idea di una critica la quale non distruggesse il risultato, raggiunto da Hegel, di una visione unitaria di tutto il reale, non ricadesse negli equivoci del criticismo kantiano ed evitasse in pari tempo le assurde vanità dell’idealismo soggettivo. Studioso e «scolaro» di Hegel, egli guarda però ai sistemi materialistici del passato, - Hegel aveva parificato il materialismo settecentesco al teismo, in quanto entrambi pongono alla base della realtà un «attributo senza predicati» (12). Respinto il teismo, si trattava di superare la astratta immobilità del vecchio materialismo, senza per ciò cadere in n’altra vuota astrazione. Questo risultato è raggiunto concentrando l’attenzione e la critica sul metodo della costruzione hegeliana e su quella parte della costruzione stessa, che più direttamente interessava per le conseguenze pratiche, cioè sulla dottrina del diritto e dello Stato.

    Lo studio critico di Marx si rivolse quindi alla Fenomenologia dello spirito e alla Filosofia del diritto e trascurò altre opere. La Fenomenologia era e rimane la creazione più caratteristica di Hegel, anche se è forse la più difficile. Dalla sua apparizione si può datare il sopravvento del pensiero hegeliano sulle altre correnti dell’idealismo tedesco. Marx la chiama, e giustamente, «il vero luogo di nascita e il segreto della filosofia di Hegel» (MEGA, I, 3, pag. 153), e sin dalle prime sue osservazioni si avverte che egli non solo sente la superiorità di quel modo di pensare e spiegare la realtà, ma ne ha assimilato e ne accetta l’essenziale momento nuovo, che è la dialettica:

    «La grandezza della Fenomenologia di Hegel, — egli scrive, — e del suo risultato finale — la dialettica della negatività come principio motore e creatore — è dunque che Hegel concepisce la creazione dell'uomo da parte di sè stesso come un processo, la oggettivazione come contrapposizione, come alienazione e superamento di questa alienazione; che egli dunque concepisce l'essenza del lavoro e gli uomini oggettivi, veri, perchè uomini reali, come risultato del proprio lavoro» (13).

    Queste parole furono scritte nel 1844, e contengono la più chiara affermazione che precisamente fa dialettica è quel «nocciolo razionale» della filosofia hegeliana che doveva essere accolto e sviluppato, perchè costituiva la più grande conquista della filosofia classica e poteva e doveva essere il punto di partenza della nuova concezione del mondo. Ma questo riconoscimento è accompagnato dalla critica. Dove sta l’errore di Hegel? Sta nell’avere fatto del movimento negativo un processo puramente ideale, che si compie tra l'una e l’altra astrazione, e non tra l’una e l’altra entità reale (sia della natura, che della vita e società umana e quindi della storia). La vera essenza dello spirito assoluto, che anima e muove tutta la costruzione hegeliana, è l’astrazione.

    Marx si impadronisce quindi del concetto e del termine di «alienazione» (Antauesserung), col quale la filosofia hegeliana indicava la natura del rapporto dialettico, ma ne rinnova totalmente il contenuto. Con la «alienazione» viene spiegato, prima di tutto, nella Fenomenologia, il rapporto tra soggetto ed oggetto, cioè viene data origine alla oggettività. L'oggetto sorge dalla «alienazione» del soggetto. Anche se è implicita in questa posizione una interessante correzione, che il marxismo renderà esplicita, dei sistemi materialistici del Settecento, l’errore sta nel fatto che il soggetto che si aliena non è l’uomo reale, che con la sua attività pratica dà origine, per esempio, sia alla conoscenza della natura, sia al mondo oggettivo dei rapporti civili e sociali, ma è una astrazione logica, alla quale si giunge attraverso una serie di analoghe relazioni tra entità puramente astratte. Alla fine, osserva Marx con malizia, il pensiero deve sentir noia di questo muoversi fra le astrazioni e per questo esce di sè per creare la natura (MEGA, I, 3, pag. 169). Ma anche la natura a cui si è arrivati seguendo questo processo è solo una serie di astrazioni, e poichè tutto il processo dialettico rimane soltanto formale, astratto, quando esso giunge, attraverso il superamento delle precedenti alienazioni, alla vita umana, questa non è più la vita reale degli uomini. «L'uomo vero e la vera natura diventano soltanto più predicati, simboli» dello spirito assoluto, di un nascosto uomo irreale e una irreale nascosta natura (MEGA, I, 3, pag. 168). Per quanto riguarda la storia, Hegel muovendosi dialetticamente tra l’una è l’altra astrazione, ha soltanto trovato «la espressione astratta, logica, speculativa per il movimento della storia», ma questa «non è ancora la storia reale dell’uomo come soggetto presupposto, bensì è soltanto l’atto generatore, l’atto di origine dell'uomo» (MEGA, I, 3, pag. 153).

    Qui appare la importanza dell’aiuto dato dalla filosofia di Feuerbach alla critica e al superamento dell'hegelismo, ma appaiono anche i limiti di questo aiuto e la necessità che Marx aveva sentito di andare più avanti, di liberarsi anche di Feuerbach. Questi aveva dimostrato che il sistema delle astrazioni hegeliane metteva capo a una restaurazione, in termini filosofici, della religione e della teologia e lo aveva respinto, ponendo, come punto di partenza, non più astrazioni logiche, ma la natura e l'uomo. Querta spinta a un nuovo indirizzo di pensiero è da Marx accolta, esaltata; ma egli non può abbandonare i «momenti positivi della dialettica hegeliana» (MEGA, 1, 3, pag. 166). E' vero che l’uomo è natura, che la natura esiste fuori dell’uomo e prima dell’uomo ed è condizione della sua esistenza, ma una vera conoscenza della natura e dell’uomo, cioè un vero naturalismo e un vero umanesimo si possono avere soltanto se la realizzazione della natura umana è vista quale risultato di un processo di cui è molla la dialettica della negatività, ma che deve essere un processo reale

    «L'uomo è in modo immediato essere naturale. Come essere naturale e come essere naturale vivente è da un lato dotato di forze naturali, di forze vitali, è un essere naturale attivo; queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; d'altro lato, come essere naturale, corporale, sensibile, oggettivo, è un essere passivo, condizionale e limitato, come lo è anche l'animale e la pianta, cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti indipendenti da lui, ma questi oggetti sono oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili alla attuazione e conferma delle sue forze essenziali. Che l'uomo è un essere corporale, dotato di forze naturali, vivente, reale, sensibile, oggettivo, significa che egli ha come oggetto del suo essere, della manifestazione della sua vita, oggetti reali, sensibili o che egli può estrinsecare la sua vita soltanto in oggetti reali, sensibili. Essere oggettivo, naturale, sensibile e parimenti avere fuori di sè oggetto, natura, senso, oppure essere oggetto, natura, senso per un altro, sono cose identiche» (14).

    La dialettica del rapporto tra soggetto e oggetto è mantenuta, ma proprio partendo da questa dialettica viene superata la posizione idealistica in una serie di rapporti reali concreti. «Il naturalismo o umanismo condotto al suo termine si distingue tanto dall’idealismo quanto dal materialismo ed è in pari tempo la verità che li unisce entrambi... solo il naturalismo è capace di concepire l’atto della storia universale» (MEGA, 1, 3, pag. 160).

    Non tanto conseguenza, quanto piuttosto parte integrante ed espressione concreta di questa concezione radicalmente nuova è da un lato lo studio delle relazioni economiche, trama elementare dei rapporti che si stabiliscono tra gli uomini alla base della vita sociale, dall’altro lato una distruttiva critica della dottrina hegeliana del diritto e dello Stato. A questo studio e a questa critica si intrecciano i risultati della ricca esperienza politica del tempo.

    Allo studio della economia politica Hegel stesso aveva del resto aperto la strada. Egli, dice Marx, «si attiene alla posizione della economia moderna» in quanto «concepisce il lavoro come l’essenza che si avvera nell’uomo». Ma egli «vede solo il lato positivo del lavoro, non quello negativo... Il lavoro che Hegel conosce e riconosce è solo il lavoro spirituale astratto» (MEGA, I, 3, pag. 157). Sostituire a questo il lavoro concreto, come si produce realmente, significa non solo mettere nei suoi termini veri il rapporto tra l’uomo e la natura, ma soprattutto aprire e svolgere il nuovo capitolo della critica dell'economia politica. Per questo le pagine dedicate da Marx alla critica del metodo hegeliano sono precedute dalla prima ampia esposizione critica delle nozioni fondamentali della economia, del salario, del capitale, del profitto, della rendita fondiaria, L'esposizione è concreta, precisa, minuta, ma è tutta illuminata dal concetto hegeliano della alienazione. Fatto del lavoro concreto l'essenza della umanità, la alienazione del lavoro concreto diventa la forma fondamentale della alienazione, quella che precede tutte le altre, L'economia diventa quindi la base della storia. L'uomo, diventando salariato, aliena la sua natura umana, diventa merce. L'oggetto del lavoro diventa estraneo a chi lo produce. La società si spezza nelle diverse classi, dei possidenti, dei lavoratori, ecc. Le categorie economiche sono ridotte a espressione necessaria di un processo dialettico reale. E' aperta la strada alla critica che di tutta la società borghese verrà fatta negli anni e nelle opere successive e culminerà nel Capitale, anzi, si può dire che questa critica sia per una grande parte già completa.

    Ma come ci si libera, a sua volta, dalla alienazione del lavoro? Quando affronta questo problema, Marx è da tempo lontano dal puro dibattito formale delle idee. Ha vissuto un intenso periodo di lotta politica; ha già fatto la prova della inconsistenza delle velleità liberali della classe borghese che avanza con cautela e piena di rispetto per la autorità sulla scena della Germania reazionaria e feudale; è già scettico sulle possibilità di un movimento democratico radicale che non trovi punti di appoggio più solidi di quanto non possano essere le convinzioni dei dottrinari di sinistra della filosofia. Emigrato a Parigi rivive, tra i libri, la grande rivoluzione francese e prende contatto, nella vita reale, col movimento socialista e comunista dei lavoratori francesi. Il rapporto è critico. La pura rivendicazione della abolizione della proprietà privata praticamente è vuota, e ni traduce persino nel suo contrario. La via di uscita si ha soltanto quando «l’intero movimento rivoluzionario trovi tanto la sua base empirica, quanto la sua base teoretica nel movimento della proprietà privata» (MEGA, I, 3, pag. 114). Così «l’intero movimento della storia... è l’atto reale di generazione del comunismo» (Id, ibid.). «Tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano» (MEGA, 1, 3, pug. 124).

    «L'emancipazione della società dalla proprietà privata. ecc., dalla schiavitù si esprime nella forma politica della emancipazione degli operai, non già come se si trattasse soltanto di questa emancipazione, ma perchè in questa emancipazione è contenuta la emancipazione universale dell'uomo; la quale è ivi contenuta perchè nel rapporto dell'operato con la produzione è incluso t'itto intero l'asservimento dell'uomo, è tutti 1 rapporti di servaggio non sono altro che conseguenze e modificazioni del primo rapporto» (MEGA, I. 3, pagg. 92-93).

    Anche se la forma non è semplice, si sente che qui è già contenuto tutto il marxismo. Vi è il risultato della nuova spinta decisiva venuta al pensiero di Carlo Marx dal movimento socialista, vi è il distacco dall’utopismo, vi è la concezione del movimento storico come movimento che si compie secondo una dialettica che affonda le radici nella realtà delle cose e della vita degli uomini, ma appunto per questo può essere ed è oggetto di indagine concreta, di analisi scientifica e di conclusioni a questa adeguate.

    La concezione hegeliana del diritto e dello Stato, e quindi della storia, è perciò completamente superata. A questa dedicò Marx due lavori, cdi cui dobbiamo ancora far cenno. Il primo, la Critica delia filosofia del diritto di Hegel (MEGA, I, 1, Pagg. 401-553) è opera lunga, paziente, minuta, che segue in modo analitico, passo a parso, il testo hegeliano e, a differenza dei Manoscritti economico-filosofici cui sopra ci riferivamo e non ostante risalga forse allo stesso periodo di tempo, ha verso la dottrina hegeliana il tono di una critica aspri, che in modo spietato, con insistenza e persino con pedanteria sottolinea e denuncia le incongruenze, e contraddizioni, il carattere spesso puramente tautologico delle proposizioni, di stile oscuro e pomposo, con le quali nel testo di Hegel sono definite le istituzioni civili e politiche. L’errore fondamentale di Hegel è sempre lo stesso. Trasformata l’idea assoluta in soggetto, i soggetti reali, cioè le varie istituzioni, la famiglia, lo Stato diventano tutti predicati di questo soggetto, momenti dell’Idea assoluta. La dottrina dello Stato diventa un «formalismo di Stato».

    «Il vero principio materiale è ... l'idea, l'astratta forma pensata dello Stato, in quanto soggetto; è l'idea assoluta che non reca in sè alcun elemento passivo, materiale. Rispetto all'astrazione di questa idea le determinazioni del formalismo empirico dello Stato appaiono come contenuto, e quindi il contenuto reale appare come materia informe, disorganica (qui: l'uomo reale, la società reale, ecc.)».

    Hegel descrive effettivamente l’essere dello Stato moderno quale è e non per questo è da biasimare, bensì «perchè spaccia ciò che è come la essenza dello Stato», un essere per un dover essere. Il contratto tra la società civile e la società politica, che egli sente come contraddizione, è da lui giustificato, idealizzato, e tutto è giustificato allo stesso modo, persino i pari per nascita, sostegno del trono e della società. Il suo Stato viene ad essere uno Stato dei servitori dello Stato, ecc. (l. c., passim). L’aspro accento della critica rivela che quando Marx attendeva a questo lavoro già era in lui formata la convinzione che l'impulso rivoluzionario insito nella filosofia hegeliana, e che scaturisce teoricamente dalla dottrina della negatività, deve attuarsi in una critica radicale di tutta la società, che ne prepari il rinnovamento, la trasformazione. Per questo, quanto più si sposta all’indietro la data di questo scritto, di solito trascurato perchè invero alquanto farraginoso, (vi è chi vorrebbe riferirlo al 1841-42, anzichè al 1843), tanto più se ne sottolinea l’importanza. Esso ci presenta un Marx avversario e distruttore spietato dei più reazionari aspetti della ideologia hegeliana e sin dall'inizio pronto a ricondurre le istituzioni civili e politiche, il diritto e lo Stato a forme della volontà e della azione umana, le quali hanno la loro origine non nella idea astratta e nemmeno nella natura astratta dell’uomo, ma nella sua natura di essere sociale e nelle sue qualità sociali, e quindi nello sviluppo dei rapporti tra gli uomini nella società. ll soggetto della storia non è più l’Idea, ma è il popolo, e le istituzioni giuridiche e lo Stato sono forme delia sua vita e delle sue lotte reali.

    Il secondo lavoro, apparso nel 1843 (dicembre) col titolo di Per la critica della filosofia del diritto hegeliana. Introduzione (MEGA, I, 1 (1°), pagg. 606 621), è molto diverso per la forma, e dà allo stesso contenuto la esplicita vivacità della polemica politica. Per la profondità del pensiero, per l’ampiezza degli orizzonti abbracciati e per il prestigio dello stile esso si colloca, insieme con lo scritto Sulla questione ebraica, che è dello stesso periodo, all’altezza del Manifesto del 1848. Dell’hegelismo sono rimasti l’acutezza dell’analisi e lo slancio del metodo dialettico, ma per il contenuto tanto Hegel, quanto i giovani hegeliani e Feuerbach sono oramai lontani. Al centro sono le condizioni politiche e sociali della Germania, cui viene dichiarata la guerra; punto di partenza è l’uomo, ma non come essere astratto, posto fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato e questa società producono la religione (e, si potrebbe aggiungere, producono la filosofia idealistica), che è una coscienza capovolta del mondo, perchè essa stessa è un mondo capovolto. Bisogna ristabilire la verità dell’al di qua, e questo è compito della storia. La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. Questa critica sta in mezzo alla mischia e vuole colpire l’avversario, non soltanto capirlo. Non respinge la filosofia, ma vuole realizzarla e poichè dalla filosofia deduce che l’uomo è per l’uomo l’essere supremo, vuole distruggere tutti i rapporti in cui l’uomo è degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole. Ma come fare questa rivoluzione radicale? E’ necessario un fondamento materiale, e questo deve essere dato da una classe radicale, la cui emancipazione coincida con la liberazione di tutta la società. Questa classe, la quale è, per la sua situazione, la perdita completa dell’uomo e può quindi guadagnare sè stessa soltanto attraverso la completa riconquista dell’uomo, è il proletariato.

    Come sì vede, siamo al punto di arrivo, sulla base del quale la dottrina del materialismo storico si dispiegherà d'ora in poi in tutta la sua ricchezza. Le Tesi su Feuerbach, scritte probabilmente nel mese di marzo del 1845 e pubblicate la prima volta da Engels nel 1888 (MEGA, I, 5, pagg. 5323-25), mentre completano e precisano la critica del materialismo di Feuerbach, non aggiungono molto per quello che si riferisce al rapporto critico diretto con la dottrina hegeliana. Esse definiscono esattamente come Marx intendesse il materialismo della sua concezione della filosofia e della storia. Le loro affermazioni però, se non si vuole inaridire questa concezione eccessivamente schematizzandola, non possono essere valutate in modo esatto se non ponendole sempre in relazione sia con la critica della dialettica hegeliana, sia con tutta la parallela critica dei rapporti economici, del diritto e dello Stato. E' questo un tema sul quale occorrerà, più tardi, ritornare.

    Non è nostro compito, a questo punto, esaminare il modo come la concezione marxista del mondo ulteriormente si venne arricchendo e perfezionando. Ci importava soltanto, attraverso una documentazione ampia e precisa (chiediamo scusa al lettore se ha avuto il carattere di una digressione), dimostrare la vera natura e la complessità del rapporto tra il pensiero marxista e la filosofia hegeliana. Questo ci fornirà preziosi punti di riferimento e guida per la studio e la valutazione esatta del pensiero di Antonio Labriola. Occorre dire subito, però, che, da un lato, l’hegelismo si presentò in Italia con alcune caratteristiche particolari, nelle quali alcuni tratti del robusto pensiero che conquistò le menti in Germania nella prima metà del secolo scorso sono perduti, altri invece sono accentuati e persino esagerati, mentre, dall’altro lato, le condizioni della lotta reale in cui si formò il pensiero di Carlo Marx erano troppo diverse da quelle, dell’Italia in cui il giovane Labriola si affacciò alla vita mentale e alla vita pratica.

    Edited by Juche Soldier - 6/2/2022, 15:44
     
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    4. — Movimento e crisi del pensiero italiano nell’Ottocento.

    Lo sviluppo del pensiero filosofico e politico di Antonio Labriola ni colloca tutto nella seconda metà del secolo xix e quasi tutto dopo la formazione del Regno d’Italia con Roma capitale di diritto e di fatto. Sono di qualche anno anteriori al 1870 gli studi, a Napoli, sotto la guida di Bertrando Spaventa. Del 1862 è il primo scritto filosofico, dove con una vivace polemica l’Autore si inserisce nei dibattiti del tempo circa gli indirizzi più generali del pensiero e condanna il « ritorno a Kant » che veniva allora predicato in Germania e già minacciava anche l’Italia; è del 1872 una nota polemica altrettanto vivace, e pubblicata su una rivista tedesca, contro l'hegeliano Augusto Vera, allora insegnante all’Università di Napoli. Questi due scritti, sui quali sarà necessario più oltre indugiare, sono prima di tutto notevoli perchè palesano un pensiero e un pensatore (di diciannove e di ventinove anni, rispettivamente!) che non hanno scrupoli di modestia e immediatamente affrontano, e non senza impulso originale 4 temi più elevati della speculazione. Erano i temi del momento, attorno a cui lavoravano tutti gli uomini di pensiero d’un certo rilievo, e che travagliavano la gioventù. Nessun indirizzo filosofico può, in quegli anni, essere considerato in Italia predominante. Al contrario, le scuole del passato membrano oramai avere pienamente dispiegato la loro forza e nello stesso tempo averla esaurita. Non soddisfano più. Non sono più in grado di orientare le menti e in pari tempo animare i sentimenti e l’azione. D'altra parte, lo stesso fatto che a partire dal 1859 e con una rapidità che ha del portentoso, soprattutto se si tengono presenti i precedenti tormentati sviluppi, sia stato creato In pochi anni lo Stato italiano unitario e nazionale, non colpisce soltanto le fantasie nè soltanto è motivo di soddisfazione e orgoglio nazionale, ma contribuisce a liberare il terreno dai vecchi indirizzi filosofici e politici, perchè alimenta la convinzione che le nuove condizioni del Paese esigano anche una filosofia nuova, Come potevano continuare ad avere prestigio — a parte tutti gli altri motivi di' decomposizione interna — i sistemi di pensiero a cui era stata collegata la politica dei neoguelfi, che affidava al papa la soluzione del problema italiano? Proprio in lotta aperta contro la Corte papale, e in una lotta così aperta che aveva dovuto giungere sino alla detronizzazione con la forza delle armi, l'indipendenza e l’unità d'Italia si eran dovute conquistare! Realizzata questa conquista, di una parte, nel ceto colto, nei gruppi dirigenti e nella gioventù era sentita l'esigenza di dare al nuovo ordinamento politico una giustificazione e un fondamento ideali, mentre dall'altra parte urgeva una folla enorme di questioni concrete, e non poteva quindi non sorgere nei migliori la coscienza che le sole affermazioni ideali non avrebbero potuto servire mai ad assicurare ai nuovo Stato un fondamento popolare sicuro, se quelle questioni, che toccavano le miserevoli condizioni di esistenza di tanta parte degli italiani, non avessero trovato una soluzione giusta. Nel nuovo Stato sussistevano, intatte, tutte le vecchie strutture economiche e sociali, e la nuova struttura capitalistica, già venuta alla luce nei precedenti decenni, si sviluppava però con lentezza, con uno stento che derivava dalla stessa povertà degli abitanti e dalla schiacciante concorrenza straniera e agli uomini politici borghesi toglieva slancio, li spingeva al contatto e al compromesso, nell’interesse della conservazione sociale, con quelle stesse forze reazionarie che dell’unità e dell’indipendenza, ma soprattutto di una Costituzione liberale e di un regime di sviluppo democratico, ne avrebbero fatto benissimo a meno.

    La seconda metà dell'Ottocento fu quindi in Italia tempo di vivaci lotte e di profonda crisi del pensiero. Vi fu col passato una resa dei conti, che non soltanto era giustificata e si imponeva, ma doveva esser condotta con spregiudicatezza, in - modo radicale. Soprattutto a partire dal 1870, si compie una svolta energica, che non lascia fuori nessuno dei campi del sapere, si esprime soprattutto con la crisi interna e con la scomparsa dei vecchi indirizzi filosofici spiritualistici e idealistici e culmina, infine, con la vittoria e con il temporaneo predominio del positivismo. Antonio Labriola si colloca al centro di questa profonda crisi di pensiero, nella quale si formò, dalla quale emerse con la sola posizione ideale cui doveva esser riserbato un avvenire di continuo sviluppo vittorioso, pure attraverso le dure vicende di un contrasto dove la costrizione materiale invano è intervenuta per comprimere la forza delle idee e arrestarne il cammino.

    La crisi che il pensiero italiano attraversa nella seconda metà dell'Ottocento ha premesse molto lontane. L'Italia era stata sino al Rinascimento all'avanguardia del pensiero europeo. Aveva dato, nel Rinascimento, i pensatori più originali, più coraggiosi e audaci. Questi avevano assalito senza scrupoli i vecchi modi di pensare, su cui la Chiesa cattolica aveva fondato le proprie dottrine e il proprio insegnamento. Si erano rivolti con spirito nuovo allo studio dell'attività sensitiva e mentale degli uomini; avevano considerato la natura come il gran libro al quale bisogna volgersi se veramente si vogliono «alzare gli occhi»; avevano gettato con fervore le bari di potenti e nuove concezioni del mondo, al centro delle quali stanno la natura e uomo, e il trascendente religioso è negato, affermandosi l'immanenza del divino nella realtà, aprendosi in questo. modo il passaggio, benchè in forma ancora imperfetta, a ulteriori concezioni naturalistiche e materialistiche. Questo grande slancio di pensiero rinnovatore è spezzato da una serie di tragedie: Tommaso Campanella imprigionato, Galileo Galilei condannato dall’Inquisizione, Giordano Bruno bruciato vivo in Roma. Dopo le lunghe torture di Campanella e il rogo di Bruno, — dirà lo Spaventa proludendo a Napoli le sue lezioni di filosofia nel 1861, — si formarono in Italia come due correnti contrarie: quella dei nostri sommi pensatori e quella dei loro carnefici Questi dicevano, naturalmente, che la loro era la vera corrente della nostra vita, la vera filosofia italiana.
    Questa corrente non è ancora del tutto estinta; anche oggi dicono che l'Italia che noi stiamo facendo, non è la vera. ma la vera è quella che abbiamo disfatta. Tale contraddizione nel seno stesso della vita nazionale impedì lo sviluppo della filosofia del Risorgimento» (1).

    Altrove lo stesso Spaventa parlerà di una forza prepotente e ingiusta che ha arrestato l’Italia nel cammino della civiltà, posto «in luogo della scienza l'ignoranza, in luogo dell'amore l’odio, in luogo dell'unione la discordia, in luogo della virtù la ipocrisia, in luogo delle leggi l’arbitrio umano, in luogo dello spirito la materia, in luogo della vita la morte». Decadenza economica, rovina delle prime forme capitalistiche e sopravvento delle strutture signorili e feudali, asservimento allo straniero e decomposizione del costume furono il corteo che aprì la strada alla Controriforma cattolica e l'accompagnò. Da questa uscì quell’arresto nello sviluppo del pensiero in Italia che durò più di due secoli.

    Le condizioni con le quali lo Spaventa spiega questo arresto e il passaggio ad altri popoli della iniziativa nel campo intellettuale servono probabilmente anche a far intendere la profonda, perplessità che è nel pensiero di Giovan Battista Vico, nel quale vi è uno slancio nuovo e potente della speculazione filosofica, vi è il germe di principi rinnovatori di tutta la scienza, in pari tempo però vi è una oscurità, non di forma, ma di sostanza, per la incapacità di far getto delle vecchie idee e applicare al giudizio del presente e non soltanto del passato la decisiva scoperta della storia come creazione della umanità. E Vico, del resto, rimane per quasi un secolo ignorato, mal compreso, solo.

    I nuovi indirizzi del pensiero venuti alla luce ed elaborati in Paesi che avevano avuto una storia ben differente dal nostro, e che furono prima di tutto l'Inghilterra, i Paesi Bassi, la Francia e infine la Germania, penetrarono, però, e penetrarono largamente in Italia, tanto nel Settecento quanto nella prima metà dell’Ottocento. Vi penetrarono tanto largamente che si è persino potuto parlare, per la seconda metà del secolo xvi e l’inizio del xix, di un «servilismo» dei pensatori italiani rispetto agli stranieri (2). Non era servilismo, senza dubbio, ma, se si considerano con attenzione gli indirizzi del pensiero, della cultura e della vita, non si può non cogliere un difetto altrettanto e forse anche più serio. Arrivano nel nostro Paese le opere degli stranieri, sono lette, diffuse, anche tradotte; vi giungono persino pensatori stranieri a tener lezione, come il Condillac a Parma; vengono accolte, quindi, le dottrine filosofiche anche più avanzate, prima il razionalismo cartesiano, poi l’empirismo degli inglesi e infine anche le dottrine sensistiche dei filosofi materialisti francesi. Avviene però un fatto strano e grave. Queste dottrine erano sgorgate, nei paesi d'origine, da profonde trasformazioni dei rapporti oggettivi e avevan dato luogo, a loro volta, a vaste correnti rinnovatrici non solo del pensare, ma dell'agire; avevano ispirato audaci moti politici rivoluzionari; erano state non solo espressione, ma strumento e veicolo di un generale movimento di ribellione contro i vecchi ordinamenti della società, per la creazione di ordinamenti nuovi, dettati dalla ragione umana. Da noi non avviene niente di questo. Si è cartesiani e persino spinozisti, ma ben ci si guarda dal rivendicare apertamente non diciamo la libertà del pensiero, ma la tolleranza in materia di religione. La miscredenza dei filosofi era stata, in Francia, uno dei fattori della distruzione dell'autorità e quindi della decomposizione della società monarchica feudale. Da noi si può essere e si è nello stesso tempo miscredenti e strettamente devoti dell’autorità civile e religiosa ; razionalisti e scettici, ma incapaci di vedere con occhio simpatico qualsiasi iniziativa di rinnovamento politico e sociale. Si può persino arrivare ad essere razionalisti, miscredenti, scettici, e nello stesso tempo preti o frati. E’ questa la caratteristica di un ceto intellettuale che la Controriforma, incapace di conquistare e trasformare gli animi con un grande pensiero, ha però soggiogato con l’autorità e educato all'ipocrisia. Si ricordi il gustoso episodio, narrato dal De Sanctis nei ricordi della sua giovinezza, quando il giovane, piena la mente dell’insegnamento scolastico che gli ha fornito le «prove» della esistenza di Dio, è messo con le spalle al muro da un vecchio miscredente di provincia, lettore di Locke e di Condillac, e non è più in grado di replicare, perchè insieme con tutte le «prove» gli hanno pure insegnato, nelle scuole, come principio certo, che «niente è nell’intelletto che non sia stato nei sensi», che questa è «la base della conoscenza» e il ponte per passare di qui alla «prova» della divinità non gli è stato indicato.
    Vi furono senza dubbio anche in Italia, dopo il Vico, nella seconda metà del Settecento e nel primo Ottocento, pensatori originali, che affrontarono importanti problemi della economia, del costume, della organizzazione civile e politica della società e alcuni di essi lasciarono orma profonda. Tutta una scuola di pensatori e scrittori esprime una ribellione all'ordine della Controriforma rivendicando i diritti della sovranità civile contro le autorità ecclesiastiche. Il più grande di questa scuola, Pietro Giannone, capace di sviluppare, partendo da quella rivendicazione, un pensiero illuministico originale, finisce egli pure vittima del partito dei «carnefici». La tragedia continua.

    Il pensiero italiano di questo periodo rimane per lo più equivoco, imbarazzato da vecchi timori e vecchie catene, privo di grandi slanci, soprattutto per quanto riguarda le questioni più generali. Si parte dalle dottrine sensistiche per liberarsi dalla vecchia metafisica, nessuno però muove con sicurezza verso una concezione materialistica del mondo, anzi, dove apparisce la possibilità che dal sensismo si passi al materialismo, ci sì ritrae con paura, Spunti di pensiero materialistico vi sono in molti, ma non sviluppati e soprattutto non voluti riconoscere come tali. Vero è, d'altra parte, che la derivazione dal sensismo e la consapevolezza che questo distrugge, alla fine, la certezza del conoscere e mette capo a forme nuove di scetticismo, a negare che la realtà conosciuta sia la vera realtà, spinge a porre con acutezza la questione della oggettività delle conoscenze e quindi della realtà del mondo. La ricerca è però condotta con metodo per lo più eclettico, facendo ricorso, più che a rigorose deduzioni da un principio, a espedienti di un ragionamento superficiale, nell'intento di mettere in salvo la tranquillità della coscienza e la solidità dei cosiddetti principi morali già garantite dalle vecchie filosofie e dalle vecchie credenze, senza peraltro rinunciare alle novità del tempo. Sembra che il pensiero nostro non possegga ancora coraggio sufficiente per spezzare del tutto le vecchie catene.

    Questa singolare impronta del pensiero filosofico italiano non scompare, anzi si accentua quando si diffondono la conoscenza e lo studio della filosofia critica kantiana, che essa pure muoveva dalla necessità di risolvere i problemi posti, ma non risolti, dall’empirismo e dal sensismo. Kant viene studiato, assimilato, discusso, ma soprattutto per respingerne le conclusioni pericolose. Si avverte che la filosofia kantiana, anche se rimane incerta tra materialismo e idealismo, e alla fine non esce dallo scetticismo, nè però un colpo mortale alle vecchie credenze.

    «Si teme in Italia, — affermerà lo Spaventa riferendosi precisamente ai dibattiti ideali di questo periodo, — dove ha sede antica un'autorità spirituale riconosciuta infallibile (lo scritto è del 1868, un anno prima del Concilio vaticano che proclamò il dogma della infallibilità. Nota di P. T.), sì teme come corruttrice del cuore la filosofia tedesca! Ovvero si teme — questo sarebbe le fin mot della cosa — che quella filosofia non dia il calcio di grazia a questa tarlata, eppure ancor viva, autorità spirituale? O paolottismo!»(3).

    Quello che la filosofia kantiana conduceva a termine era il processo di eliminazione del «buon vecchio Dio» dal campo della speculazione, processo iniziato nel secolo xvi: dal naturalismo e dal teismo e che lo stesso Spaventa ha descritto con rapidi tratti magistrali:

    «Io capisco il teismo del secolo passato, coma capisco il naturalismo, furono due cose necessarie: direi quasi la stessa cosa. Il teismo fece del vecchio, capriccioso e incomprensibile Dio dei tempi passati il vescovo in partibus (cioè: fuori della sua sede, P. T.) dell'universo; e a nome della ragione umana lo dichiarò professore emerito, ritirato coll'intero stipendio, e lo decorò della gran croce dell'ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Il naturalismo gli tolse di fatto il governo del mondo, e — come accade in cose simili — non ebbe sempre per lui tutto quel rispetto che gli si doveva... Povero vecchio! A conti fatti, era stato il nostro Papà, ostinato, collerico, crudele qualche volta, e anche imbecille; ma le viscere parlano e il sangue non si rinnega... io mi raffiguro questa situazione del secolo passato un po' simile a quella che la Carta dei 1830 faceva al re dei francesi: il re regna, ma non governa... Ciò non impedì però l'ultima conseguenza, quod erat in fatis: un bel giorno, per questa o quell'altra cagione o ragione, lo presero, lo ammanettarono, lo carcerarono, lo giudicarono e lo mandarono alla ghigliottina. Il materialismo fu la ghigliottina del buon vecchio Dio! La divina commedia fu prima recitata in cielo; poi in terra... questo gran moto, questa grande orgia del secolo passato fu davvero una gran cosa: l'unico vero Dio è la natura: l'unico vero sorano è l'uomo, il popolo... Il vecchio Dio, che, sebbene decollato, come il gigante Orrilo, non si dava per morto, rideva a crepapelle dalla consolazione: espulso dalla finestra, sperava di entrare per la magna porta, per la porta del. l'uomo. Ma il proverbio dice: riderà bene chi riderà l'ultimo, e l'ultimo a ridere non fu lui. In apparenza egli rientrò: la restaurazione divina fu festeggiata con cento e un colpo di cannone; i devoti rialzarono gli altari; ll Palmaverde della vecchia corte fu riabilitato; ma fu un'illusione ottica: erano i morti che figuravano da vivi... Tutto questo fracasso non fece nè anche udire l'ultimo grido del vecchio Dio, il quale era stato morto davvero; e chi gli recise il fatal capello fu una, o meglio, due persone dabbene, timorate di Dio, spiriti solitari, con parrucca e codino; l'una dal golfo di Napoli, l'altra da quel di Danzica» (4)

    Naturalmente lo Spaventa riteneva che anche il teismo e il naturalismo fossero stati uccisi dal pensiero di Giovan Battista Vico e di Emmanuele Kant, e al vecchio Dio si fosse sostituito, come nuova divinità, lo «spirito» della filosofia idealistica. Ciò non toglie che, a differenza di tanti tra gli epigoni di questa filosofia, che son finiti chierici e sacrestani, egli sentisse e rivendicarne l'ispirazione anticlericale e umanistica del pensiero moderno, anche se a questa ispirazione i singoli pensatori non erano stati capaci di tener fede sino all'ultimo. Il carattere contraddittorio ed equivoco della dottrina kantiana si prestava facilmente, del resto, a soffocare e distruggere questa ispirazione, e servirsi dello stesso criticismo per dare ‘ un nuovo fondamento alle vecchie ideologie religione. A questo si adoprarono nella prima metà dell'Ottocento i più grandi e più noti dei pensatori italiani, e in prima linea il Rosmini e il Gioberti. Oggi lo si riconosce apertamente. Michele F. Sciacca, che certamente non è pensatore che possa essere sospettato, in questo caso, di giudizio malevolo, perchè è egli stesso uno «spiritualista cristiano», caratterizza il movimento che fa capo a questi due pensatori come «restaurazione del pensiero tradizionale a contatto con le esigenze della filosofia moderna», e spiega il tentativo di questa restaurazione con «la consapevolezza che la perdita dei valori cristiano cattolici comporta la rovina della civiltà occidentale o europea e che la umanità potrà trovare uno stabile equilibrio solo nella restaurazione di casa». E così prosegue:

    «Quegli uomini si sentirono impegnati a riporre il problema della civiltà occidentale in tutta la sua complessità e, prima ancora che fosse evidente come lo è oggi per noi, ebbero la percezione che la civiltà europea corresse un grave pericolo, appunto per l'affermarsi di un pensiero, nato e sviluppato in Europa e per opera di europei, ma sostanzialmente espressione dell'Antieuropa, dentro l'Europa stessa, da parte di europei antieuropei» (5).

    Non molto differente fu il primo giudizio su quelle filosofie dello stesso Bertrando Spaventa, In quella del Rosmini vedeva «non... a dir vero una filosofia, ma una artificiale rievocazione della scolastica», che se «alligna in Italia ci tornerà pure il Medio evo». In quella del Gioberti riconosceva «la filosofia mosaica», cioè un travestimento filosofico delle dottrine cattoliche della creazione. In seguito egli lavorò molto attorno alle forme di questo travestimento e di quella rievocazione e ne colse gli elementi, che a lui parvero positivi, di elaborazione dei temi della filosofia classica tedesca, ma quel primo giudizio rimane, nella sua immediatezza, il più vero, e gli stessi eventi politici, come già abbiamo accennato, si incaricarono di mettere presto tine alla «popolarità» di quei sistemi filosofici.

    Anche in un altro campo, in quello degli studi storici e della dottrina della storia, venne condotta in Italia con efficacia, nella prima metà dell'Ottocento, l’azione volta a impedire o almeno a limitare le ripercussioni troppo pericolose, per le autorità e per gli ordinamenti tradizionali, della grande ondata rinnovatrice e dei fatti rivoluzionari del Settecento. Poichè la concezione della storia è essenziale per la nostra dottrina, è questo un tema che non possiamo trascurare, anche se ci toccherà toccarlo soltanto per brevi accenni. Vedremo in segnato l’importanza decisiva che ebbe, nella formazione del pensiero del Labriola, precisamente il ripensamento della storia della Francia rivoluzionaria. Le sue lezioni sulla Rivoluzione francese sottolinearono nel modo più aperto e persino clamoroso il suo distacco dal vecchio mondo culturale. L'esempio delia Rivoluzione francese fu per quasi tutto l’Ottocento l’incubo dei benpensanti italiani, e soprattutto nei primi decenni del secolo l'incubo era opprimente, perchè quell’esempio non poteva non attrarre tutti coloro che fossero amanti del nuovo, tutti coloro la cui mente fosse aliena da pregiudizi. Ad allontanare l'incubo servì la idealizzazione del passato più lontano, precedente la esplosione rivoluzionaria, e se questa idealizzazione fu, negli scrittori apertamente reazionari, esplicita, confessa e quindi scarsamente efficace, con arte ben più sottile un risultato in sostanza anlogo venne perseguito e raggiunto da pensatori più accorti, che i temi della storia trattarono con perizia ed autorità.

    E' stato detto che aprendosi Ottocento si apre il «secolo della storia», e l’Ottocento stesso, come secolo della storia, viene contrapposto al Settecento, che sarebbe stato il secolo per eccellenza antistorico, incapace, cioè, di valutare in modo oggettivo e razionale il corso secolare degli umani avvenimenti, gli istituti, le leggi, le azioni degli uomini. Ma anche questa affermazione merita di essere discussa. Vi furono tra gli illuministi settecenteschi scrittori che apertamente espressero il loro fastidio per gli studi storici, che consideravano fonte soltanto di scetticismo. Questo era la conseguenza della riduzione della storia alla narrazione di un seguito caotico e anche noioso di avvenimenti, di cui sfuggiva il concatenamento e la giustificazione. Data però dagli storici del Settecento la concezione della storia come storia non solo di re, di regni, di guerre e di battaglie, ma della civiltà umana e dei suoi progressi. Ma la vera questione da chiarire è un’altra.

    Coloro che particolarmente accentuano l’accusa di «antistoricismo» contro il pensiero illuministico del Settecento, sono di molito pensatori che dello storicismo hanno una concezione singolare, unilaterale, («a senso unico», si potrebbe dire), cioè soltanto a ritroso, nella direzione del passato, non in avanti, cioè nei rapporti col presente e con l’avvenire. Questo rimprovero, del resto, è stato giustamente mosso a tutta la filosofia idealistica hegeliana. Il principio della razionalità del reale viene fatto consistere soltanto nella giustificazione razionale (storica) di istituti e situazioni del passato. Lo storicismo si riduce così alla dimostrazione di una interna necessità dei fatti già accaduti. Il metodo viene quindi riportato e applicato anche al presente, sicchè viene presentata come «antistorica», come negazione dello storicismo, qualsiasi critica che in modo radicale tenda a mettere in luce le contraddizioni e quindi la irrazionalità dell’attuale stato delle cose, e in questo modo tenda a giustificare non tanto il presente, quanto un movimento rivoluzionario che lo voglia trasformare. Questo falso storicismo è l'ausiliario migliore della conservazione e della reazione, perchè le copre del manto della razionalità. E’ lo storicismo della scuola storica dei giuristi tedeschi, che Carlo Marx ha bollato osservando come per essa il servaggio e lo knut siano degni di venerazione, purchè siano uno knut e un servaggio «storici».

    Il pensiero razionalistico dei grandi illuministi francesi fu l’ispiratore di un potente moto rivoluzionario, che distrusse un ordinamento politico e sociale, diventato inciampo al progredire tanto della azione quanto del pensiero. Che vale dire che essi non riuscirono a comprendere come quell’ordinamento avesse le sue radici e quindi la sua «giustificazione» secondo la storia, cora che invece dovevano pretendere di aver compreso così bene tutti i reazionari, tutti i moderati, tutti i pedanti dei decenni dopo la rivoluzione? Quei grandi avevano però compreso che quell’ordinamento doveva essere distrutto e scomparire. In questo consistettero la loro intuizione storica e il loro senno della storia, la loro convinzione della «storicità del reale»!

    E’ verissimo che la «ragione» in nome della quale parlavano i pensatori progressivi del Settecento e in nome della quale agirono i rivoluzionari francesi era una ragione astratta. Essi giudicavano e condannavano in nome dei principi astrattamente dedotti da supposte «leggi di natura». Ma ciò che essi criticavano e distrussero ben meritava di essere distrutto e doveva esserlo, e la ragione e la natura, sia pure «astratte», che guidarono la distruzione, non erano altra corsa che ragione e natura umane. Lo stesso Bertrando Spaventa mette in luce questa verità, in un passo dove esprime un acuto giudizio sulla Rivoluzione francese:

    «I filosofi che la produssero, distruggono le credenze più antiche del genere umano, negano lo spirito, proclamano il dominio della natura, non fanno altra differenza tra l'uomo e l'animale, che la forma della mano. Il materialismo era la filosofia del secolo. Nel tempo stesso i filosofi e la rivoluzione proclamano la libertà assoluta dell'uomo, l'autonomia della ragione: abbattono la feudalità, i privilegi di nascita, le classi, le corporazioni. Il loro grido era l'uomo, e non altro cha l'uomo»,

    Questo umanismo era astratto, era incompleto e contraddittorio; ma la contraddizione potrà essere superata soltanto dal marxismo. La critica idealistica mette in luce un difetto del pensiero illuministico settecentesco, ma le sfugge la visione esatta dell'elemento positivo contenuto in questo pensiero, che era lo slancio per trasformare e rinnovare il mondo, L’astrattezza degli illuministi doveva essere superata, ma quello slancio non poteva e non può andare perduto. Il problema che dopo l’illuminismo si poneva non era quello di inchinarsi, in nome della storia e del senso storico, al passato e al presente, qualunque essi fossero, ma era di scoprire uno storicismo vero, integrale, che sia tale nei confronti di tutta la realtà. Uno storicismo vero non soltanto deve guidarci a comprendere perchè gli ordinamenti del passato per necessità oggettiva sorsero e si svilupparono n quel modo, con quel contenuto e in quelle forme determinate, non solo perchè dovettero, per uno sviluppo di contraddizioni oggettive, decadere ed essere distrutti, ma soprattutto deve guidarci a comprendere come anche nel presente siano in atto contraddizioni oggettive e lotte tali, per cui è inevitabile che il processo storico continui, e anche l'ordinamento di oggi debba essere distrutto e scomparire.

    Si dovette giungere sino ad Antonio Labriola perchè questo problema fosse posto e giustamente risolto. Tutto il pensiero italiano, mentre nel Settecento soffrì delle timidezze e incongruenze dell'indirizzo illuministico, in seguito, quando si adegua alle correnti ideali che prevalsero nei decenni della Restaurazione, risente profondamente le conseguenze del fatto che un robusto e audace movimento razionalistico e illuministico non vi sia precedentemente stato. Si fece ritorno a Giovan Battista Vico, lo si studiò, si cercò di farne il genio ispiratore di una nuova cultura; ma il pensiero stesso del Vico soffre per la mancanza di capacità negativa e distruttiva delle cose del presente. «Fare ritorno» al Vico senza essere passati attraverso una tempesta rinnovatrice e purificatrice, è come non volersi muovere dal vecchio scanno, ma cercare soltanto di sederci sopra con un po’ più di «storica» dignità, Come è mancata all'Italia, ed essa tuttora ne soffre, una rivoluzione che facesse in modo radicale piazza pulita nell'ordine delle istituzioni politiche, così ci è mancato lo slancio di un razionalismo impetuoso, che non avesse paura di buttar giù le barriere del passato. Si fecero ricerche interessanti, nello spirito del Vico e per rinnovare lo studio della storia ; vi fu chi giunse a intravvedere, ma non riuscì a costruire, una dottrina razionale dell’incivilimento umano nel suo sviluppo; Carlo Cattaneo, che su questo cammino si mosse di tutti con maggiore audacia, arrivò sino a scoprire e indagare il legame che collega lo sviluppo della civiltà con quello dell'ordinamento materiale della società, della produzione e distribuzione dei beni, e della vicenda delle classi; continuò però a essere in generale prevalente un ristretto spirito di conservazione. Anche sul terreno della lotta per la liberazione nazionale, questo spirito di conservazione fu un inciampo, determinò sviluppi stentati a tortuosi, impedì che la nascita del nuovo Stato nazionale fosse l’inizio di un vero, profondo rinnovamento di tutta la società.

    E’ difficile, sino verso gli ultimi decenni dell'Ottocento, trovare uno scrittore italiano di cose storiche e filosofiche, appartenente al ceto dirigente dell’epoca, il quale, se gli accade di parlare della rivoluzione francese, non ripeta i luoghi comuni del sanfedismo, la esecrazione dei massacratori, dei distruttori di Dio, ecc.; è difficile trovare chi, se gli occorre di nominare Voltaire (il quale pure fu un conservatore!), non faccia gli esorcismi. Coloro che non seguono questo andazzo sono considerati come «irregolari», e non sempre appartengono al campo delle correnti democratiche.

    Non fa eccezione Giuseppe Mazzini, che prende dal passato il fumo ideologico di cui avvolge le sue intuizioni rivoluzionarie e per questo, forse, doveva lasciare traccia così poco profonda nei successivi sviluppi della mente e dell'animo del popolo italiano.

    Dalla scuola dei seguaci della filosofia hegeliana uscirono invece parecchie voci robuste, nuove, spregiudicate. Ma qui il movimento fu duplice e altamente caratteristico. Dapprima vi è, nelle scuole di Napoli, e partendo da esse, una corsa all’hegelismo, che moltiplica la schiera di coloro che lo studiano e, se così si può dire, lo professano, mentre impone a tutti di misurarsi con le idee del pensatore di Stoccarda, le quali vengono universalmente considerate come ii termine ultimo, il punto di arrivo della filosofia laica moderna. Poi si assiste, dopo un paio di decenni o poco più, a una fuga generale dall’hegelismo, attraverso il quale la maggior parte dei pensatori sono passati, ma di cui fanno a gara per liberarsi. Alcuni accenni al modo come questo duplice movimento si compie ci aiuteranno a meglio comprendere quale valore ebbe il pensiero di Antonio Labriola, dove sta la sua inconfondibile originalità storica.

    Il principale motivo che determinò la notevole diffusione delle idee hegeliane in Italia fu sostanzialmente lo stesso che in Germania e cioè l’audacia della sua costruzione, cui si aggiunse però senza dubbio il fatto che, a confronto con il pensiero dei neoguelfi, questa filosofia si presentava come anticlericale, puramente costruita dalla ragione e per la ragione, come una filosofia del progresso e della libertà.

    «... Mi è d'uopo notare, — scrive lo Spaventa, — che in Napoli sin dal 1843 l'idea hegeliana penetrò nelle menti dei giovani cultori della scienza, i quali, mossi come da santo amore, si affratellarono, e con la voce e con gli scritti la predicavano. Nè i sospetti già desti della polizia, aizzati dall'ignoranza e dall'ipocrisia religiosa, nè le minacce e le persecuzioni valsero a infievolire la fede in questi arditi difensori della indipendenza del pensiero, i numerosi studenti, raccolti tra tutti i punti del Regno nella grande capitale, disertavano le vecchie cattedre e accorrevano in folla ad ascoltare la nuova parola. Era un bisogno irresistibile e universale, che li spingeva a un ignoto e splendido avvenire, all'unità organica dei diversi rami della cognizione umana; gli studiosi di medicina, di scienze naturali, di diritto, di matematica, di letteratura partecipavano al general movimento e ambivano soprattutto, come gli antichi italiani, di essere filosofi. Chi può ridire la gioia, le speranze, l'entusiasmo di quel tempo? Chi può ridire l'affetto, col quale si amavano i giovani professori e gli allievi, e insieme procedevano alia ricerca della verità? Era un culto, una religione ideale, nella quale si mostravano degni nepoti dell'infelice Nolano».

    Si coglie qui in modo immediato l'intreccio dei temi della filosofia con quelli della politica e del costume. Si era hegeliani per essere contro i borboni, contro i gesuiti e contro il papa. Si «parlava hegeliano», ricorda Francesco De Sanctis, nei crocchi dei liberali, sotto il naso delle spie borboniche, per prenderle in giro e mascherare il linguaggio dei cospiratori. Dalla filosofia hegeliana si voleva trarre non soltanto una nuova dottrina della conoscenza e una nuova scienza, ma una guida per l’azione e prima di tutto una concezione nuova dello stato, che desse risposta alle gravi questioni che si ponevano in Italia, dove precisamente un nuovo Stato si stava creando, e lo stesso modo della sua origine sembrava escludere che il suo fondamento ideale potesse trovarsi nelle dottrine che erano sino ad allora servite a giustificare ed esultare tutte le tirannidi.

    Ma Hegel giungeva in Italia con grande ritardo, quando in Germania la scuola hegeliana già era in decomposizione. Ad opera della destra il sistema si era fossilizzato, dalla sinistra erano uscite correnti filosofiche radicali e infine il materialismo storico di Carlo Marx. Ripugnando tanto all'una quanto all'altra, il prevalente pensiero filosofico tedesco sviluppava la critica dell’hegelismo, di cui venivano respinte le stesse fondamenta logiche, mentre nuovi principi venivano posti a base di sistemi filosofici, la cui preoccupazione principale sembrava essere quella di restaurare una visione del mondo realistica. Il progresso delle scienze della natura, le scoperte decisive da queste realizzate soprattutto nel campo della biologia, e in pari tempo il progresso impetuoso dell'attività pratica degli uomini, dell'industria, dell'agricoltura, dei traffici, della conoscenza e conquista di nuovi continenti, spingevano le menti ad attribuire un valore nuovo alle cose concrete, al mondo materiale, oggettivo. Non si riusciva più a considerare questo mondo come il semplice riflesso dell’Idea uscita di sè e poi rientrata in sè stessa. Un nuovo naturalismo e il positivismo si affermavano contro le ideologie che avevano dominato nei primi decenni del secolo.

    Con questa svolta che si stava compiendo nel pensiero europeo sono da mettere in relazione alcuni orientamenti caratteristici dell’hegelismo italiano che a noi interessa sottolineare e quella fuga dal campo della filosofia hegeliana di cui abbiamo parlato
    Anche a quei pensatori che avevano tentato di conciliare le novità del criticismo e dello idealismo con le vecchie dottrine e «fedi» spiritualistiche, era stata presente la esigenza di mantenere un valore oggettivo, anteriore alla esperienza, al mondo della natura. La soluzione era stata opportunistica; era stata ottenuta mescolando in modo eclettico principi differenti. Gli hegeliani rifuggivano da una soluzione di questo genere, per la coerenza logica interiore, che è caratteristica del loro modo di pensare e del loro sistema, ma sentivano essi pure la esigenza di dare alla oggettività del mondo un fondamento più consistente che non fossero i gradi, i momenti e lo sviluppo logico dell’Idea, e tanto più fortemente la sentirono quanto più attorno a loro cresceva la tendenza verso quelle nuove forme di naturalismo e di empirismo, le quali dovevano trovare una sistemazione nella filosofia positivistica. Di qui incertezze, perplessità, evidenti e profonde contraddizioni. Se queste non sono state ancora ben messe in luce, è perchè i filosofi hegeliani italiani sono stati sinora studiati a preferenza dai neoidealisti del secolo nostro, che la trascurano.

    Nello stesso Augusto Vera, pensatore scarsamente italiano, ma il più ortodosso degli hegeliani e figura centrale nell'insegnamento dell’hegelismo a Napoli dopo il 1860, una attenta lettura rivela la presenza di contraddizioni non risolute. Rimane oscura, nel suo pensiero, e non ostante egli sia uno dei pochi hegeliani che espone le sue idee con preoccupazioni di chiarezza, la relazione che pausa tra l’Idea. e le manifestazioni di essa, nel mondo della natura e in quello dello spirito. Il salto dalla logica ai successivi gradi dell'Idea è ancora meno comprensibile che in Hegel. Il movimento dialettico che è nella natura già viene indicato come qualcosa di speciale, il che non è conforme al sistema hegeliano ed è già un modo di riaccostarsi al naturalismo. Nel complesso, vi è in lui senza dubbio la filosofia di Hegel, ma gli elementi che compongono questa filosofia tendono a dissociarsi, e la realtà tende nuovamente a presentarsi come spezzata in mondi diversi, così come avveniva nei vecchi sistemi ideologici vicini al pensiero platonico classico.

    Molto più evidenti e profonde le contraddizioni interne del pensiero di Bertrando Spaventa, di cui nel definire gli orientamenti troppo spesso si dimentica che fu il maestro proprio di Antonio Labriola, cioè del primo pensatore che in Italia diventasse marxista. Particolarmente nuoce alla comprensione dello Spaventa, non tanto la oscurità della sua espressione, indice del profondo tormento che travagliava la sua mente, quanto la interpretazione unilaterale dei neoidealisti, che hanno isolato e sottolineano un solo momento del suo complesso ragionare, Chi tenti di abbracciarlo interamente, si trova davanti non soltanto a perplessità, ma a questioni poste e non risolute, che mettono in luce una latente contraddittorietà. Questa risulta già dallo stesso modo di trattare la storia della filosofia. Da un lato è nello Spaventa l’affermazione che «la filosofia... nasce sempre o almeno viene determinata da una data posizione storica della vita», e questo criterio ispira alcuni suoi tratti geniali nel definire le condizioni storiche in cui si sviluppò il pensiero italiano nel Rinascimento e in seguito. Sono però tratti isolati e nulla più, perchè nel trattare delle singole dottrine dei grandi filosofi egli porta alla esagerazione il metodo, introdotto da Hegel, di collegare queste dottrine l’una all'altra come i membri di una sola grande deduzione logica sviluppatasi attraverso i secoli, e non tiene alcun conto delle condizioni storiche in cui ciascuna dottrina è stata espressa e che l'hanno determinata. La sua storia della filosofia è quindi tutta costruita in modo astratto e arbitrario, anche se gli accostamenti di un pensatore all'altro sono di grande aiuto per intendere il cammino che la mente dello Spaventa stesso stava percorrendo.

    Il punto centrale e decisivo riguarda la comprensione stessa del pensiero hegeliano e della sua dialettica. Lo Spaventa, e con lui la maggioranza degli hegeliani italiani (ad eccezione di Augusto Vera) partono, per spiegare Hegel, da Kant e dal criticismo. E' discutibile se questo punto di partenza sia giusto. Nella Fenomenologia e nella Logica la polemica contro il criticismo è infatti continua, anche se non sempre esplicita. Il segreto di Hegel non è tanto Kant, quanto piuttosto il desiderio di liberarsi dalle conclusioni a cui questi era arrivato, Per lo Spaventa è invece decisiva la scoperta della «sintesi a priori», che egli considera come unità di elementi opposti (universale e particolare, concetto e intuizione, ecc.), preesistente alla esperienza. In questa unità la conoscenza si sviluppa come un processo creativo. Che in Kant esistano premesse e germi di questa concezione, non si può negare, e ne danno la prova, se non altro, il modo come a Kant ai ricollegarono i creatori dei sistemi dell'idealismo soggettivo. Tra questi sistemi e la filosofia hegeliana vi è però una differenza profonda. Quello che in Spaventa colpisce è una evidente accentuazione della tendenza a ricavare dal «trascendentale» un ente metafisico trascendente. E la tendenza rimane, non ostante gli sforzi che lo Spaventa continuamente fa per distruggere questa trascendenza, che egli sente inammissibile, perché ammetterla vuol dire fare ritorno alla vecchia metafisica e alla teologia, oppure aprire la strada a un nuovo scetticismo. Dalla prima all’ultima pagina dello Spaventa vi è quindi una continua affannosa ricerca della immanenza, cioè uno sforzo per dimostrare che lo «spirito», la «mente», «Dio» non possono esistere e vivere se non nel concreto dei fatti e accadimenti reali, al di fuori dei quali non hanno esistenza; ma questa stessa tormentosa insistenza sembra fornire la prova che la soluzione ricercata non può esservi, dato il punto di partenza, a meno che «spirito», «mente» e «Dio» si riducano a semplici parole, che si possano togliere senza che nulla cambi, ma in questo caso è tutto il sistema che crolla.

    Altrettanto tormentata è la spiegazione e fondazione del processo dialettico. Hegel lo aveva dedotto, nella Fenomenologia, dal principio di negazione, considerato come la molla di tutto il movimento delle idee e della realtà. Nella Logica il movimento si dispiega attraverso la catena ininterrotta delle triadi di concetti, che fornisce un quadro «del legame universale, multilaterale, vivente, di tutto con tutto, del riflesso di questo legame nei concetti umani, che anch’essi devono essere affilati, lavorati, flessibili, mobili, relativi, legati tra di loro, uniti nella loro opposizione, per poter abbracciare l’universo» (Lenin). Per noi questa catena di concetti uniti da una serie di nessi reciproci è uno specchio della realtà, e la necessità del movimento discende dalla realtà stessa delle cose, in tutti i campi della vita. Il pensatore idealista esige che la giustificazione esca dal sistema, il quale soltanto in questo modo potrebbe diventare un sistema di verità assoluta, chiuso in sè dal cominciamento alla fine. Ma quale deve essere, allora, il punto di partenza? Hegel aveva incominciato la logica con la triade famosa: essere - non essere - divenire. Subito si era incominciato a discutere se sia possibile e in qual modo che dal concetto dell'essere si passi a quello del non essere e poi del divenire, e cioè come quei due primi concetti possano essere insieme eguali e differenti. Soltanto se sono nello stesso tempo eguali e differenti è concepibile il passaggio. Eguali sono, diceva Hegel, perchè l’essere della prima triade è «puro», senza determinazioni. Ma allora non vi è più differenza e nulla si muove. La più acuta conclusione cui si era arrivati, era che il movimento viene introdotto nel sistema da una diretta intuizione della realtà. La filosofia hegeliana cessava di essere un idealismo assoluto. Questo sembra risultare da alcune parole dello stesso Hegel, quando egli precisa che «il divenire è il primo pensiero concreto, e quindi il primo concetto. Il concetto dell'Essere è solo il Divenire, non può essere che il Divenire: Essere e Nulla, invece, sono due astrazioni». Preoccupato dalla contraddizione che qui si faceva manifesta e che, in sostanza, riapriva la strada al materialismo, lo Spaventa si sforza di dare a questo passo di Hegel una sua interpretazione. La origine della unità e della differenza starebbe nell'atto del pensiero che pensa l’essere, e questo atto diventa il motore di tutto il sistema. Così viene portato alla esasperazione il principio, posto da Descartes, della identità di pensiero e di essere, si dimentica la cura che Hegel aveva avuto di dare al sistema un punto di partenza «oggettivo» (non l’«io», ma l’«essere»), e si apre la strada che doveva essere percorsa, più tardi, dai neohegeliani «attualisti», per i quali nell'atto del pensiero tutto si risolve.

    Si muoveva veramente il pensiero dello Spaventa in questa direzione? Avrebbe egli accolto le conclusioni che i neoidealisti italiani trassero da premesse volute ricavare dai suoi scritti? E' difficile dare una risposta positiva, perchè questi scritti, e soprattutto a partire da un certo momento, che è precisamente quello dell'apparire delle nuove correnti naturalistiche e del progressivo affermarsi del positivismo, sono dominati da una ricerca che si muove in opposta direzione. Sorsero dai nuovi sviluppi delle scienze naturali e soprattutto dalle grandi scoperte del darwinismo e delle correnti evoluzionistiche in generale, egli non accoglie queste scoperte nè con scetticismo nè con irrisione, come avveniva allora e avviene ancora oggi. Al contrario, accetta il darwinismo e persino lo inserisce, come «ricerca della formazione o trasformazione di qualsiasi realtà naturale o umana, cioè non solo delle specie inorganiche e organiche, ma anche degli organismi spirituali», nella metafisica, ma respinge la possibilità che lo sviluppo di queste specie e di questi organismi possa comprendersi secondo un semplice rapporto causale. La sua polemica è quindi efficace e giusta contro il materialismo volgare, a cui egli riduce, a dire il vero, tutto il materialismo, ma è priva di efficacia contro una concezione materialistica non più volgare e meccanica, ma dialettica. L’affermazione, con cui egli conclude, che la realtà è principio e fine di sè stessa (Lenin accettava la nozione di causa sui come espressione del rapporto dialetti. co), non imbarazza gran che un marxista. In serio, insuperabile imbarazzo si trova invece qualsiasi filosofia idealistica per collocare nella realtà la natura, senza distruggerla, senza ridurla a serie vana di deduzioni e posizioni astratte, a «costruzione arbitraria dello spirito». Bertrando Spaventa, sempre preoccupato di non perdere la concretezza oggettiva della realtà, dichiara di non «avere il coraggio» di dirsi materialista. Ma lo spirito, riconosce, non può essere senza la natura, che «non si annichila mai». Lo spirito non è «nulla senza la materia», e quindi la filosofia, scienza dello spirito, non esclude, anzi «esige» il naturalismo, il positivismo e lo stesso meccanicismo. La conoscenza non può non essere tutta esperienza e l’idealismo e l'empirismo non possono non avere una base comune, che è l'uomo.

    «...Appunto perchè limitato dalla esperienza, l'uomo fa sè medesimo ciò che egli è: il suo mondo, la sua conoscenza e la sua felicità, tutto quello che egli è come uomo è opera sua. Questo è in generale il gran concetto e significato del lavoro e della storia, che in fondo sono la stessa cosa. Zeller, se ricordo bene dice: allo spirito che ha fatto il vuoto nella teoretica, non rimane che la pratica, l’azione» (6).

    Queste parole furono scritte in un'opera pubblicata postuma. Esse indicano in quale direzione mi muovesse, negli ultimi anni della esistenza, la mente del grande pensatore. La riduzione dell’uomo e della storia al lavoro e della teoretica alla pratica è il punto di partenza del materialismo storico. Si tratta solo di un accenno, e formulato in una polemica contro il positivismo, ma a noi serve per documentare come il pensiero di questo, che fu il più grande dei filosofi hegeliani d’Italia, non solo non ripugnasse alle dottrine nostre, ma finisse per essere spinto in questa direzione, pure avendo avuto un punto di partenza risolutamente opposto, e attraverso una serie di gravi, non risolte contraddizioni. Si comprende come dalla sua scuola un Antonio Labriola potesse uscire.

    La fuga dall'hegelismo di un folto gruppo del suoi seguaci e della cultura italiana nei suoi prevalenti indirizzi fu causata dagli stessi motivi che mettevano in crisi nello stesso Spaventa il suo idealismo assoluto, cioè dai progressi delle scienze naturali e dalla paura che la speculazione filosofica avesse fatto perdere la capacità di rettamente valutare questi progressi e, in generale, la capacità di avere una visione concreta, oggettiva della realtà. Il darwinismo, come già si è accennato, ebbe una parte decisiva nello spingere dall’idealismo e dallo spiritualismo verso il naturalismo e il positivismo. Non si può leggere oggi senza un senso di benevola sopportazione un libro come La critica della filosofia zoologica del XIX secolo, dove Pietro Siciliani, uno dei luminari delle scuole positive, nel 1876, in una serie a dir vero alquanto stravagante di dialoghi, introduce tutti i grandi uomini del tempo a dibattere assai superficialmente il tema della origine e mutazione delle specie. Eppure quel libro ebbe allora un successo enorme, tanto che l’editore potè, pochi mesi dopo la sua apparizione, pubblicare un intero volumetto di recensioni, giudizi e polemiche da esso occasionati, e nel volumetto figurano i nomi più noti e più diversi, dal Tommasi al De Amicis, il Mamiani e dal Fiorentino al Capuana, da D. Berti e Ausonio Franchi al De Sanctis, al Villari, al Bonghi, e a molti altri, oltre a un folto gruppo di stranieri, tra cui persino lo stesso Darwin, Spencer, ecc. E’ un segno del modo come tutto il mondo del pensiero e della cultura, negli anni immediatamente successivi alla unificazione, partecipasse a una grande svolta del pensiero. Giovanni Gentile, nei suoi scritti sulla filosofia italiana nella seconda metà del secolo XIX, ha riconosciuto che questa svolta era necessaria per liberare l’Italia dalle astrattezze diventate insipide dei filosofi spiritualisti. Il positivismo avrebbe adempiuto questa funzione. Il giudizio però non è completo. Anche dalle dottrine hegeliane ci si volle staccare, perchè non soddisfacevano più alle esigenze nuove, Ma non basta. Il movimento verso il positivismo fu, nel più profondo dei suoi motivi, un movimento anticlericale e quindi verso la libertà. Quello di cui ci si voleva liberare era la soggezione alle vecchie autorità spirituali, alla loro ipocrisia, al loro spirito gretto di conservazione politica, alla ideologia stessa sulla quale esse avevano fondato il loro potere. Non per niente è in questo momento che incomincia a farsi strada, negli studi storici e soprattutto nella letteratura (Carducci) una nuova valutazione, positiva e di entusiastica adesione, del razionalismo illuministico e della Rivoluzione francese. Da questo momento, ristabilendosi un legame lontano col primo impulso dato da Carlo Cattaneo, incomincia quello studio più attento, serio, oggettivo della struttura economica e sociale del nostro Paese che metterà capo alle inchieste pubbliche e alle feconde ricerche individuali di studiosi e uomini politici sulle condizioni del Mezzogiorno. Restando nel campo strettamente filosofico, ci si può finalmente professare materialisti e anche atei, senza esser considerati come appestati o cani rognosi (7).

    Dal campo della filosofia hegeliana fuggì tra i primi Salvatore Tommasi, scienziato di alto valore, in cerca della «sorgente purissima della realtà, studiata con l'osservazione e l’esperienza», mentre Angelo Camillo De Meis, anch'egli scienziato e rimasto sino all’ultimo legato alla vecchia dottrina, si arrovellava, con scarso successo, per costruire una sua filosofia della natura applicata al mondo animale. Fuggivano dall’hegelismo il Villari, l’Angiulli, il Marselli, e altri. Francesco De Sanctis chiamava a insegnare in Italia il Moleschott, portabandiera del nuovo naturalismo materialistico. Egli stesso esprime apertamente il suo fastidio per gli schemi della filosofia hegeliana non esita ad affermare che «il materialismo è il mondo che ei riconcilia con la vita», e accentua la ricerca, che del resto è presente sin dagli inizi dell’opera sua, di una visione realistica del mondo e della storia.

    «Quell'indirizzo che ora si chiama (lasciamo stare se bane o male), del materialismo storico, che consiste nel concepire i fatti della storia nella loro gènesi e sviluppo dai più semplici elementi materiali. ha spasso nel De Sanctis un rappresentante non dottrinario, E ciò sembrerà naturale, quando si pensi che quell'indirizzo è nato dalla suggestione dell'esperienza storica, e non può non avere precursori in tutti gli storici dallo sguardo acuto, dalle vedute realistiche, e messi in condizioni da poter bene osservare, Il romanticismo, il neocattolicismo, l'idealismo metafisico, la teoria del progresso, l'eclettismo, e simili manifestazioni intellettuali ed estetiche, sono dal De Sanctis riportate alle basi materiali» (8).

    Questo era costretto a riconoscere lo stesso Benedetto Croce. Il De Sanctis però, a differenza degli altri, fu spinto al distacco dalla ortodossia hegeliana non tanto dallo studio delle scienze naturali, quanto dalla riflessione sulla storia delle grandi correnti del pensiero, sulla storia della cultura e della civiltà, sulle vicende concrete, cioè, della società umana. Era la stessa via, questa, che doveva essere seguita da un altro grande «transfuga» dell’hegelismo, — dal nostro Antonio Labriola.

    Palmiro Togliatti
     
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    1) Luigi Dal Pane, Antonio Labriola. La vita ed il pensiero. Prefazione di Gioacchino Volpe. Edizioni Roma - Anno XIII.
    2) Sandro Diambrini Palazzi, Il Pensiero filosofico di Antonio Labriola, con prefazione del Prof. Rodolfo Mondolfo, della Regia Università di Bologna, Bologna. Nicola Zanichelli editore, 1922-1923
    3) Antonio Labriola, La concezione materialistica della storia. Nuova Edizione, con un'aggiunta di Benedetto Croce sulla critica del marxismo in Italia dal 1895 al 1900. Bari, Giuseppe Laterza e figli Editore, 1938, in Discorrendo di socialismo e filosofia, a cura di Benedetto Croce.
    4) Nuova collana di economisti stranieri e italiani, diretta da Giuseppe Bottai e Celestino Arena. Volume dodicesimo : Politica ed economia, a cura di Roberto Michels, Torino, Utet, 1934/XII
    5) Benedetto Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, in Labriola, La concezione materialistica della storia, op. cit., p. 299
    6) Andrea Torre, Le idee filosofiche di Antonio Labriola, in Rivista italiana di sociologia, Anno X, 1906. L'università di Roma ha respinto, quest'anno, la proposta di rinnovare la commemorazione nel cinquantesimo anniversario della morte. Mentre le idee per cui il Labriola visse e combattè conquistarono il mondo, i centri ufficiali della cultura italiana subiscono il peso umiliante di un duplice asservimento :alla tirannide clericale e a quella, spesso non meno fastidiosa e certo non più intelligente, dei pigmei epigoni dell'idealismo attuale e non attuale.
    7) Paolo Orano, I moderni. Medaglioni, Parte Terza, Milano, Treves, 1909
    8) Ci fa piacere rilevare l'immagine, davvero peregrina con cui l'Orano fa della libertà italiana la «figlia gentile del cauto amore del Conte di Cavour con la bellezza audace dell'unità di Mazzini» (l. c., p. 9); anche il resto è spesso di questo stampo!

    Le fonti di un pensiero originale

    1) Op. cit., p. 280 e segg.
    2) Antonio Labriola, Della coscienza morale, Napoli, 1873, p. 38
    3) Id. ibid., p. 123
    4)Id. Ibid., p. 145
    5) Benedetto Croce, Note sulla letteratura italiana ecc, XXIII. Giovanni Bovio e la poesia della filosofia, Parte Seconda, La Critica, anno V, 1907, pp. 417-418. Analogo giudizio ed espresso quasi negli stessi termini nei Ricordi pubblicati dal Marzocco di Firenze il 14 febbraio 1904 e ristampati in appendice agli Scritti Vari del Labriola (Laterza 1906)
    6) Antonio Labriola, Lettere a Engels, Rinascita, 1949, p. 2
    7) Antonio Labriola, L'Università e la libertà della scienza, Roma, 1897, p. 14
    8) Antonio Labriola, Lettere ad Engels, Rinascita, 1949, p. 142
    9) Carlo Fiorilli, Antonio Labriola. Ricordi di giovinezza, Nuova Antologia, 1906, pp. 59-63
    10) Dalle Memorie del S. Monastero do S. Paolo dall'agosto 1850 a tutto il 1859, scritte dal P. d. Francesco Leopoldo Zelli Jacobuzzi da Viterbo. Cordialmente ringraziamo Monsignor De Luca, il quale ci ha aiutato nella ricerca di queste così interessanti notizie.

    Da Hegel al marxismo

    1) Federico Engels, Ludovico Feuerbach ed il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Rinascita, 1950, p. 30
    2) Karl Marx, Das Kapital, Berlin, Dietz, 1947, p. 18
    3) Ci sembra evidente che qui "cervello" debba essere inteso, per evitare la posizione del materialismo volgare, come il complesso dell'attività conoscitiva umana, di cui il cervello è una delle condizioni materiali poste dalla natura.
    4) In realtà si tratta di qualcosa di più del semplice modo di espressione. Questo è precisamente il capitolo che ha fatto dire a Lenin che “non si può comprendere a pieno Il capitale di Marx e in particolare il suo primo capitolo senza aver studiato a fondo e compreso tutta la Logica di Hegel. Di conseguenza, dopo mezzo secolo, nessun marxista ha capito Marx!” (Lenin, Quaderni filosofici, ed. russa, p. 17)
    5) Sopracitato
    6) G. Plechanov, Opere, vol. XVIII, ed. russa, pp. 324 e seguenti
    7) MEGA (con questa sigla indichiamo l'edizione completa, in lingua tedesca, delle opere di Marx ed Engels a cura dell'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca. Ne sono apparsi, tra l 1927 ed il 1940, undici volumi, di cui sette di opere e quattro di carteggio) I, 1°, p. 5 e segg.
    Nota mia : La stesura dell'edizione Mega, che sta per Marx/Engels Gesamtausgabe, è ancora in corso oggi e sono stati pubblicati 65 volumi fino ad oggi.
    8) Op. cit., p. 22
    9) MEGA, I, 5, p. 7
    10) Phanomenologie des Geistes, Leipzig, 1949, p. 15
    11) Prefazione dell'Antiduhring
    12) Op. cit., pp. 409-410
    13) MEGA, I, 3, P. 156
    14) Oekonomisch-philosophisce Manuskripte, MEGA, I, 5, PP. 160-161

    Movimento e crisi del pensiero italiano nell'Ottocento

    1) B. Spaventa, Prolusione e introduzione alle lezioni di Filosofia, Napoli, 1862, p. 21
    2) L. Ferri, Essai sur l'histoire de la philosophie en Italie au dix-neuvième siècle, Paris, 1869
    3) B. Spaventa, Paolottismo, positivismo, razionalismo. Lettera al prof. A. C. De Meis, in Scritti Filosofici, Napoli, 1900, p. 291 e segg.
    4) Id. ibidem, pp. 299-303
    5) Michele P. Sciacca, Correnti filosofiche e movimenti spirituali (1815-1950), in Questioni di storia contemporanea a cura di Ettore Rota, vol. I, pp. 972-973. E poi si parla i "non partiticità" della filosofia!
    6) B. Spaventa, Esperienza e metafisica. Dottrina della cognizione. Opera postuma, Torino, 1888, p. 138
    7) Si veda come parlava dei materialisti Ausonio Franchi. Io li "aborro"- dice- "con tutte le forze dell'animo mio... li detesto e abomino profondamente e mi fanno proprio schifo e ribrezzo invincibile". Così in una lettera al Siciliani a proposito del libro sopra ricordato pubblicata in Evoluzione, scienza e naturalismo. Napoli, 1877, p. 87
    8) Francesco De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, a cura di Benedetto Croce, Napoli, edizione stereotipa. Luigi Russo (Belfagor, VII, 6, 612), il quale ricorda come il Croce, in una seconda edizione, abbia corretto l'espressione "basi materiali" in "condizioni reali o di fatto". Anche B. Croce, come Ausonio Franchi, "aborriva" il materialismo, persino negli aggettivi!

    Edited by Juche Soldier - 18/1/2022, 22:20
     
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